L'Uomo di fuoco/11. Nella foresta vergine
Questo testo è completo. |
◄ | 10. Un dramma nella foresta | 12. Il marinaio di Solis | ► |
CAPITOLO XI.
Nella foresta vergine.
Anche sulla riva opposta la foresta continuava e non meno folta di quella che i naufraghi avevano attraversata poco prima con tanta fatica.
Era anzi più intrecciata essendo composta d’una infinita varietà di piante che crescevano confusamente le une accanto alle altre, strette da liane smisurate e da arbusti e da radici enormi che sorgevano da tutte le parti non trovando più posto nel sottosuolo, convertito ormai in una massa fibrosa che doveva avergli dato la consistenza quasi della pietra.
Allacciati gli uni agli altri dalle sipo, dalle jacatara, dalle barbe dei pao e da quelle strane aroidee che hanno le radici in aria e che poi lasciano pendere fino al suolo, vi erano cedri brasiliani che danno quel legno ricercato chiamato jacarandò, palme regie che hanno il tronco altissimo e così perfetto che sembra opera di tornitori; ficus che somministrano la preziosa guttaperca incidendo i loro tronchi; bombonasse delle cui foglie oggidì si fabbricano i pregiati cappelli chiamati di Panama e palme quaresine dai fiori purpurei che s’intrecciavano con quelli profumati delle laranazias.
Una umidità penetrante regnava sotto quei vegetali sprigionando un intenso odore di muffa che faceva arricciare il naso ai due naufraghi.
— È una foresta vergine questa, — disse Alvaro che avrebbe desiderato meglio trovarsi in una prateria. — Come faremo noi a dirigerci sotto queste piante che non lasciano filtrare nemmeno un raggio di sole? Comincio a credere che non ci sarà facile ritrovare la baia.
— Che ci siamo smarriti? — chiese il mozzo.
— Lo temo.
— Che queste maledette foreste coprano tutto il Brasile?
— Sembra che gl’indiani non si prendano alcuna cura di atterrarle. Per essi l’agricoltura è lettera morta.
— Sfido io! Si mangiano fra di loro! E poi le frutta non sono rare nelle loro foreste.
— E anche la selvaggina non manca. Odi questo fracasso? —
Uno scoppio d’urla acutissime era rimbombato improvvisamente sotto le piante facendo tacere di colpo una banda di pappagalli che cicalava fra i rami d’un cedro. Erano così assordanti che il mozzo fu costretto a turarsi gli orecchi.
— Chi sono gli autori di questo spaventevole concerto? — chiese. — Delle belve forse.
— Saranno delle scimmie, — rispose Alvaro. — Che gole hanno? Foderate di ottone o di rame? Si direbbe che hanno dei tromboni e dei bombardoni in corpo.
— Ma che! Un’orchestra intera, — disse il mozzo ridendo.
Le urla erano diventate così acute che tutta la foresta rintronava. Pareva che si pelassero vivi mille maiali.
— Andiamo a far tacere questi importuni, — disse Alvaro. — Se potremo, faremo qualche colpo per procurarci un arrosto.
Il calore ha guastato già la nostra riserva e la carne della testuggine puzza orrendamente.
— Avreste il coraggio di mangiare una scimmia?
— E perchè no, Garcia. È una selvaggina che vale quanto un’altra. —
Guidati da quei clamori che non cessavano un solo istante, i due naufraghi s’avanzarono sotto gli alberi, tenendo gli archibugi sotto il braccio. Dopo l’incontro fatto col giaguaro, avevano compreso che non dovevano lasciare da parte ogni prudenza.
Girando e rigirando intorno alle piante e dibattendosi fra le reti delle sipo e delle radici, percorsero dopo una lunga ora, cinque o seicento passi, giungendo là dove i concertisti si sgolavano per raddoppiare il fracasso, diventato già assolutamente spaventevole.
Come Alvaro aveva previsto, quegli arrabbiati fracassoni erano dei quadrumani e non più di sei o sette, quantunque facessero un baccano come fossero in cento.
Era una piccola truppa di caraja appollaiata fra i rami enormi di una summameira, quadrumani che se sono relativamente di piccola statura posseggono degli organi vocali d’una resistenza incredibile che sfondano gli orecchi meglio conformati. Anche un sordo udrebbe senza fatica le loro urla formidabili.
Si chiamano anche miceti neri avendo il pelame oscuro con certi riflessi rossicci e che nelle femmine diventa un po’ giallognolo, con barba alle gote e coda lunga quanto l’intero corpo, che non oltrepassa ordinariamente i settanta centimetri.
Avendo un gozzo che si potrebbe chiamare anche un tamburo, assai considerevole, diviso in sei scompartimenti, la loro voce acquista una intensità tale da propagarsi a distanze infinite.
Il loro grido usuale è una specie di rocku-rocku che si ode a parecchi chilometri, ma che variano a piacere. Ora infatti grugniscono come i maiali, ruggiscono e miagolano come i giaguari, ora urlano come se si torturassero degli esseri umani.
Seduti in circolo sulla biforcazione dei rami ed ignari della presenza dei due naufraghi, quei sei o sette cantori gonfiavano enormemente i loro gozzi lanciando note sempre più acute, poi tacevano bruscamente per attendere dal maestro, che stava nel mezzo e che era il più smilzo della truppa ma che aveva la voce più potente, la nota giusta.
Quando qualcuno usciva di tono, un sonoro scapaccione somministrato dal direttore, lo faceva subito tacere.
— Finitela! — gridò il mozzo che era già giunto sotto all’albero e che aveva gli orecchi intronati da quel concerto indemoniato. — Abbasso il maestro! —
Era fiato sprecato. Le caraja erano tanto occupate nell’eseguire quel coro infernale che non avevano nemmeno udita l'intimazione del ragazzo.
— Perderai inutilmente il tuo tempo, — disse Alvaro. — La tua voce non si ode fra questo baccano assordante.
— Ci vorrebbe un cannone, signore.
— Un buon colpo di fucile otterrà buon successo. Facciamo cadere giù il maestro. —
Il signor Viana, che come già sappiamo era un valente bersagliere, puntò il fucile e dopo d’aver mirato qualche istante fece fuoco in mezzo ai cantori.
Il maestro che stava urlando a piena gola chissà quale pezzo di musica scimmiesca, rimase colla bocca aperta strozzando di colpo la voce, poi si rizzò allargando le braccia, piroettò su se stesso strambuzzando gli occhi e precipitò al suolo con fracasso, rimanendo inerte.
I suoi compagni, terrorizzati, salirono sui rami più alti dell’albero urlando disperatamente.
Alvaro stava per slanciarsi verso il povero caraja quando udì una voce a esclamare in lingua castigliana:
— Carramba! Che bel colpo! —
Il portoghese ed il mozzo, profondamente stupiti si erano vivamente voltati, credendo di essersi ingannati. Entrambi conoscevano abbastanza correntemente il castigliano, lingua già assai diffusa in quell’epoca come lo è oggi quella francese e avevano perfettamente compresa quella frase.
Un uomo era comparso fra due macchie d’arbusti e li guardava sorridendo, colle braccia incrociate sul petto.
Era un individuo sulla quarantina, di bella statura, che portava una lunga barba nera ed i capelli pure lunghi che gli cadevano sulle robuste spalle.
Quantunque la sua pelle fosse assai bruna, dai lineamenti regolarissimi, dalla taglia, dalla disposizione degli occhi che sono ordinariamente piccoli e anche un po’ obliqui negl’indiani, non sembrava che appartenesse alla razza brasiliana.
Eppure ne indossava il costume. Aveva un diadema di penne di tucano fissato sul capo, una sottanina di fibre vegetali, lucenti come la seta, poi un gran numero di collane e di braccialetti formati di denti di caimani e di belve feroci e sul petto uno strano trofeo che pareva composto di vertebre di serpenti.
— Un indiano od uno spagnolo? — si chiese Alvaro, mettendosi sulla difensiva e facendo cenno a Garcia di preparare il fucile.
Lo sconosciuto non si era mosso. Li guardava con una profonda emozione, sorridendo sempre, senza toccare la pesante mazza che gli pendeva dal fianco nè una specie di corta lancia che portava dietro le spalle.
— Amico o nemico? — chiese finalmente Alvaro, in castigliano, vedendo che lo sconosciuto non si decideva ad aprire bocca.
— Da quando gli uomini bianchi, smarriti fra le selve delle terre lontane, si sono dichiarati nemici? — chiese quell’uomo con voce quasi tremante. — Quantunque vi possa sembrare un indiano sono un bianco come voi, un europeo anch’io. —
Alvaro, non meno commosso dello sconosciuto, aveva gettato il fucile in ispalla e si era fatto innanzi.
— Un naufrago anche voi? — gli chiese.
— Un vecchio naufrago.
— Che cosa fate qui, in mezzo alle foreste del Brasile?
— È la istessa domanda che poco fa volevo rivolgervi anch’io. Siete anche voi spagnoli?
— No, portoghesi.
— Siamo dunque quasi compatrioti. Voi non potete immaginare, quale immensa emozione mi ha cagionato questo incontro.
Oramai mi ero già rassegnato a non veder più mai un uomo della mia razza, nè alcun volto di europeo.
— Sono molti anni che vi trovate qui?
— Dal 1516.
— Con chi siete giunto?
— Colla spedizione spagnola comandata da Amerigo Vespucci, il fiorentino, da Giovanni di Pinzon e da Diaz Solis. Facevo parte dell’equipaggio di quest’ultimo.
— Che cosa sia accaduto di quella spedizione organizzata dall’audace fiorentino lo si sa, ma quello che si è sempre ignorato è la sorte toccata a Solis.
— È stato massacrato dagli indiani Charruà. Ah! Che istoria dolorosa, signore.
— E voi siete sfuggito alla strage? — chiese Alvaro.
— Il solo.
— Ed ora che cosa fate? —
Il castigliano arrossì e parve confuso, poi mormorò quasi sottovoce:
— Sono lo stregone della tribù dei Tupinambi. —
In altro momento Alvaro non avrebbe potuto trattenere una risata, ma vedendo la confusione e la tristezza del povero uomo, si frenò.
— Una bella carica, almeno? — chiese.
— Oh! Signore!
— Eh signor...
— Diaz Cartego...
— Con quella carica almeno avete salvata la pelle.
— È vero, signor...
— Alvaro de Viana. Avete fame?
— Sono quattordici ore che marcio senza interruzione per non farmi prendere dagli Eimuri che hanno invaso tutto il territorio, disperdendo le tribù dei Tupinambi e dei Tamoi.
— Sono lontani? — chiese Alvaro.
— Molto, per ora.
— Non vi è pericolo che ci sorprendano?
— Pel momento, no.
— Allora approfittiamo per prepararci la colazione. Abbiamo uccisa una scimmia.
— Le caraja hanno la carne delicata, signor Viana. Non è la prima che mangio.
— Aiutateci. —
Il castigliano non se lo fece dire due volte. Vedendo che il mozzo teneva un coltello nella fascia se lo fece dare ed in pochi minuti scuoiò la scimmia e la ripulì per bene delle interiora, gettando via anche la testa.
Alvaro e Garcia accesero il fuoco, infilarono il quadrumane nella bacchetta di ferro di uno dei fucili e lo misero ad arrostire.
Il castigliano intanto aveva fatto un giro attorno alle macchie ed era tornato recando due cornetti formati con foglie di banano, pieni d’un certo liquido che pareva vino bianco.
— Assahy, — disse, invitando Alvaro ad assaggiarlo. — Non vi farà male, anzi!
— Da dove lo avete tratto?
— Da un albero dalla palma assahy. Può, questo liquido, surrogare il vino.
— Arrosto e vino! Peccato che manchi il pane!
— Ne troveremo, ve lo prometto, — disse il marinaio. — Se qui non ho veduto le piante che cercavo, in altro luogo non mancheranno.
La vita è facile nel Brasile e basta curvarsi per trovare di che cibarsi e di che dissetarsi.
Ho imparato molte cose dagl’indiani che prima ignoravo assolutamente.
— Paese felice! — esclamò Alvaro.
— È poco che voi siete naufragati?
— Pochi giorni, signor Diaz. Vi narrerò la nostra istoria in attesa di udire poi la vostra che deve essere meravigliosa.
— E anche dolorosa, signore, — rispose il marinaio.
Mentre sorvegliavano l’arrosto, Alvaro lo informò delle avventure toccategli dopo il naufragio della caravella e della grande paura che li aveva fino allora perseguitati, la paura di venire da un momento all’altro presi e di dover subire l’orrenda sorte toccata ai loro compagni.
— Dovevano essere Eimuri, quelli che hanno trucidato e mangiato i vostri marinai, — disse Diaz. — Sono i più feroci indiani che abitano le selve del Brasile e non risparmiano nessuno.
— L’arrosto è pronto, — disse in quel momento Garcia.
Levarono la scimmia la cui pelle era diventata lucente e croccante come quella d’un giovane capretto e la deposero su una foglia di banano, facendola a pezzi.
Dobbiamo confessare che i due portoghesi, quantunque la fame li spronasse, esitarono parecchio prima di decidersi ad assaggiare quel piatto che rassomigliava troppo... ad un bambino arrostito.
Il marinaio invece, abituato alla vita selvaggia e che doveva aver divorato un bel numero di quadrumani, si era messo a mangiare con un appetito da caimano, invitandoli ad imitarlo.
La fame finalmente la vinse sulle loro esitazioni e con loro stupore fecero molto onore a quell’arrosto che d’altronde era eccellente.
Vuotarono i due cornetti pieni d’un vino gradevolissimo, che rassomigliava un po’ al sidro, poi si sdraiarono sotto l’albero, mettendosi a fianco le armi.
— Possiamo riposare un paio d’ore senza correre il pericolo di venire disturbati? — chiese Alvaro al castigliano.
— Gli Eimuri di rado si muovono quando il sole è troppo caldo, — disse. — E poi ho prese le mie precauzioni per far perdere loro le mie tracce.
Saranno ben bravi se sapranno trovarle.
— Dunque v’inseguivano?
— Da quattro giorni.
— Allora venite molto da lontano.
— Il villaggio che mi ha ospitato si trova a sette giorni di marcia da qui, in mezzo alle foreste.
— E non vi tornerete più?
— Sì, ma attendo che gli Eimuri si siano ritirati più al sud. Spero che verrete anche voi. I Tupinambi vi accoglieranno bene, se presentati da me che sono un pyaie ossia lo stregone della tribù.
Che cosa vorreste fare qui soli, in queste immense foreste? Un giorno o l’altro finireste sulla graticola dei Tamuri o dei Tupi che non sono meno antropofaghi degli Eimuri.
— Ed i Tupinambi non divorano i loro simili?
— Non meno degli altri ma... con me, nulla avrete da temere.
— La vostra istoria, signor Diaz. Mi avete messo indosso una viva curiosità.
— Ai vostri ordini, signor Viana. —