L'Uomo di fuoco/12. Il marinaio di Solis

12. Il marinaio di Solis

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CAPITOLO XII.

Il marinaio di Solis.

Tredici anni or sono — disse il marinaio, dopo essere rimasto qualche minuto silenzioso, come per riordinare i suoi ricordi, — e precisamente nel 1516, il governo di Castiglia che già da tempo aveva formato il disegno di strappare al Portogallo questa immensa regione, per diritto spettante a Cabral, che fu il primo a scoprirla, inviava una flottiglia al comando di Vespucci, di Pinzon e di Solis, coll’ordine di fondare delle città lungo la costa.

Fino già dai primi momenti, si era manifestata una profonda rivalità fra i comandanti, ognuno dei quali pretendeva assumere la direzione dell’impresa.

Amerigo Vespucci, che aveva già visitato il Brasile per conto del Portogallo e che aveva già avuto una parte così importante nella scoperta del continente americano, poteva vantare maggiori diritti degli altri, pure si nutriva contro di lui una certa diffidenza essendo stato prima ai servizi della corte di Lisbona.

Comunque sia la traversata fu compiuta e la flottiglia, dopo [p. 124 modifica]tre mesi, approdava felicemente nella baia sulle cui rocce si è infranta la nostra caravella.1

Dopo aver rinnovate le provviste d’acqua e fatti alcuni scambi cogl’indiani che non si erano mostrati così feroci come ai tempi di Cabral, a cui, come saprete, avevano divorati alcuni marinai, la flotta ripartì verso il sud. Esplorò un lungo tratto di costa, facendo frequenti sbarchi per piantare croci in segno di sovranità castigliana, finchè giunse all’imboccatura d’un fiume immenso che tutti noi dapprima scambiammo per un braccio di mare.

Era invece il Rio de Plata, ma quando fummo giunti colà, le rivalità tornarono nuovamente a scoppiare fra i comandanti.

Vespucci e Pinzon si rifiutarono di accompagnare il mio capitano e lo abbandonarono per tentare altre scoperte.

Che cosa sia accaduto di loro, io non l’ho più saputo, poichè da quell’epoca non ho più veduto nessun uomo bianco sbarcare qui.

— Rassicuratevi sulla loro sorte, — disse Alvaro. — Essi sono tornati felicemente in Spagna.

— Solis, — riprese il marinaio, — non voleva riattraversare l’Atlantico senza aver prima compiuta qualche impresa gloriosa e imbarcatosi su una scialuppa s’inoltrò audacemente nell’immenso fiume. Io facevo parte della spedizione godendo fama di buon pilota e anche di buon archibugiere.

Seguimmo per parecchi giorni il fiume, accompagnati sulla riva più prossima da torme d’indiani che ci invitavano a sbarcare.

Essendo però tutti armati di frecce e di gravatane, Solis che ad un grande coraggio accoppiava una certa prudenza, si era sempre rifiutato e sarebbe stato meglio che non avesse mai preso terra.

Quei selvaggi erano i Charruà, indiani audacissimi e anche ferocissimi che altro non attendevano se non che noi scendessimo sulla spiaggia per massacrarci e poi divorarci.

Avevamo esplorato un tratto rilevante di fiume, quando un giorno, essendo gl’indiani scomparsi, Solis ebbe la malaugurata idea di volersi internare nel paese.

Prese terra sul margine d’una foresta, lasciando a guardia della scialuppa me con altri sei. Prima però che scomparisse mi nacque un sospetto. [p. 125 modifica]

— Signor Solis, — gli gridai, — guardatevi dalle imboscate. —

Egli mi fece colla mano un gesto d’addio, e s’inoltrò sotto la foresta colla sua minuscola truppa.

Noi eravamo in grande ansietà; io specialmente avevo indosso una inquietudine tale da non poter star fermo.

La scomparsa dei selvaggi, che fino allora ci avevano sempre seguiti, non mi pareva naturale. Presentivo un tradimento ed una catastrofe.

