L'Uomo di fuoco/10. Un dramma nella foresta
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CAPITOLO X.
Un dramma nella foresta.
Il povero ragazzo stava per abbandonarsi alla disperazione quando un improvviso pensiero venne a risollevare il suo coraggio.
Era ammissibile che Alvaro, uomo valorosissimo e anche vigoroso, quantunque giovane, si fosse lasciato prendere dai selvaggi senza opporre la menoma resistenza? No, Garcia non poteva crederlo.
In tal caso avrebbe subito trovato le tracce d’una lotta a tutta oltranza, mentre invece mancavano assolutamente sull’isolotto. I cespugli erano intatti, gli avanzi del fuoco non erano stati sconvolti e nè sui tronchi nè sulle foglie degli alberi si scorgeva alcuna freccia.
Il portoghese, probabilmente molto inquieto per la lunga assenza del mozzo, doveva aver lasciato quel rifugio colla speranza di poter attraversare felicemente la laguna, cosa tutt’altro che impossibile per un nuotatore della sua forza.
Garcia un po’ rassicurato attraversò l’isolotto e ebbe subito la prova di non essersi ingannato sulle sue congetture.
Sulla riva opposta, là dove avevano sorpresa la testuggine, scorse a terra numerose canne che parevano tagliate di recente stillando ancora un po’ di linfa.
— Deve aver costruito un galleggiante con queste piante, rinforzandolo forse con quelle immense foglie che da sole costituiscono delle piccole zattere. Minacciato dai caimani o dai serpenti d’acqua si sarà fermato su quell’isoletta dove ho veduto brillare quel fuoco.
Andiamo ad assicurarcene. —
Pienamente tranquillizzato, il mozzo tornò alla zattera e riprese il largo. Quantunque si sentisse completamente sfinito da tanti sforzi troppo gravosi per un ragazzo della sua età e le sue palpebre involontariamente si chiudessero, puntando vigorosamente spinse la zattera verso l’isolotto fra le cui piante vedeva sempre brillare il fuoco ed innalzarsi una nuvoletta di fumo.
Non impiegò più di un quarto d’ora ad attraversare i quattro o cinquecento metri che lo separavano e andò ad arenarsi su un banco di sabbia coperto in parte di canne.
Li presso scorse subito un galleggiante formato da fasci di canne e da foglie di victoria, capace di reggere bene o male una persona.
— È il signor Alvaro che l’ha costruito! — esclamò con voce giuliva.
Si slanciò sul banco e raggiunse l’isolotto facendo fuggire alcuni uccelli acquatici che sonnecchiavano fra le erbe, tenendosi ritti sui loro lunghi trampoli.
In mezzo ad un gruppo di alberi scorse, assiso dinanzi ad alcuni rami che stavano già per spegnersi, un uomo il quale pareva che dormisse o meditasse, tenendosi la testa fra le mani.
Un grido di gioia gli sfuggì.
— Signor Alvaro! —
Il portoghese che forse sonnecchiava, udendo quella voce ben nota, aveva alzata la testa guardando cogli occhi semichiusi il mozzo, poi con una rapida mossa si era levato, allargando le braccia.
— Ah! Mio bravo ragazzo! — esclamò, stringendoselo al petto. – Per centomila caimani, da dove vieni? Quante ansie e quante paure in queste dodici ore! Briccone! Puoi vantarti d’avermi fatto pur tremare!
— Mi credevate morto, signor Alvaro?
— E anche mangiato, — disse il giovane. — Credi che non abbia udito i tuoi colpi d’archibugio? Non ti difendevi contro gl’indiani?
— Ma no, signore. Sparavo contro certi cinghiali ferocissimi che mi avevano assediato su un albero.
— Spero che me ne avrai portato almeno uno. Muoio di fame, se non di sete.
— Mi è stato impossibile signore, ma vi ho imbarcata la tartaruga e non sarà meno gustosa della carne dei cinghiali.
— Tu sei un ragazzo previdente, mio buon Garcia.
— E anche delle frutta per dissetarvi.
— Non ne ho bisogno. Ho trovato su quest’isolotto di quelle certe pere che abbiamo già assaggiate e che hanno calmata la mia sete.
— Ma perchè avete lasciato l’isolotto, signore?
— Per venirti a raggiungere e soccorrere. Non hai udito i miei spari?
— No, signore.
— Ho scaricato più di dieci volte il mio archibugio, poi non udendo alcuna risposta da parte tua, mi ero deciso di tentare la traversata della laguna e forse vi sarei riuscito se i caimani non mi avessero costretto a rifugiarmi più che presto su questo isolotto. Il mio galleggiante, formato da sole canne e da foglie mi reggeva a malapena e avevo le gambe sempre in acqua.
— Ho trovato la vostra zattera.
— Basta colle chiacchiere, Garcia e pensiamo alla cena. Mi racconterai le tue avventure quando avremo riempito il ventre. —
Gettò sul fuoco che stava per spegnersi, dei rami secchi che aveva raccolti sotto le piante e delle canne, ravvivandolo e si fece condurre alla zattera dove la testuggine, inconscia della triste sorte che l’aspettava, dormiva profondamente.
La sollevarono con grande fatica, essendo pesantissima, la decapitarono per non farla soffrire troppo e la gettarono, rovesciata sul dorso, in mezzo alla brace.
— Povera bestia! — esclamò Garcia, udendo le carni a friggere. — Quale ingratitudine da parte nostra, signore!
— Il ventre non ragiona, amico mio, — rispose Alvaro che fiutava avidamente il profumo squisito che esalava il gigantesco arrosto.
