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118 | Capitolo Decimo. |
— E perchè no, Garcia. È una selvaggina che vale quanto un’altra. —
Guidati da quei clamori che non cessavano un solo istante, i due naufraghi s’avanzarono sotto gli alberi, tenendo gli archibugi sotto il braccio. Dopo l’incontro fatto col giaguaro, avevano compreso che non dovevano lasciare da parte ogni prudenza.
Girando e rigirando intorno alle piante e dibattendosi fra le reti delle sipo e delle radici, percorsero dopo una lunga ora, cinque o seicento passi, giungendo là dove i concertisti si sgolavano per raddoppiare il fracasso, diventato già assolutamente spaventevole.
Come Alvaro aveva previsto, quegli arrabbiati fracassoni erano dei quadrumani e non più di sei o sette, quantunque facessero un baccano come fossero in cento.
Era una piccola truppa di caraja appollaiata fra i rami enormi di una summameira, quadrumani che se sono relativamente di piccola statura posseggono degli organi vocali d’una resistenza incredibile che sfondano gli orecchi meglio conformati. Anche un sordo udrebbe senza fatica le loro urla formidabili.
Si chiamano anche miceti neri avendo il pelame oscuro con certi riflessi rossicci e che nelle femmine diventa un po’ giallognolo, con barba alle gote e coda lunga quanto l’intero corpo, che non oltrepassa ordinariamente i settanta centimetri.
Avendo un gozzo che si potrebbe chiamare anche un tamburo, assai considerevole, diviso in sei scompartimenti, la loro voce acquista una intensità tale da propagarsi a distanze infinite.
Il loro grido usuale è una specie di rocku-rocku che si ode a parecchi chilometri, ma che variano a piacere. Ora infatti grugniscono come i maiali, ruggiscono e miagolano come i giaguari, ora urlano come se si torturassero degli esseri umani.
Seduti in circolo sulla biforcazione dei rami ed ignari della presenza dei due naufraghi, quei sei o sette cantori gonfiavano enormemente i loro gozzi lanciando note sempre più acute, poi tacevano bruscamente per attendere dal maestro, che stava nel mezzo e che era il più smilzo della truppa ma che aveva la voce più potente, la nota giusta.
Quando qualcuno usciva di tono, un sonoro scapaccione somministrato dal direttore, lo faceva subito tacere.
— Finitela! — gridò il mozzo che era già giunto sotto all’albero e che aveva gli orecchi intronati da quel concerto indemoniato. — Abbasso il maestro! —