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128 | Capitolo Dodicesimo. |
Quando i Charruà giunsero sulla riva io mi trovavo già in mezzo al fiume.
Nuotavo vigorosamente guardandomi alle spalle, paventando sempre di vedermi dietro qualche selvaggio.
A mezzanotte mi trovavo a due o trecento passi dalla riva opposta. Cominciavo a rallegrarmi, quando provai ad una gamba un dolore così intenso che mi strappò un grido.
Mi pareva che qualche pesce mi avesse cacciato nelle carne un ago e che mi avesse levato di colpo un brandello di carne.
Spaventato, non sapendo veramente a che cosa attribuire quel dolore, affrettai il nuoto. Un momento dopo un altro morso, non meno doloroso del primo, mi strappava un secondo urlo, poi mi sentii scivolare fra le gambe e le braccia miriadi di pesci i quali mi assalivano da tutte le parti con furore, piantandomi i denti dappertutto.
— Che cos’erano? — chiese Alvaro che s’interessava grandemente a quel racconto emozionante.
— Ero caduto in mezzo ad una banda di caribi.
— Non so che cosa siano.
— Ve lo dirò poi. Fortunatamente, come vi dissi, la riva era vicina. Nuotando disperatamente la raggiunsi e mi issai faticosamente fra le piante che la coprivano.
In quale stato mi avevano ridotto quei piccoli mostri! Il sangue mi usciva da cento fori e la mia pelle era bucherellata peggio che una schiumarola.
— Quei pesci erano molto grossi dunque? — chiese Alvaro.
— Sì, come la mano del vostro mozzo o tutto al più come la vostra, — rispose Diaz, ridendo. — I caribi sono peggiori degli jacaré ossia dei caimani e sono così avidi della carne umana che quando s’imbattono in un nuotatore in pochi minuti se lo divorano vivo non lasciando intatto che lo scheletro.
Oh farete anche voi, una volta o l’altra la loro conoscenza, non ne dubitate e allora mi saprete dire che denti posseggono quei mostriciattoli che a ragione si considerano come un vero flagello dei fiumi sudamericani.
— Li lascio ben volentieri agl’indiani, — disse il portoghese. — Proseguite, mio caro Diaz.
— Rimasi quasi una settimana nascosto nelle foreste, prima di essere in grado di mettermi in marcia, vivendo di frutta, di radici e qualche volta di caccia, poi mi accinsi alla grande impresa che avevo meditato.