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CAPITOLO XX.

L’Uomo di fuoco.


Cominciavano ad averne fino sopra i capelli della loro carica ed a sentire un intenso desiderio di libertà.

Erano già sei giorni che si trovavano nelle mani di quei ributtanti selvaggi, confinati nella loro capanna, dalla quale non potevano uscire che per assistere a banchetti di carne umana, avendo fatto gli Eimuri, nelle loro ultime scorrerie, buon numero di prigionieri Tamoi, Tupy e Tupinambi, e non ne potevano più di quella esistenza.

Avevano dapprima sperato nel marinaio, ma invece non avevano avuto più nessuna nuova di lui. Era stato ucciso e divorato da qualche altra colonna di Eimuri, o disperando di poterli salvare, aveva continuata la sua fuga per raggiungere le orde dei Tupinambi? Mistero.

— Andiamocene, signore, — ripeteva da mane a sera il mozzo.

— Sì, andiamocene, — rispondeva invariabilmente Alvaro.

Ma il mezzo non si era mai presentato. I selvaggi, che dovevano diffidare, non avevano mai cessato di sorvegliarli e tutte le sere un certo numero di guerrieri si sdraiava intorno alla capanna per impedire qualsiasi evasione.

Eppure i due naufraghi erano convinti che così non la potesse durare a lungo.

Quella carica di celebri stregoni, non andava troppo a sangue a loro e ne avevano perfino di troppo.

Il settimo giorno stava per passare non meno allegro degli altri, quando dopo il mezzodì videro improvvisamente entrare il capo degli Eimuri, seguito dal ragazzo che serviva da interprete.

— Ci deve essere qualche novità, — disse Alvaro al mozzo. — Dopo l’uccisione del tupy è la prima volta che l’Eimuro si degna di farci una visita. —

Il capo pareva assai preoccupato e di cattivo umore. Salutò nondimeno i due pyaie toccando il suolo colla punta della lingua, poi fece cenno al ragazzo di parlare.

— Che cosa vuole il capo? — chiese Alvaro.