L'aes grave del Museo Kircheriano/Tavole III. IV. V. VI. VII. VIII. IX.
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TAVOLE III. IV. V. VI. VII. VIII. IX.
Dal museo Coltellini di Cortona e dalle private raccolte d’ Arezzo, e Chiusi viene la poca luce che ci studieremo diffondere sulla oscurità delle monete di queste sette tavole. In quelle tre città vedemmo che vanno comunemente a colare cotai preziosi monumenti, quando vi sia chi li raccolga, e che di colà conviene li tragga chi li voglia vedere altrove. Egli è perciò che in Arezzo, Chiusi e Cortona trovammo scarsissime le monete di Volterra: invece le vedemmo in qualche numero presso il Marchese Strozzi, che in Firenze raccoglieva non le monete primitive della città che non può averle, ma quelle che dalle diverse parti di Toscana si portano in vendita in quella capitale. Di più la copia delle monete aretine, chiusine e cortonesi erano per noi troppo solenne argomento, che la prossima Perugia, la quale per abbondanza di primitivi monumenti non si rimane al di sotto dell’ altre, doveva anche in fatto di monete con esse gareggiare. Interrogammo con avidissima curiosità il Professore Vermiglioli e l’ Avvocato Speroni; ma con rincrescimento rilevammo che que’ due Archeologi per la molta e prudente sollecitudine nel raccogliere ed attendere alle pietre e a’ metalli scritti dell’ antica Etruria, non avean potuto tenere in egual conto le primitive monete della patria.
Mentre cotali fatti ci svelavano la provenienza ordinaria de’ bronzi di queste sette tavole, il peso ne indicava il tempo e il modo della introduzione di quest’arte nell’Etruria. Le monete etrusche sono d’ un peso alquanto minore delle umbre e in particolare delle iguvine. Quando si vogliano tener fermi i principj stabiliti nella prefazione, non si trova alcuna ripugnanza a crederle posteriori di origine. Anzi ne pareva verisimile, che propagatasi quest’arte dalla nostra provincia cistiberina agli umbri di Todi, da’ tudertini agli umbri di Spello, e dagl’ispellati a que’ della confederazione iguvina, si fosse di qua inoltrata nell’Etruria subapennina e primieramente in quelle città, le quali sono poste oltre il Tevere quasi rimpetto alle città iguvine.
La nostra opinione parrà mal fondata a coloro che guardano alla mancanza quasi totale d’iscrizioni nelle monete delle nostre sette tavole: e confessiamo che noi altresì abbiam dovuto per lungo tratto rimanerci in grandi apprensioni sopra un tanto difetto. Dicevamo tra noi medesimi: un’ arte che quanto più cresceva di tempo e si andava dilatando tra le antiche genti italiche, tanto più acquistava di perfezione e di chiarezza, singolarmente dal lato delle iscrizioni, può ben dirsi che gli etruschi, avanzati quant’altri mai nella civiltà e nelle dottrine di que’ tempi, non l’avrebbono mai presa da un modello scritto, qual era l’iguvino, per trarne delle copie quasi al tutto prive di scrittura, come sono le loro monete.
Una tanta difficoltà allora solo cominciò per noi a dileguarsi, quando nella semplicità de’ simboli, stampati su le serie di queste sette tavole, incominciammo a vedere cosa che equivaleva alla epigrafe, e con la più evidente efficacia la rappresentava. La Tavola III. in sei monete non ha che una ruota, la quale opiniamo che dica il solo e vero nome di chi la fece rappresentare: le altre ritengon la ruota e con la ruota questo primo nome nel diritto; nel rovescio poi una v’introduce una bipenne, e in questo simbolo un secondo nome, due altre annunziano nel vaso il loro secondo nome, le tre ultime il proprio loro nome ci rivelano col segno dell’ ancora. Era facile l’ avvedersi, che la serie della ruota ripetuta nel diritto e nel rovescio era il prototipo delle altre. Perciò conchiudemmo, che metropoli esser dovea la città che l’ ebbe in uso, e che l’ altre esser doveano colonie uscite fuori dal suo seno.
Stefano l’antico geografo ci toglie i dubbj rispetto alla metropoli di quella parte d’ Etruria, coll’onorare che la di questo titolo la sola Cortona. Alla testimonianza di Stefano crescono autorità le monete de’ Coltellini. Eravamo noi fatti certi, che i Signori Coltellini per tre intere generazioni avevano raccolti, quanti avean potuto, gli antichi monumenti patrj, e che ciò sempre avean fatto entro le mura e il territorio di Cortona. Dunque, conchiudevamo, se tra le monete in cotal guisa colà da loro adunate si potessero rinvenire quelle che spettano a Cortona, egli è più che probabile, che queste in quella raccolta abbonderebbono sopra tutte l’ altre. E ciò appunto ne era accaduto di vedere nell’acquisto di quel tesoro, nel quale le monete più numerose erano appunto quelle della doppia ruota. Egli è ora nostro debito il dichiarare le relazioni, con che tra loro crediamo si annodino la ruota e la voce Cortona. Abbiamo avvisato essere stati i romani que’ che guastarono il nome primitivo di questa città, come avean fatto di quello di Volterra, chiamando Cortona quella che, secondo Stefano ed altri, fu Croton. Ma neppure Croton può dirsi voce degli etruschi, i quali ne’ loro monumenti scritti non ci hanno data mai a vedere la vocale O. Eglino forse dicevan Crutun o più semplicemente Rutu quel nome che il greco geografo non seppe distinguere da quello della città omonima di Crotone nella Magna Grecia e precisamente nel paese de’ bruzj Una ruota congiunta a cotal nome nelle più elevate parti d’Etruria, non molto lungi dalle prime sorgenti del Tevere, non era per noi che un rinnovamento di ciò che avevam già osservato presso gli estremi e più bassi confini dell’Etruria medesima alle foci dello stesso Tevere. Quaggiù rutuli che voglion essere conosciuti alla sola insegna della ruota; e colassù rutuli che non con altre epigrafi o dichiarazioni, ma con la sola ruota intendono di manifestarci il medesimo nome. Se il Crotone de’ bruzj formasse parte della nostra Italia media, non lascieremmo di rimarcare la somiglianza di que’ nomi con questi nostri; ma sono que’ luoghi troppo da noi lontani, e, venuti in potere de’ greci avventurieri, fuori del nome non han potuto farci pervenire alcun’altra memoria della primitiva loro nazionalità. Coteste nostre interpretazioni non incontreranno per ventura l’approvazione di molti: e noi desideriamo ben di cuore, che costoro ci diano una più plausibile ragione del fatto dell’omonimia de’ popoli e dello città più antiche d’Italia, omonimia che si esattamente si accorda con l’identità delle nazionali loro insegne.
Il Ↄ e il v sempre impressi dopo la fusione su tutte quasi le monete di questa serie, sono per noi cifre di troppo oscura intelligenza. Sia d’altri il penetrarne i sensi e l’indicarcene le utilità storiche e geografiche.
Una bipenne, due vasi e due ancore sono i misterj dove noi dobbiam continuare le nostre discussioni. Congiunti alla ruota cotali simboli hanno a rivelarci i nomi di tre altre città nate dalla metropoli Cortona. La geografia della provincia verso il mezzodì di Cortona ci mostra Perugia, Arezzo verso settentrione, e tra ponente e mezzodì Chiusi. Sarebbe mestieri andar troppo lungi ed uscire da que’ confini, entro a cui cotesto monete si sogliono rinvenire, per incontrare altre città etrusche di qualche rinomanza. Perciò l’impresa nostra debbesi restringere a dimostrare la relazione diretta che i nomi di queste tre città possono avere con la significazione di quei tre diversi simboli.
Opinava il Lanzi, che la ruota e la bipenne delle monete etrusche potessero accennare alla dignità de’ lucumoni e de’ sommi magistrati, che usavano sedia curule e cocchio, e si faceano precedere dalle scuri portate da famigli e donzelli publici; il qual costume fu ricopiato e sostenuto in Roma per un lungo giro di secoli. L’opinion nostra del primitivo nome di Cortona racchiuso in quella ruota è forse meno insussistente. Anzi se al vero si appponesse, ne sarebbe indubitata prova, che nell’intenzione di que’ popoli il nome d’una seconda città si riman come chiuso nella bipenne della Tavola IV. Il genio non molto civile né molto umano de’ romani chiamò Volaterra l’antica Velatri, intitolò Cortona l’antica Crutun o Ruta, e disse Clusium l’etrusco Chamars. Quando fosse giusto il nostro pensiero, minor guasto dagl’incivili conquistatori avrebbe sofferto il nome Perusia che in origine non era forse che Ferusia.
Alla greca etimologia riportatata dal Lanzi, noi sostituiremmo quella tanto più semplice e naturale del verbo ferio, il quale, non potendosi in niuna guisa mostrare di origine greca, lascierebbe luogo a credere, che fosse proprio degl’itali primitivi, e quindi comune a’ latini ed etruschi. Ad esprimere la vera forza della voce Ferusia non era facile il trovare un simbolo più efficace della bipenne, arma che con doppio taglio si adopera a ferire: anzi forse con un medesimo nome gli etruschi chiamavano e la città di Ferusia e la bipenne.
Il nostro pensiero vorrebbe essere confortato col fatto del frequente ritrovamento di cotali bipenni nel territorio perugino. Ma tranne l’osservazione del numero prevalente di ruote fatta da noi nel medagliere cortonese de’ Coltellini, non abbiam per ora da poterci ajutare con questa sorta di dimostrazione né rispetto alla bipenne, né rispetto al vaso e all’ancora delle tavole seguenti. D’altronde la nostra stanza è troppo lontana da quella parte d’Etruria; d’onde ancorché ci venga talora una qualche moneta etrusca, è ben difficile che sia accompagnata dalle indicazioni delle precise località ove sia stata rinvenuta. Persuasi che spesse fiate il particolare terreno, dalle cui viscere esce l’antico monumento, è quasi l’unica fonte di luce che ne rischiari i reconditi sensi, i letterati di quella città si terranno quind’innanzi in maggiore attenzione. Noi di lontano e con ingegnose congetture li poniam su la via che li conduca ad accertare quale in particolare sia la loro moneta antica: ad essi rimane il confermare o rifiutare co’ fatti i nostri pensamenti. Ma non imaginino di potere in breve spazio di tempo venire a capo di sì importante ricerca. Rare possono dirsi le monete di queste sette tavole, singolarmente quelle dell’anfora senza piede e della seconda ancora. Non saranno certamente necessarie le tre generazioni de’ Coltellini: ma pur vi vorrà un buon giro d’anni, una costante attenzione ed una giusta fermezza di raccogliere tutte le monete che truovansi nel paese, o almeno di tenere di tutte un esatto conto, per pronunziare quel giudizio che qui si rintraccia.
Le tre lettere rilevate sul rovescio de’ tre nostri assi e delle parti minori sono il Ↄ, il e il v. Scarsa o nulla è la nostra intelligenza, ove trattasi d’interpretare il senso delle intere voci etrusche: molto più aspro e duro ne pare il segreto di questi tre elementi. Manca questa serie d’oncia fusa; ma dove la metropoli non ha che l’oncia fusa, qui abbiamo oncia, semoncia e quarto d’oncia coniate, come si vede nella Tavola di supplemento. Cotali monete coniate confermano l’opinione nostra intorno alla tardanza degli etruschi rispetto all’introduzione dell’aes grave nelle loro città. Imperciocché di qua noi argomentiamo che quando ciò accadde, il conio era già stato applicato alla fabricazione della moneta. Roma altresì ebbe moneta fusa e coniata contemporanea, ma l’ebbe nella seconda epoca, che è quella che a suo luogo noi chiamavamo epoca delle sue varie diminuzioni. Perugia non ci offre monumenti di tal fatta : la sua moneta non ebbe mai che un solo peso ; e questo è che ne fa riconoscere per semoncia e quarto d’oncia quelle due parti coniate minori dell’oncia. V’è anche su di esse scolpita una nota di distinzione ; perchè l’oncia ha con se il testimonio del valore nel suo solito globetto, nella semoncia vi manca ogn’indicazione, il quarto d’oncia ha la bipenne fornita d’un manichetto, che non si vede in niuna delle monete maggiori. In Todi, città umbra posta a piccola distanza da Perugia, vedemmo pur tre monete coniate di tre grandezze tra loro diverse, ma somiglianti alle tre perugine. Chi sa che dal vicino esempio non venisse Perugia eccitata a farsi propria quella istituzione?
La Tavola X. Classe I. nel rovescio delle sei sue monete ci offeriva al guardo un cratere molto somigliante a questo della Tavola V. Classe III. Allora ci avvisavamo, che come nella ruota della Tavola YIII. di quella stessa classe simboleggiavasi la voce rutuli; cosi in quel vaso vi doveva rimaner nascosto il nome o il sopranome d’un altro popolo, il quale altri forse con ulteriori investigazioni saprà un giorno additarci qual sia. Con molto maggior fiducia possiamo applicare quella maniera d’interpretazione alle monete d’una nazione, la quale universalmente pare che adoperi l’unità del suo simbolo al solo oggetto di far palese il proprio nome. Eccoci pertanto dal presente vaso posti in sospetto, se non assicurati, che questa serie in quella regione d’Etruria per cui ci aggiriamo, a niun’altra città meglio che ad Arezzo possa convenire.
In quella nobilissima provincia dell’antica Italia non v’ha luogo, che più di Arezzo sia rimasto celebre per i suoi vasellami, pregiati e ricercati anche fuori d’Etruria per l’eccellenza sì della creta finissima, sì dell’artifizio ond’erano operati. Il vasto e profittevole traffico incoraggiava quegli artisti e mercadanti a recare le loro opere a quel grado di perfezione e di raffinamento che dalle altre officine non poteva esser vinto ; e basta udire le testimonianze di Plinio, di Marziale e d’altri antichi scrittori, per rimaner convinto, che in Roma stessa in que’ tardi tempi non v’erano vasi di creta che si tenessero in migliore stima degli aretini. Non è perciò che da noi credasi, che la virtù della voce Arezzo, quale potea suonare in bocca agli etruschi, significasse vaso o vasajo. Quel nome dovè forse esser anteriore alle officine vascularie di quella gente; singolarmente se vero fosse, che Areta figliuol di Giano gliel’imponesse. Più verisimilmente può imaginarsi, che per antonomasia gli aretini fosser detti vasai, e che per insegna di gloria nazionale innalzassero quel cantaro che equivaleva al lor sopranome.
Gli studiosi dell’antica geografia avvisati che tre e non una erano nelr Etruria le città di questo nome, saranno per ventura curiosi di riconoscere, quale sìa delle tre a cui l’onore di questo cantaro s’appartiene. Non v’ha dubbio che a quella che Arezzo appellavasi senz’altro aggiunto, e che è il medesimo d’oggidì. Da questo Arezzo pare che si staccasse una prima colonia, la quale scendendo verso mezzogiorno edificò il secondo Arezzo ch’ebbe da’ romani l’aggiunto di Fidens e che in tempi forse meno remoti, se può giudicarsi dal nome, se ne dipartisse una seconda verso settentrione, la quale fondò il terzo Arezzo detto Julium. Le monete della Tavola VI. 5 in cui v’è la diota senza piede, e che provengono da que’ medesimi territori, è facile l’intendere che spettar debbono al più nobile di questi due secondi Arezzi. Noi propendiamo all’Aretium Fidens perchè nel Julium ne par vedere un’epoca meno antica. Nelle vicinanze di Todi c’imbattemmo altresì in una zecca tudertina di second’ordine, la quale segnava in forma ovale il quadrante, il sestante e l’oncia con sopra quella impronta che dice il nome di Todi. Qui l’ignobilità della diota, esclusa dalle sale e dalle mense de’ grandi, e destinata a custodire in oscure celle oglio e vino, direbbesi posta non solamente ad indicare l’inferiorità del grado di questi in confronto degli altri aretini; ma ancora a significare la condizione delle terre ove quest’Arezzo sorgea, le quali se erano addatte alle rozze anfore, non si prestavano alla fabricazione de’ vasi più gentili.
Questa seconda anfora non s’accompagna ad alcuna lettera; la prima per opposto ce ne offre ben tre diverse, il Ↄ, il , e il Μ. Ciò è che ne invita a credere, che le due monetine coniate con queste medesime diverse lettere e col , che finora nelle coniate non ne è venuto sottocchio, e fatte disegnare nella Tavola di supplemento sotto il titolo Classe III. n. 5. e 6., come quelle che con frequenza s’incontrano in Arezzo e ne’ luoghi e città vicine non possano essere uscite che dalla zecca d’Arezzo medesimo. Se non siamo in errore, le imagini che vi sono sopra, sembra che rendano testimonianza del tempo e del perchè di quella fabricazione. Nella testa dell’Etiope e nell’elefante della prima niun mai vorrà riconoscervi impronte etrusche e propriamente nazionali: straniero altresì a noi pare il cane, come straniera all’Etruria è quella testa coperta della pelle d’una fiera che non sappiamo individualmente distinguere. Non sarebbe strano il credere che gli aretini le coniassero d’ordine di Annibale per servizio dell’esercito, col quale egli occupava quella parte dell’apennino ne’ tempi prossimi alla giornata del Trasimeno, e che con quelle imagini alludessero agli elefanti, agli etiopi, agl’ispani e a’ galli, di che quell’esercito era composto. Cosi potessimo veder più chiaro nelle due monetine de’ numeri 7. e 8., singolarmente nella iscrizione, che in una leggesi tutta intera, nell’altra in monogramma. Noi le vediam venire non di rado dagli apennini etruschi, come le sei precedenti; ma nel bujo di quella epigrafe, in cui nascondesi forse la vera loro patria, confessiamo di non sapervi penetrare.
Le Tavole VII., VIII, e IX. contrapongono alla ruota cortonese due ancore tra loro alquanto diverse, ad una delle quali accoppiasi la sillaba . È stato il Lanzi che ne ha guidati a rinvenire il perchè di cotali ancore nelle parti d’Etruria che più dal mare si allontanano; e dove meno cotali istromenti sì adoperano. Sospettava egli che l’ancora co’ suoi angoli formi anche le lettere v ed . Ma un tal dubbio potrebbe accostarsi a certezza, se in luogo di due lettere imaginate a stento, si prendesse l’ancora per una lettera sola; anzi neppure per lettera, ma per simbolo di lettera, e precisamente della prima tra le due, che veggonsi scolpite vicine ad essa nella Tavola IX. L’ancora non sarebbe in tal guisa se non un , e questo la iniziale di Chamars o Chamers antico nome di Chiusi.
Testè discorrevamo di tre Arezzi tra’ più elevati monti d’Etruria; ma se vale l’autorità di Plinio, anche i camerti etruschi ebbero una doppia sede, e i secondi furon detti col meno antico vocabolo clusini novi, i primi clusini veteres. Dopo ciò che abbiam detto su la trasformazione della voce Velatri e della pluralità delle città italiche di quel nome, vana cosa qui per noi sarebbe il rintracciar le ragioni del mutamento del nome Chamars e il propagamento de’ camerti per la Sabina, l’Umbria, l’Etruria e perfino nella Sicilia, nelle quali diverse provincie truovansi città di questo nome. Trasandiamo i confronti geografici per fermarci ne’ numismatici. Le due zecche aretine si dierono a conoscere l’una diversamente dall’altra con la diversa insegna del cantaro e dell’anfora senza piede. Ora posto che l’ancora sia il simbolo de’ camerti etruschi, se costoro, come gli aretini avesser voluto distinguere ancora da ancora, non l’avrebbon potuto fare con eguale facilità, perchè non sono varie le forme delle ancore al pari di quelle de’ vasi. Guardisi contuttociò alle due Tavole VIII. e IX. e si vedrà, che le due ancore non sono in tutto tra loro eguali; mercechè la prima ripiega il doppio corno in un angolo che potrebbe dirsi acuto, la seconda invece lo incurva ad angolo ottuso.
Pur tuttavia quasi una tale distinzione non fosse bastevole, la seconda zecca volle aggiunta all’ancora la sillaba . Quando qui non vi fosse che una lettera sola, noi non la riguarderemmo come iniziale del nome di città, ma la porremmo nel novero delle altre lettere solitarie, che abbiamo incontrate nelle serie precedenti. Nel luogo dove siamo, nelle terre cioè in cui anche i camerti hanno stanza, non sappiamo tenerci in forse, e diciamo liberamente, essere questa la prima sillaba del nome Chamars impressa quivi da’ camerti nuovi a meglio differenziarsi da’ camerti antichi. La diciam propria de’ nuovi piutostochè degli antichi, sì perchè la maggiore scarsezza di queste ancore scritte può aversi come prova di minor grandezza e prosperità, sì perchè il quinipondio e l’oncia coniata, che sono della prima delle due zecche, crediamo che spettino a’ camerti antichi, anche perchè nella lor patria hanno lasciato in tanta copia i monumenti delle arti varie che professavano, da non potersi tener da meno de’ perugini, che pure ebbero il conio applicato alla moneta.
Il comune a tutte le monete della prima ancora in qual senso dovrà interpretarsi? disgiunto dal del quinipondio, o ad essi congiunto? e se congiunto, che valore aver possono que’ tre elementi, a’ quali dovrebbe pure unirsi il Ↄ che non di rado rinviensi nell’oncia coniata? La prima volta che noi fermammo la nostra attenzione su questa parte del medagliere, e vedemmo il digamma ripetuto su tanta varietà di monete, credemmo di potervi leggere il nome di Vultumna, presso il cui tempio sapevamo che i confederati etruschi si adunavano a parlamento: ma dopochè i molti fatti ci ebbero assicurati, che l’Etruria bassa e maritima non potea mostrare il minimo diritto su queste monete, uscimmo affatto di speranza di poterlo dicifrare.