L'Uomo di fuoco/13. Gli eimuri

13. Gli eimuri

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CAPITOLO XIII.

Gli Eimuri.


Rassicurati dalla tranquillità che regnava, almeno pel momento, nella immensa foresta, Alvaro, il castigliano ed il mozzo, avevano chiusi gli occhi.

Erano tutti stanchi dalle lunghe marce dei giorni precedenti ed una buona dormita era più che necessaria per prepararli al lungo viaggio che contavano riprendere l’indomani onde mettersi in cerca della tribù dei Tupinambi, che forse era tornata ai suoi villaggi.

Dormivano però, come aveva detto il castigliano, come un solo occhio, come i marinai di guardia. Ed infatti or l’uno o l’altro, temendo sempre una sorpresa da parte degli Eimuri che scorrazzavano tutti i dintorni della baia si svegliava per ascoltare.

Per parecchie ore ai loro orecchi non erano giunti che i fischi stridenti delle parraneca ed i muggiti rauchi dei rospi, ma poco dopo la mezzanotte, al castigliano, che aveva l’udito più acuto degli altri parve di udire un sussurrio che non si poteva confondere colla atroce cacofonia dei batraci.

Abituato da tanti anni ai rumori delle foreste, non si poteva ingannare. Non volendo però rompere il sonno dei suoi compagni, che russavano beatamente, con un falso allarme, si rizzò ascoltando meglio.

In lontananza si udiva un brusìo che a qualunque altro orecchio meno esercitato sarebbe sfuggito. Pareva che degli uomini marciassero in gran numero in mezzo alla sterminata foresta.

Mise una mano sulla testa di Alvaro, scuotendola leggermente e dicendogli:

— Svegliatevi, signor Viana! —

Il portoghese che non aveva già il sonno troppo duro, aprì subito gli occhi e si alzò a sedere guardando il marinaio di Solis.

— Che cosa avete? — gli chiese.

— Si avanzano.

— Chi?

— Io non so se siano gli Eimuri od altri che fuggono dinanzi all’invasione.

Degli uomini e molti, a quanto mi sembra, s’avanzano attraverso la foresta e mi pare che non sarebbe prudente rimanere più a lungo coricati: [p. 133 modifica]

— Ah! Diavolo! Dormivo così bene!

— In questi paesi bisogna essere sempre pronti a fuggire. La tranquillità qui non è mai esistita.

— Dobbiamo andarcene?

— No, — rispose il castigliano.

Alvaro lo guardò con stupore.

— Allora perchè mi avete svegliato?

— Per cercare un asilo più sicuro.

— Senza fuggire?

— Non vi è bisogno. Io ho sovente ingannati gl’indiani che mi davano la caccia per mettermi allo spiedo o alla graticola, facendo appena pochi passi.

Guardate, vi è qui quest’albero che ci servirà a meraviglia e che imbroglierà maledettamente gl’indiani i quali si romperanno invano la testa per cercare le nostre tracce.

Svegliate il mozzo e non perdiamo il tempo. —

Garcia, udendoli a parlare, erasi già alzato. Informato rapidamente del pericolo che li minacciava, il bravo ragazzo si limitò a dire:

— Bah! Abbiamo gli archibugi e sapremo bene accogliere quei mangiatori di carne umana.

— E gli avanzi del fuoco? — chiese ad un tratto Alvaro, mentre si disponevano a dare la scalata all’enorme summaneira.

— Lasciate le ceneri e anche i tizzoni, — rispose Diaz. — Anzi serviranno ad imbrogliare maggiormente i selvaggi. —

Vi erano delle liane, delle sipò che pendevano dalla pianta e che potevano servire a meraviglia per salire sull’albero, il cui tronco, troppo enorme, non si poteva abbracciare.

I due portoghesi ed il castigliano ne approfittarono per raggiungere i rami della pianta, poi le tagliarono per impedire ai selvaggi di servirsene, ma si guardarono bene dal lasciarle cadere al suolo onde non tradire la loro presenza.

— Vedrete che non verranno a cercarci quassù, — disse il marinaio di Solis. — Pare impossibile, eppure i selvaggi, allorquando sono inseguiti, non hanno mai pensato a cercare un rifugio sugli alberi. —

Salirono più in alto, dove i rami erano più grossi e la vegetazione più folta e attesero, con una inquietudine facile a supporsi, l’arrivo di quella truppa che marciava attraverso la foresta.

Fossero Eimuri, Tupy od altri selvaggi, il pericolo era eguale, [p. 134 modifica]giacchè tutti erano nemici dei Tupinambi e terribili divoratori di carne umana.

Erano insomma, come diceva il marinaio di Solis, uomini che dovevano assolutamente evitare, per non correre il pericolo di finire, in un modo o nell’altro sulla graticola o allo spiedo.

