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120 | Capitolo Decimo. |
— Un indiano od uno spagnolo? — si chiese Alvaro, mettendosi sulla difensiva e facendo cenno a Garcia di preparare il fucile.
Lo sconosciuto non si era mosso. Li guardava con una profonda emozione, sorridendo sempre, senza toccare la pesante mazza che gli pendeva dal fianco nè una specie di corta lancia che portava dietro le spalle.
— Amico o nemico? — chiese finalmente Alvaro, in castigliano, vedendo che lo sconosciuto non si decideva ad aprire bocca.
— Da quando gli uomini bianchi, smarriti fra le selve delle terre lontane, si sono dichiarati nemici? — chiese quell’uomo con voce quasi tremante. — Quantunque vi possa sembrare un indiano sono un bianco come voi, un europeo anch’io. —
Alvaro, non meno commosso dello sconosciuto, aveva gettato il fucile in ispalla e si era fatto innanzi.
— Un naufrago anche voi? — gli chiese.
— Un vecchio naufrago.
— Che cosa fate qui, in mezzo alle foreste del Brasile?
— È la istessa domanda che poco fa volevo rivolgervi anch’io. Siete anche voi spagnoli?
— No, portoghesi.
— Siamo dunque quasi compatrioti. Voi non potete immaginare, quale immensa emozione mi ha cagionato questo incontro.
Oramai mi ero già rassegnato a non veder più mai un uomo della mia razza, nè alcun volto di europeo.
— Sono molti anni che vi trovate qui?
— Dal 1516.
— Con chi siete giunto?
— Colla spedizione spagnola comandata da Amerigo Vespucci, il fiorentino, da Giovanni di Pinzon e da Diaz Solis. Facevo parte dell’equipaggio di quest’ultimo.
— Che cosa sia accaduto di quella spedizione organizzata dall’audace fiorentino lo si sa, ma quello che si è sempre ignorato è la sorte toccata a Solis.
— È stato massacrato dagli indiani Charruà. Ah! Che istoria dolorosa, signore.
— E voi siete sfuggito alla strage? — chiese Alvaro.
— Il solo.
— Ed ora che cosa fate? —
Il castigliano arrossì e parve confuso, poi mormorò quasi sottovoce: