L'Uomo di fuoco/6. Il giboia delle paludi

6. Il giboia delle paludi

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CAPITOLO VI.

Il giboia delle paludi.


Le savane dell’America meridionale sono pericolosissime e lo sanno bene gl’indiani i quali prima di attraversarle si assicurano prudentemente della natura del fondo per non farsi inghiottire. [p. 63 modifica]

Un fango molle, costituito da sabbie mobili, che cedono facilmente sotto il peso d’un uomo o d’un animale qualsiasi che abbia la disgrazia di cadere entro quelle paludi, forma il fondo. E non si creda già che abbia uno spessore di qualche metro, anzi certe savane si può dire che non abbiano un vero strato solido che possa arrestare gli esseri che posano incautamente i piedi su quella fanghiglia.

Sono veri baratri spaventosi, che tutto inghiottono e che più non rendono, nemmeno gli scheletri che rimangono sepolti in quel fango fino alla loro totale consumazione.

Il mozzo, che non aveva mai udito a parlare nè di sabbie nè di savane, era caduto su uno di quegli strati cedevoli e si era sentito sprofondare d’un colpo solo fino alle ginocchia.

Alvaro credendo che fosse stato assalito da qualche caimano, stava per slanciarsi a sua volta nella palude, quando il mozzo lo trattenne con un secondo grido.

— No... no... signore... sprofonderete anche voi!...

Alvaro aveva subito compreso il pericolo, sentendo il fondo sfuggirgli sotto i piedi. Non voleva però lasciare il mozzo il quale continuava a sprofondare a vista d’occhio.

Il disgraziato nel dibattersi disperatamente, anzichè ritardare l’inghiottimento lo affrettava.

— Non muoverti Garcia, — gridò.

Teneva annodata attorno ai fianchi una di quelle lunghe e solide fasce di lana rossa che usano i marinai. La svolse rapidamente, salì sul punto più alto della riva e gettò un capo verso il povero ragazzo che si era nel frattempo immerso fino al petto gridandogli:

— Afferra e tieni stretto! —

La estremità della fascia lanciata da una mano sicura era caduta sulle spalle di Garcia, essendo sufficientemente lunga. Serrarsi quel capo attorno al corpo e annodarlo solidamente, fu un momento solo pel ragazzo che non aveva perduta la testa.

— Lasciati trascinare! — disse Alvaro.

Afferrò la fascia e operò una energica trazione, strappando il giovane marinaio da quell’orribile tomba che stava per rinchiudersi sopra di lui.

Il mozzo non osava dibattersi nè aiutarsi per paura che le sabbie tornassero ad aprirsi sotto i suoi piedi. Già stava per toccare la riva quando un turbine d’acqua e di fango si sollevò dal fondo, coprendolo e acciecandolo, seguito subito da un sibilo acutissimo. [p. 64 modifica]

— Signor Alvaro! — gridò, riparandosi gli occhi. — Il terremoto! —

Altro che terremoto! Un serpente enorme, un giboia o boa constrictor, di lunghezza smisurata, grosso quanto il corpo d’un ragazzo di dieci anni, era improvvisamente sorto fra le canne e le piante acquatiche, sollevando colla possente coda un uragano di fango e di acqua.

Era uno dei più spaventevoli rettili che vivono nelle savane brasiliane, quantunque uno dei meno pericolosi non essendo velenoso come i crotali o come i cobra çapelo.

Interrotto dal suo sonno dal mozzo che rimuoveva il fondo, si era raddrizzato di colpo, sibilando rabbiosamente e dardeggiando sui due naufraghi uno sguardo ardente e affascinante.

Il signor di Correa, senza perdersi d’animo, con un’ultima strappata tirò alla riva Garcia, poi afferrò l’archibugio.

Il rettile, che doveva essere non solo irritato, ma anche affamato, si era diretto verso i due naufraghi percuotendo furiosamente le acque colla coda, come se fosse deciso ad assalirli.

— Fuoco, signor Alvaro! — gridò il mozzo, slanciandosi verso il suo fucile. — Ci divorerà tutti due.

Alvaro mirò qualche istante, poi lasciò partire il colpo.

Il rettile, colpito un po’ sotto la gola da quella scarica di pallettoni, si contorse impetuosamente soffiando orrendamente e vomitando ad un tempo bava e sangue e agitò furiosamente la coda lanciando a destra ed a sinistra spruzzi di fango liquido, poi con uno sforzo supremo si slanciò sulla riva cadendo a pochi passi dal portoghese.

— Il tuo archibugio, Garcia! — gridò il giovane.

Il mozzo che l’aveva già armato, glielo porse prontamente.

Il serpente che si era aggomitolato su se stesso, stava per cacciare la sua coda fra le gambe del portoghese onde rovesciarlo e quindi avvolgerlo fra le sue potenti spire.

Alvaro però si era accorto a tempo del pericolo. Con un salto si gettò da una parte, poi puntato rapidamente l’archibugio glielo scaricò a bruciapelo fra le fauci spalancate fracassandogli la testa.

Quella seconda ferita era mortale.

Il boa nondimeno per la seconda volta si rizzò, toccando col cranio mutilato la cima d’una palma che cresceva a breve distanza, poi ricadde come un pacco di stracci bagnati e rimase immobile. [p. 65 modifica]I pecari giunsero in un lampo addosso all’albero che presto circondarono. (Cap. IX). [p. 67 modifica]

— Perdinci! — esclamò Alvaro che era diventato pallidissimo. — Credevo proprio che questo serpente ci stritolasse come due biscotti. Non avevo mai creduto che potessero esistere sulla terra dei rettili d’una mole così enorme!... Sì spaventevole! —

Quel boa, che è realmente uno dei più enormi che vivono nelle savane brasiliane, misurava non meno di dodici metri di lunghezza ed era grosso quanto il corpo d’un uomo di media statura.

Il secondo colpo di fucile lo aveva quasi decapitato, mentre il primo gli aveva prodotto una ferita orribile dalla quale usciva il sangue in gran copia.

— È enorme! — esclamò il mozzo, che tremava ancora pel doppio pericolo che lo aveva minacciato. — Questi rettili devono inghiottire un uomo senza soffrire nella digestione. Che fosse quello che la notte scorsa sibilava e che sollevava delle ondate?

— Non ne dubito, — rispose Alvaro. — Ecco due buoni colpi di fucile ma che non ci compenseranno della colazione perduta.

— Non oserò più andarla a raccogliere, signore, — rispose il mozzo, che rabbrividiva ancora. — Non so quale fondo abbia questa palude.

— Cercheremo d’altro, Garcia, — rispose Alvaro. — Toh! Dimenticavamo che noi eravamo venuti qui per pescare.

— Ah! Signore!

— Cos’hai?

— Non l’avete ancora veduto?

— Chi?

— Ma sì, non m’inganno! È un canotto, signore!

— Dove lo vedi?

— Laggiù, abbandonato sulla riva, in mezzo a quel gruppo di piante acquatiche.

— Che i dintorni di questa palude siano frequentati dagli indiani? — si chiese Alvaro, lanciando uno sguardo sospettoso verso le canne e la foresta. — Se vi è una imbarcazione, ciò vuol dire che qualche volta vengono qui a pescare. Che cosa dici, Garcia?

— Che il vostro ragionamento non fa una grinza, signore, — rispose il mozzo — e che noi dovremmo approfittare di quel canotto per andare a raccogliere gli uccelli che voi avete uccisi.

— E arrostirli, è vero Garcia? [p. 68 modifica]

— E su uno di quegli isolotti per non farci sorprendere dagl’indiani.

— Al canotto, — disse Alvaro, a cui sorrideva l’idea di attraversare quella palude per allontanarsi maggiormente dalle sponde meridionali della baia che ormai sapeva frequentate dai mangiatori di carne umana.

Attraversarono cautamente la distanza che li separava da quell’ammasso di piante palustri, guardandosi intorno per paura che vi fossero dei selvaggi nascosti fra le macchie, e giunsero presso il canotto il quale si trovava arenato all’estremità di un banco di fango.

Era una piccola imbarcazione scavata nel tronco d’un albero spugnoso, assai vecchia e tarlata, e pressochè inservibile. Infatti vi era un buon piede d’acqua nel fondo.

— Credi che potremo ripararla? — chiese Alvaro al mozzo.

— È in cattivo stato, signore; ci occorrerebbe del canape e della resina. Mi pare che il fondo sia come un crivello.

— Nella foresta troveremo l’uno e l’altra, — disse Alvaro. — Ho veduto delle piante che avevano attorno ai tronchi dei filamenti che potranno bene o male surrogare il canape.

— Ci vorrà però del tempo prima di renderla navigabile.

— La pazienza non ci fa difetto.

— E la nostra famosa colazione, signore? — chiese il mozzo ridendo.

— Ci accontenteremo anche oggi di frutta o farò una nuova scarica contro qualche stormo di pappagalli. Ritorniamo nella foresta, Garcia. —

Stavano per lasciare la riva quando a breve distanza udirono risuonare per l’aria un lamento che si ripetè parecchie volte di seguito:

A... ih!... A... ih!...

— Chi è che si lagna? — chiese Alvaro, guardandosi intorno.

— Non vedo nessuno signore, — rispose il mozzo.

— Che sia qualche scimmia che si diverte a spaventarci? Non mi stupirei. Hanno delle grida così strane i quadrumani che abitano queste foreste! —

Un altro grido più lamentevole, più lugubre si udì e questa volta non pareva che risuonasse verso il suolo bensì in aria.

Alvaro ed il mozzo alzarono gli occhi e scorsero fra i rami d’un nespolo che cresceva isolato, e già privo delle sue frutta [p. 69 modifica]che sono grosse come le mele e assai gustose, una massa informe di peli lunghi e grigiastri che si teneva aggomitolata all’estremità d’un ramo, lasciando pendere una coda lunga più di mezzo metro.

— Ecco le costolette! — esclamò Alvaro. — A qualunque specie appartenga, quell’animale non lo lascerò sfuggire e lo metterò sui carboni.

Badiamo che non ci sfugga, Garcia.

— Mi pare che non ne abbia il desiderio signore. —

Si accostarono alla pianta tenendo gli archibugi puntati su quello strano animale il quale continuava a lamentarsi con degli a-ih! sempre più lugubri.

Vedendo avvicinarsi i cacciatori non faceva alcun tentativo per evitarli. Si manteneva ostinatamente aggrappato al ramo, muovendo appena appena e quasi a fatica, la coda.

— Che abbia le zampe rotte? — chiese il mozzo. — Una scimmia non rimarrebbe lì ad aspettare i nemici, anzi.

— È poi una scimmia? — disse Alvaro.

— Sia una scimmia o no, quell’animale si lascerà ammazzare colla miglior buona grazia. Sarà forse contento di offrire a due uomini affamati le sue bistecche. —

Erano giunti sotto la pianta che era pochissimo alta, e quello strano essere non aveva fatto ancora alcuna mossa per rifugiarsi almeno sui rami superiori.

Assai sorpreso Alvaro si era messo a osservarlo curiosamente, credendo che qualche grave ferita gl’impedisse di fuggire.

Sembrava una scimmia, ma aveva anche molto del tasso ed un po’ anche del gatto.

Non era più alto di mezzo metro, colle membra sproporzionate, la testa rotonda traforata da due occhietti neri e malinconici ed il corpo avvolto in un pelame fitto, lungo, grigiastro e assai ruvido. I suoi piedi erano armati di tre sole unghie, larghe e ricurve al pari d’uncini e così anche le dita delle mani.

— Non ha alcuna ferita e non fugge! — esclamò Alvaro. — Proviamo a farlo cadere. —

Afferrò il tronco del nespolo che non era più grosso del braccio d’un uomo e lo scosse vigorosamente. Fatica inutile! Il quadrumane non voleva saperne di lasciare quel ramo a cui pareva incollato e manifestava solamente la sua collera con degli a-ih! sempre più lamentevoli. [p. 70 modifica]

— Non vuole scendere, signore, — disse il mozzo.

— Andrò a gettarlo giù io, — rispose Alvaro. — Deve essere un gran poltrone questo quadrumane.

— Badate che ha delle unghie assai lunghe.

— Non s’incomoderà ad adoperarle.

Salì lestamente sull’albero e si spinse sul ramo tenendo in pugno la scure. Il quadrumane vedendolo accostarsi si mise a soffiare come un gatto in collera e ad arruffare i peli senza però staccare gli artigli.

Alvaro che sentiva l’odore delle costolette con un colpo della sua piccola scure gli spaccò il cranio e lo gettò al suolo, dicendo:

— Pigraccio, va!

Pigraccio! era il suo vero nome poichè quel quadrumane è il più grande poltrone che esista sulla terra.

Era un bradipo, meglio conosciuto dai brasiliani sotto il nome di ay, così chiamato dagl’indiani pel suo grido. Sembra che questi animali formino l’ultimo anello delle vere scimmie coi tassi e anche coi gatti, quantunque sia ben lungi dal possedere neanche in minima parte l’agilità degli uni e degli altri.

Vivono per lo più fra i rami delle palme ambuibe delle cui foglie sono ghiotti e anche fra i mazzi di bambù della cui polpa si cibano, ma quanta fatica costa a loro salire su quelle piante! Prima di issarsi lassù, impiegano delle giornate, non muovendo le loro zampe e le loro braccia che dopo un lungo riposo.

Raggiunti i rami d’un albero non li lasciano più finchè non hanno divorata l’ultima foglia, poi, per risparmiarsi la fatica di ridiscendere, quei pigroni si lasciano cadere al suolo da qualunque altezza si trovino.

Anche a terra sono d’una lentezza incredibile e malgrado tutti i loro sforzi, anche se tormentati, non riescono a percorrere più di quattro o cinque metri all’ora.

Alvaro ed il mozzo, quantunque avessero desiderato qualche cosa di meglio d’un quadrumane, s’affrettarono a scannare l’animale che era ancora agonizzante malgrado quella spaventevole ferita, avendo l’esistenza tenacissima, lo infilzarono nella bacchetta di ferro d’uno degli archibugi che appoggiarono su due rami infissi nel suolo e accesero il fuoco.

— Mentre sorvegli l’arrosto, io andrò a far provvista di frutta ed a cercare del canape o qualche cosa che possa surrogarlo, — disse il signor di Correa. — Non avrai paura a rimanere solo! [p. 71 modifica]

— Oh no, signore, — rispose il mozzo. — Il mio archibugio è carico. —

Alvaro s’allontanò dirigendosi verso la foresta il cui margine si trovava a più di cinquecento passi.

Dei bellissimi alberi che crescevano a gruppi, e che prima di allora il portoghese non aveva mai veduti, ingombravano il suolo che si estendeva fra le rive della palude e la foresta vergine. Erano di forme eleganti, non più alti di sei o sette metri, col fogliame d’un bel verde cupo e carichi di frutta gialle, grosse e lucenti come zucche e che per una strana particolarità invece di pendere dai rami uscivano dai tronchi delle piante.

Erano delle jabuti cabeira, comunissime nelle foresti brasiliane e assai apprezzate per le loro frutta le quali, attorno ad un nocciuolo grossissimo, hanno una polpa carnosa, delicata e assai saporita.

Il portoghese avendone assaggiate alcune che erano cadute al suolo e avendole trovate eccellenti, ne fece una buona raccolta, poi proseguì la via facendo fuggire immensi stormi di tico-tico, specie di passere che non sono meno ciarliere delle nostre e di azulae dalle belle penne azzurre. Attraverso le foglie secche, ancora imperlate della rugiada notturna, Alvaro vedeva ancora saltellare quelle brutte parraneca, dalle lunghe gambe, che la sera prima avevano invaso la radura della summaneira e anche, non senza un profondo ribrezzo, certe serpi color verde, sottili come liane e appunto perciò chiamate dai brasiliani cobra cipo ossia serpi liane, che è facile confonderle fra il caos di vegetali che ingombrano le foreste vergini.

Aveva già raggiunto l’orlo della foresta sempre cercando qualche pianta che gli potesse dare qualche materia fibrosa da surrogare il canape necessario alla riparazione del canotto, quando la sua attenzione fu attirata da un crepitìo incessante come se delle palle o delle zucche cadessero al suolo spaccandosi.

— Che vi siano degl’indiani qui? — si chiese, appiattandosi dietro un cespuglio.

Guardò attentamente verso il luogo ove si udivano quei crepitìi e vide cadere da un albero colossale che si ergeva venti passi più innanzi, delle frutta enormi che nello spaccarsi lanciavano intorno certe specie di mandorle.

— Chi può farle cadere? — si domandò. — Vengono lanciate con troppa forza e non piombano verticalmente. —

Alzò gli occhi verso quel colosso e scorse fra le fronde delle [p. 72 modifica]bruttissime scimmie che staccavano destramente le frutta e che le lanciavano a terra a tutta forza onde si spaccassero.

Era una truppa di brachieri calvi, i più brutti quadrumani che forse esistono, colla testa completamente calva, il muso rosso come quello degli ubriaconi impenitenti e raggrinzato, che dava loro un aspetto decrepito ed il pelame lunghissimo giallo rossastro.

Gettata al suolo una grande quantità di frutta, le scimmie scesero lestamente e sedutesi attorno all’albero si misero a divorare avidamente le mandorle che erano balzate fuori da quelle noci enormi.

Un movimento del portoghese le avvertì della presenza d’un nemico. Raccolsero frettolosamente le frutta e fuggirono come frecce, cacciandosi in mezzo ai festoni foltissimi delle liane, entro i quali non tardarono a scomparire.

Alvaro si era avanzato verso l’albero, raccogliendo alcune di quelle noci enormi le quali, dalle fessure mostravano certi filamenti che se non valevano un buon canape, potevano in qualche modo essere utili.

— Ho trovato quello che cercavo, — disse. — Singolare caso!... Delle scimmie che indicano a degli uomini ignoranti come me, dove posso trovare quello che mi occorre. —

Spaccò una di quelle noci e fra il guscio e le mandorle vide che vi era uno strato di filamenta. Se avesse meglio conosciuto l’albero ne avrebbe potuto trovare ben di più sotto la scorza, ma il portoghese ignorava completamente le ricchezze delle piante brasiliane.

Soddisfatto di aver del canape fece ritorno alla palude, giungendovi nel momento in cui il mozzo stava levando dal fuoco il bradipo.

— Cotto appuntino? — chiese Alvaro che fiutava il profumo squisito che esalava quella carne.

— Il cuoco della caravella non avrebbe potuto far di meglio, modestia a parte, — disse Garcia, ridendo. — Ho sorvegliato l’arrosto come un cuciniere perfetto.

— Bravo, ragazzo.

— Gli è che...

— Che cosa vuoi dire?

— Non vi pare che questa scimmia rassomigli ad un fanciullo cucinato al forno?

— Può essere, Garcia, — rispose Alvaro, colpito dalla giusta osservazione del mozzo. — Trovandoci però noi in un paese [p. 73 modifica]abitato da mangiatori di carne umana, cerchiamo di non mostrarci troppo schizzinosi.

E poi non abbiamo, almeno per ora, di meglio. —

Levò l’arrosto, lo depose su una foglia d’un banano selvatico e con pochi colpi di scure lo spaccò in vari pezzi.

— L’odore è squisito, — disse. — Proveremo a piantarvi i denti.

— Eh! Mi pare che non valga un pappagallo, signore, — disse Garcia che aveva addentato una coscia e che faceva sforzi sovrumani per inghiottire qualche boccone.

— Infatti è detestabile, — rispose il portoghese che si accaniva contro un polpaccio. — Questa carne è più coriacea di quello d’un vecchio mulo.

— È carne pigra, signore.

— Ma che bene o male andrà giù. —

Il loro appetito, fece davvero miracoli. Il povero a-y in buona parte passò, quantunque fosse durissimo come un merluzzo secco e avesse un sapore tutt’altro che gradevole.

Calmati gli stiracchiamenti dello stomaco, i due naufraghi s’avviarono per accomodare il canotto con cui volevano attraversare la palude e provarsi anche a pescare, supponendo che in quelle acque, quantunque nere, i pesci non dovessero mancare.

Avevano già vuotata la scialuppa e turati i fori che crivellavano il fondo, quando d’improvviso udirono verso la boscaglia delle urla terribili che non dovevano essere mandate da delle scimmie.

Si avrebbe detto che sotto gli alberi una terribile lotta si era impegnata fra due tribù rivali. Si udivano colpi formidabili come se delle mazze sfondassero degli scudi o si percuotessero reciprocamente, sibili di frecce e ululati spaventevoli, quegli ululati che già i due naufraghi conoscevano così bene.

Alvaro istintivamente s’era precipitato verso il canotto, temendo che i combattimenti si inseguissero verso la palude.

— Signore ed i remi? — gridò Garcia.

Alvaro si guardò intorno e vedendo un piccolo albero che cresceva a breve distanza e che aveva delle fronde foltissime, con pochi colpi di scure lo abbattè.

— Ci basterà, — disse.

Troncò due rami e fuggì verso il canotto dove già il mozzo lo aveva preceduto, trascinandoli con se!

— Al largo, Garcia, — gridò. — [p. 74 modifica]

Senza assicurarsi se la scialuppa era ben riparata, tuffarono in acqua i rami e servendosene come di pagaie si scostarono rapidamente, scomparendo in mezzo agli isolotti che ingombravano la savana.