Era troppo tardi per poter arrestare Solis. Eppoi quell’uomo che non aveva paura di nessuno e che maneggiava la spada come un guascone, non mi avrebbe dato retta e avrebbe riso dei miei timori.

Mancava poco al tramonto, quando udimmo improvvisamente rimbombare alcuni colpi di archibugio, seguìti da un clamore così spaventevole che per parecchi giorni mi rintronò negli orecchi.

Nessun urlo di belva potrebbe darvi l’idea dell’urlo di guerra dei selvaggi dell’America meridionale.

Io ero balzato in piedi, gridando ai miei uomini:

— Assalgono il capitano! Accorriamo in suo aiuto! —

Mi guardarono senza rispondere. Erano annichiliti dallo spavento.

Compresi che mai sarei riuscito a deciderli e d’altronde che cosa avremmo potuto fare noi, che non sapevamo nemmeno da qual parte dirigerci? Per parecchi minuti udimmo gli archibugi a sparare e le urla dei Charruà, poi subentrò un silenzio assoluto.

Tutto doveva essere finito. Solis e la sua gente, sorpresi in qualche imboscata abilmente preparata dagl’indiani, dovevano essere stati massacrati.

I miei compagni mi pregarono di tagliare la corda dell’ancora e di raggiungere al più presto la nave che ci aspettava all’imboccatura del fiume; mi rifiutai recisamente di lasciare il posto almeno fino all’alba dell’indomani.

Avevo la speranza che qualcuno fosse riuscito a sfuggire alla strage e che giungesse da un momento all’altro sulla riva.

Quando la notte discese, vedemmo dei fuochi giganteschi ardere sotto i boschi.

Impaziente di sapere qualche cosa sulla sorte toccata al mio sventurato capitano, mi decisi a scendere a terra.

Essendosi i miei compagni rifiutati di accompagnarmi, sbarcai solo portando con me un archibugio ed uno spadone.

I fuochi che continuavano ad ardere sul fianco d’una collina [p. 126 modifica]boscosa, mi servivano di guida. Mi gettai sotto gli alberi e procedendo guardingo e silenzioso, mi avanzai nella boscaglia, col cuore trepidante, credendo ad ogni passo di sentirmi trapassare le carni da qualche lancia o di sentirmi fracassare il cranio da quelle terribili mazze di legno del ferro che già avevo veduto nelle mani dei selvaggi.

I Charruà invece, convinti di averci tutti distrutti, non avevano lasciato il luogo ove era caduto Solis, sicchè dopo una mezz’ora d’angosce inenarrabili e di incessanti terrori, potei giungere a soli centocinquanta passi dall’accampamento dei selvaggi.

Uno spettacolo atroce, che non dimenticherò mai, anche se dovessi vivere mille anni, s’offerse ai miei occhi.

Su un braciere immenso, disposti su una specie di graticola formata da grossi rami verdi, arrostivano nove dei miei disgraziati compagni, imbrattati di sangue dal capo alle piante.

Quasi tutti avevano il cranio sfracellato, senza dubbio dalle pesantissime mazze degl’indiani.

— Canaglie! — esclamò Alvaro facendo un gesto di disgusto.

— In mezzo a quei miseri, le cui carni crepitavano al contatto delle fiamme, spandendo all’intorno un odore nauseante, distinsi Solis.

Aveva la gola aperta e la testa schiacciata.

Intorno, più di duecento Charruà, nudi come vermi, ma adorni di collane formate da denti di caribbi, quei piccoli pesci voraci di carne umana che infestano i fiumi di questi paesi, parevano aspettassero qualche cosa. Erano tutti armati di lance e di mazze e di archi grandissimi.

Ad un tratto un urlo straziante giunse ai miei orecchi.

— Grazia! Grazia! —

Quattro indiani di statura gigantesca trascinavano un marinaio, il quale si dibatteva disperatamente tirando calci nelle gambe dei suoi guardiani.

L’avevano preso vivo, ma la sorte di quel disgraziato non doveva essere migliore degli altri che erano caduti colle armi in pugno.

Vidi i Charruà trascinarlo verso una enorme pietra, sulla cui superficie era stato tracciato una specie di canaletto e gettarvelo sopra dopo averlo legato in modo da impedirgli di fare il menomo movimento.

Io, inorridito, non osavo fiatare. D’altronde che cosa avrei potuto fare contro quei duecento e più indiani? [p. 127 modifica]

Quando il mio sfortunato camerata fu legato, vidi uscire dalle file dei Charruà un indiano dipinto metà in azzurro e metà di nero, carico di collane e di braccialetti formati di denti di caimani, di giaguari e di vertebre di serpenti e col capo adorno d’un enorme ciuffo di penne di pappagallo.

In una mano teneva una specie di coltello formato con una conchiglia affilatissima e nell’altra una ciotola di terracotta.

Il mostro s’avvicinò alla vittima che urlava in modo straziante e con un colpo rapido lo scannò lasciando scorrere il sangue nel canaletto e che subito raccolse nella ciotola.

Stava per accostarsela alle labbra, quando stramazzò al suolo colpito da una palla.

Avevo fatto fuoco sul miserabile senza pensare al pericolo a cui mi esponevo.

Udendo questo sparo e vedendo cadere lo stregone della tribù, i Charruà erano rimasti come inebetiti.

— E avete approfittato del loro stupore per fuggire, — disse Alvaro.

— Sì, signor Viana. Mi precipitai giù per la collina, correndo all’impazzata e quando udii le urla di rabbia degl’indiani e m’accorsi che si preparavano a darmi la caccia, ero già ben lontano.

In pochi minuti attraversai lo spazio che mi separava dal fiume. E una terribile sorpresa mi aspettava.

I miei compagni, credendomi ormai perduto, erano fuggiti lasciandomi solo fra quelle foreste e coi Charruà alle spalle!

— I vili! — esclamarono ad una voce Alvaro e Garcia.

— Mi credetti perduto, — proseguì il castigliano. — Udivo le urla furiose dei Charruà avvicinarsi con fantastica rapidità.

In quel momento ebbi una ispirazione. Non avevo veduto nessuna canoa indiana sul fiume quindi supposi che i Charruà non ne possedessero.

Essendo un buon nuotatore, decisi di gettarmi in acqua. Era d’altronde la sola via di scampo che mi rimaneva.

Se fossi tornato nella foresta, quei demoni non avrebbero tardato a scoprirmi e gettarmi più tardi sulla graticola sulla quale stavano cucinando il capitano ed i suoi marinai.

Confidando nelle mie forze e nella mia abilità, mi gettai il fucile in ispalla, mi spogliai rapidamente delle vesti e balzai nel Plata, che in quel luogo era largo non meno di sei o sette chilometri. [p. 128 modifica]

Quando i Charruà giunsero sulla riva io mi trovavo già in mezzo al fiume.

Nuotavo vigorosamente guardandomi alle spalle, paventando sempre di vedermi dietro qualche selvaggio.

A mezzanotte mi trovavo a due o trecento passi dalla riva opposta. Cominciavo a rallegrarmi, quando provai ad una gamba un dolore così intenso che mi strappò un grido.

Mi pareva che qualche pesce mi avesse cacciato nelle carne un ago e che mi avesse levato di colpo un brandello di carne.

Spaventato, non sapendo veramente a che cosa attribuire quel dolore, affrettai il nuoto. Un momento dopo un altro morso, non meno doloroso del primo, mi strappava un secondo urlo, poi mi sentii scivolare fra le gambe e le braccia miriadi di pesci i quali mi assalivano da tutte le parti con furore, piantandomi i denti dappertutto.

— Che cos’erano? — chiese Alvaro che s’interessava grandemente a quel racconto emozionante.

— Ero caduto in mezzo ad una banda di caribi.

— Non so che cosa siano.