Il rumore avvertito da Diaz continuava. Una banda e molto considerevole, a quanto pareva, attraversava la foresta, e sia che seguisse qualche traccia od a caso, si dirigeva appunto verso quella radura di cui il colossale summaneira formava il centro.

— Che siano i vostri nemici che vi davano la caccia? — chiese Alvaro che aveva preparate le sue armi.

— Lo sapremo presto, — rispose Diaz che ascoltava attentamente.

— Che possano essere i vostri?

— I Tupinambi? No, è impossibile! Ancora ieri gli Eimuri mi davano la caccia, dunque finchè non si ritireranno nelle loro selve, nessun indiano della mia tribù avrà osato tornare. E poi so che sono fuggiti verso l’ovest e non già verso il mare.

— Così terribili sono questi Eimuri?

— Somigliano più alle belve che agli uomini e nulla risparmiano sul loro passaggio.

— Da dove vengono?

— Dalle regioni meridionali. Spinti chissà da quali bisogni, di quando in quando emigrano verso i paesi più ricchi, tutto distruggendo e nessuno ha mai saputo vincerli. Il loro solo nome sparge un tale terrore, che anche le tribù più valorose piuttosto che affrontarle preferiscono fuggire, lasciando i villaggi e le piantagioni indifese.

— Eppure sono uomini.

— Chi lo sa? — rispose il marinaio di Solis. — So che camminano come le belve, colle mani e coi piedi.

Sono scimmie od uomini? Io non lo so, signor Viana.

— Allora li giudicheremo meglio, se sono veramente gli Eimuri quelli che stanno avanzandosi. Non devono essere lontani.

— Anzi ecco i loro esploratori, — mormorò Diaz. — Li vedete? —

Quantunque l’ombra proiettata dalle piante aumentasse considerevolmente l’oscurità, il signor Viana ed il mozzo, scorsero due [p. 135 modifica]forme che parevano più animalesche che umane, sbucare dai cespugli e avanzarsi cautamente nella radura.

Camminavano come le belve, colle mani e coi piedi e senza produrre il più lieve rumore.

— Eimuri? — chiese sottovoce Alvaro.

— Sì, — rispose il marinaio.

— Li avrei presi per due giaguari.

— Ne hanno infatti l’andatura.

— Che si arrestino qui o che proseguano?

— Se seguivano le mie tracce si arresteranno qui per cercarle. —

I due selvaggi attraversarono la radura, poi si fermarono entrambi mandando un grido rauco.

— Hanno scoperto gli avanzi del nostro fuoco e della cena, — disse Diaz.

— Che cosa faranno ora?

— Aspetteranno i compagni per consigliarsi.

— Purchè non venga a loro il sospetto che noi ci troviamo quassù.

— Non temete, — rispose Diaz. — E poi questi antropofagi non hanno mai conosciute le armi da fuoco e un paio di moschettate non mancheranno di spargere un terrore invincibile fra le loro file.

I due selvaggi si erano messi a rovistare la cenere, per vedere se vi era ancora qualche scintilla ed accertarsi se la fuga dello stregone dei Tupinambi datava da pochi minuti o da parecchie ore.

Furono uditi a mormorare, poi uno di loro riattraversò la radura correndo come un lupo rosso e rientrò nella foresta, mentre l’altro si sedeva accanto alle ceneri.

Qualche minuto dopo Alvaro ed i suoi compagni udivano i rami e le foglie a muoversi nuovamente nella foresta. La banda che doveva essersi arrestata in attesa dei suoi esploratori, aveva ripresa la marcia.

Infatti cinque minuti più tardi, una trentina di selvaggi invadeva la radura, fermandosi a breve distanza del summameira.

— Sono in buon numero, — mormorò Alvaro che non si sentiva troppo tranquillo, non ostante le continue assicurazioni del marinaio di Solis. —

I selvaggi si sedettero in circolo mentre tre o quattro radunavano dei rami secchi e fregavano su dei piccoli bastoni d’un [p. 136 modifica]legno speciale di cui i brasiliani si servivano per accendere il fuoco, essendo a loro affatto sconosciuto l’uso dell’acciarino e delle selci.

Bentosto una fiamma brillò e la legna, ben secca, prese fuoco illuminando la radura.

— Come sono brutti! – non potè trattenersi dal mormorare il mozzo.

Ed infatti quei selvaggi erano davvero orribili. Avevano i lineamenti assolutamente scimmieschi, angolosi, la fronte bassissima, gli occhi cisposi, i capelli lunghi, neri e grossolani che somigliavano a crini di cavallo, i corpi magrissimi, coperti per la maggior parte di strati di colori e di sudiciume.

Intorno ai fianchi non avevano che qualche brandello d’una stoffa grossolana, presa probabilmente ai nemici vinti od un fascio di foglie secche.