— Ve lo dirò poi. Fortunatamente, come vi dissi, la riva era vicina. Nuotando disperatamente la raggiunsi e mi issai faticosamente fra le piante che la coprivano.

In quale stato mi avevano ridotto quei piccoli mostri! Il sangue mi usciva da cento fori e la mia pelle era bucherellata peggio che una schiumarola.

— Quei pesci erano molto grossi dunque? — chiese Alvaro.

— Sì, come la mano del vostro mozzo o tutto al più come la vostra, — rispose Diaz, ridendo. — I caribi sono peggiori degli jacaré ossia dei caimani e sono così avidi della carne umana che quando s’imbattono in un nuotatore in pochi minuti se lo divorano vivo non lasciando intatto che lo scheletro.

Oh farete anche voi, una volta o l’altra la loro conoscenza, non ne dubitate e allora mi saprete dire che denti posseggono quei mostriciattoli che a ragione si considerano come un vero flagello dei fiumi sudamericani.

— Li lascio ben volentieri agl’indiani, — disse il portoghese. — Proseguite, mio caro Diaz.

— Rimasi quasi una settimana nascosto nelle foreste, prima di essere in grado di mettermi in marcia, vivendo di frutta, di radici e qualche volta di caccia, poi mi accinsi alla grande impresa che avevo meditato. [p. 129 modifica]Un vecchio indiano si mise a spaccare gli arrosti.... (Cap. II). [p. 131 modifica]

Sapevo che gli spagnoli avevano fondato degli stabilimenti nel Venezuela e mi ero fisso in capo di raggiungerli.

Si trattava d’un viaggio che poteva durare qualche anno se non di più, d’altronde era l’unica via di salvezza che mi si presentava.

Camminai settimane e settimane attraverso boschi immensi che non finivano più, evitando i villaggi indiani per non terminare sulla graticola, ed addentrandomi sempre più nel Brasile, finchè un giorno caddi in mezzo ad un accampamento di Tupinambi. Sia che il colore della mia pelle, o la mia lunga barba o le vesti formate di pellicce di giaguaro imponessero a quei selvaggi non so quale rispetto o per altra causa, essi, invece di uccidermi e di mangiarmi, mi accolsero come un amico. Essendo morto qualche settimana prima il loro stregone, dopo essere stato mutilato da un jacaré, mi nominarono al suo posto ed ecco come divenni un pyaie.

Erano trascorsi molti anni ed avevo ormai rinunciato all’idea di poter rivedere un volto europeo, quando gli Eimuri piombarono sui nostri villaggi, disperdendo la tribù.

Vinti dappertutto, fuggimmo nelle foreste, ognuno per proprio conto e, smarritomi, venni qui. Non benedirò le devastazioni commesse dagli Eimuri ma penso che senza il loro assalto, non avrei forse più mai potuto vedere un uomo della mia razza.

Signor Viana, questo è il più bel giorno della mia vita, ve lo assicuro.

— E contate tornare presso i Tupinanbi?

— E spero che verrete anche voi. Ho ormai capito che voler raggiungere gli stabilimenti spagnoli del Venezuela sarebbe una pazzia e vi ho rinunciato.

— Ebbene, andiamo a vedere questi Tupinambi, — disse Alvaro, — purchè non ci mettano sulla graticola.

— Oh! I fratelli dello stregone! Hanno troppa paura di me che godo fama di essere il più potente pyaie della regione.

— Quando partiremo?

— È troppo tardi per metterci in viaggio, signore. Questa notte fermiamoci qui, domani vedremo se la via è sgombra e allora c’incammineremo verso l’ovest.

Gli Eimuri non usano fermarsi molto e ritornano, dopo un certo tempo, nelle loro selve.

— Prepariamoci allora un buon letto e chiudiamo un occhio, ma uno solo, — disse Alvaro.

— Sì, come i marinai di guardia, — aggiunse il castigliano.

Note

  1. Baia di Rio Janeiro.