Sopra il mento poi portavano tutti l’orribile barbotto costituito da un pezzo di legno più o meno rotondo, incastrato nella carne e che rialzava schifosamente il labbro inferiore.

Le loro armi consistevano in mazze pesantissime di legno del ferro ed in bastoni appuntiti ed induriti col fuoco e in pochi archi con frecce lunghissime formate con bambù e munite sulla punta di pungiglioni delle acacie.

I selvaggi dopo essersi disputati accanitamente gli avanzi della cena e d’aver divorata cruda la testa della scimmia, tennero un breve consiglio, poi si dispersero per la radura esaminando le erbe.

Come già Alvaro aveva osservato, invece di tenersi ritti, camminavano come le fiere, posizione che a quanto pare preferivano a quella verticale.

Da dove venivano quei selvaggi che di quando in quando, ad epoche mai fisse, si rovesciavano in numero strabocchevole sulle immense selve del Brasile, devastando tutti i villaggi e divorando quanti prigionieri cadevano nelle loro mani?

Gli storici americani non sono mai riusciti a saperlo con precisione.

I brasiliani affermavano che venivano dalle regioni australi e poteva anche essere vero, essendo quei formidabili invasori molto più alti di statura degli altri indiani e può darsi che fossero gli avi dei Pampas e dei Patagoni.

Avevano però più somiglianza colle belve che cogli esseri umani anche pel loro modo di vivere. [p. 137 modifica]

La loro lingua, se si può veramente chiamarla tale, non era che un confuso e rauco suono da nessuno compreso, che pareva uscisse più dalle cavità del petto che dagli organi della gola.

La sola cosa che li distingueva dalle belve era quella di strapparsi tutti i peli del corpo, perfino le ciglia, e di tagliarsi di quando in quando i capelli.

Del resto andavano completamente nudi, non sapevano costruirsi capanne, dormivano nei boschi come i giaguari ed i coguari, limitandosi a ritirarsi sotto le piante più fitte quando sopraggiungeva la stagione delle grandi piogge e preferivano camminare colle mani e coi piedi, correndo con tale velocità da non poterli raggiungere nemmeno coi cavalli.

Erano poi terribili divoratori di carne umana. Mentre i brasiliani mangiavano i loro nemici più per soddisfare le loro vendette che per altro, gli Eimuri li mangiavano invece per abitudine, come se si trattasse d’una selvaggina qualunque e quello che è più orribile, il più delle volte li divoravano crudi.

Il loro modo di guerreggiare, li rendeva estremamente pericolosi. Non correvano mai all’assalto; ma attendevano invece i nemici in mezzo alle foreste, sorprendendoli a tradimento e non avevano paura che d’una sola cosa: dell’acqua! Un fiumicello qualunque bastava ad arrestarli.

Anche quando i Portoghesi, alcuni anni più tardi, si furono solidamente stabiliti sulle coste brasiliane, innalzando opulenti città, gli Eimuri fecero le loro periodiche invasioni e vi fu un’epoca che misero in grave pericolo le colonie, minacciando la rovina di Porto Seguro e di Os-Ilhèos.

Erano comparsi in masse enormi, assalendo fieramente i villaggi dei Tupinambi e dei Tupinichini, poi si erano rovesciati sulle capitanerie di Porto Seguro e d’Os-Ilhèos che erano popolatissime di portoghesi.

Questi, credendo che quei selvaggi non avessero l’audacia di assalire le città costiere, non se n’erano dati gran pensiero. Solamente il governatore, che era Men di Sa, un vero valoroso, era prontamente accorso con un buon nerbo di truppe, credendo di aver facilmente ragione di quei selvaggi.

Infatti attaccata una delle loro colonne, mentre questa era intenta a costruirsi dei ponti con dei tronchi d’albero, l’aveva, dopo un aspro combattimento, spinta verso il mare e sterminata, cacciando in acqua i superstiti.

Credeva di aver arrestata l’invasione, quando pochi giorni dopo [p. 138 modifica]i portoghesi, con grande stupore e anche spavento, videro le coste e le alture dominanti Porto Seguro coprirsi di selvaggi!

Men di Sa uscì coraggiosamente ad incontrarli e riuscì a respingerli dopo una lunga serie di battaglie sanguinosissime, ma la capitaneria d’Os-Ilhèos era stata già distrutta da quei formidabili selvaggi.

Ci vollero parecchi anni prima di sbarazzare il Brasile dagli Eimuri i quali furono finalmente quasi interamente distrutti.

Solo poche centinaia furono risparmiati e confinati a sessanta leghe dalle coste, coll’obbligo di non più mai avanzarsi. Altri furono condotti in schiavitù, ma erano quegli antropofagi così insoffribili d’ogni servitù, che morirono poco dopo quasi tutti di fame, preferendo la morte alla privazione della libertà.