— Ah! Dimenticavo le mie zucche! —
Andò a prendere le due grosse frutta e le gettò ai piedi di Alvaro.
— E tu le chiami zucche queste, — disse il portoghese. — Sono frutta degli alberi del pane, mio caro, che surrogheranno i biscotti che ci mancano. Ne ho assaggiate ancora e ti posso dire che arrostite sui carboni sono squisite.
— Toh! Vi sono anche delle piante che producono dei pani! — esclamò il mozzo. — Fortunato paese dove si può fare a meno dei fornai. —
Alvaro levò la corteccia e tagliò la polpa in larghe fette che depose sui carboni.
La tartaruga, che doveva essere ben grassa, friggeva intanto allegramente entro il suo guscio che a poco a poco si carbonizzava, senza però lasciar perdere il succo dell’animale che è squisitissimo. Perfino il mozzo, con tutto il suo rincrescimento, si sentiva venire l’acquolina in bocca e aspirava non meno avidamente del famelico compagno, l’odore delizioso che tramandava l’arrosto.
Quando Alvaro credette la testuggine sufficientemente cotta, con pochi colpi di scure ben applicati sui fianchi, levò il guscio inferiore che era quasi piatto, e agli occhi stupefatti del mozzo apparve il corpo del disgraziato rettile splendidamente arrosolato e nuotante in un succo giallastro che esalava un profumo più che squisito.
— Bagna e mangia senza economia, — disse Alvaro levando dal fuoco le fette delle frutta del pane.
Non avrai mai fatto una cena così deliziosa, te lo assicuro.
— Signore, — disse il mozzo, dopo alcuni bocconi, — se questo non è veramente pane, per bontà e per gusto non è certo inferiore. Ha del carciofo e della zucca marina.
— Trovi che possa surrogare i biscotti?
— Sì, signore.
— Allora quando giungeremo alla costa mi condurrai dove si trova quell’albero e faremo una grossa provvista di quelle frutta. —
Quando furono ben sazi, i due naufraghi si stesero in mezzo alle erbe, coi piedi rivolti verso il fuoco e senza preoccuparsi nè dei caimani, nè dei serpenti d’acqua chiusero gli occhi coll’intenzione di fare una lunga dormita.
Già nè l’uno nè l’altro potevano più tenere aperti gli occhi.
Anche quella seconda notte passata in mezzo alla laguna, trascorse senza allarmi. Dormirono tutte di fila ben dodici ore e quando si svegliarono il sole era ben alto sull’orizzonte.
La zattera si trovava ancora al medesimo posto. Imbarcarono gli avanzi della tartaruga che potevano servire ancora per un paio di giorni e fecero innanzi a tutto ritorno all’isolotto per prendere i due bariletti di munizioni, che Alvaro aveva ben nascosti in mezzo ad un folto cespuglio, non avendo osato imbarcarli sul suo fragile galleggiante.
Assicuratisi che sulla laguna non si scorgeva alcuna piroga, verso le due del meriggio si rimettevano in viaggio verso la costa.
Ne avevano provate già perfino troppe delle avventure su quelle isolette e desideravano ardentemente tornare sotto le grandi foreste, dove almeno erano certi di trovare dell’acqua e anche della selvaggina. E poi volevano tornare al più presto alla baia, colla speranza che qualche nave o spinta dalle correnti o collo scopo di esplorare le coste che si estendevano verso il sud, durante la loro assenza avesse gettata l’ancora in quel magnifico bacino che doveva essere uno dei più vasti dell’America meridionale.
Impiegarono due ore a compiere quella traversata, avendo il vento e anche la corrente contrari e discesero là dove il mozzo era approdato insieme alla povera testuggine.
— Conducimi innanzi tutto a quell’albero, — disse Alvaro, dopo di essersi caricati di tutte le loro cose e di aver impacchettati in alcune larghe foglie, gli avanzi del rettile.
— E se i cinghiali ci fossero ancora? — chiese il mozzo.
— Siamo in due ora e daremo battaglia, — rispose il portoghese. — Vedremo se oseranno assalirci. —
S’inoltrano sotto la foresta e giunsero ben presto sotto l’albero del pane, ma i pecari, accortisi forse della fuga del prigioniero e giudicando inutile prolungare l’assedio, se n’erano andati.
Non rimanevano che tre scheletri ben ripuliti, quelli degli animali uccisi dal mozzo. Dei carnivori dovevano essere sopraggiunti dopo la partenza degli assedianti e avevano spolpati per bene i morti.
— Bah! Ci accontenteremo della testuggine per ora, — disse Alvaro.
Raccolsero una mezza dozzina di frutta dell’albero del pane, essendo perfino troppo carichi per fare un’ampia provvista, e dopo qualche ora di riposo, orizzontatisi col sole, si rimisero in cammino per cercare innanzi tutto qualche stagno d’acqua dolce e poi proseguire verso la baia dalla quale supponevano non essere molto lontani.
— Domani vi giungeremo di certo, — aveva detto Alvaro, per incoraggiare il mozzo.
La foresta, di passo in passo che s’avanzavano verso l’est, accennava a diventare più fitta che mai, rendendo estremamente difficile non solo la marcia, ma anche il mantenimento della buona direzione, non potendosi più scorgere il sole.
Una oscurità quasi completa regnava sotto quei vegetali e anche una temperatura soffocante, che rendeva la respirazione difficile come se l’aria non potesse più circolare fra quegli ammassi di foglie gigantesche.
Era una foresta di cuiera, piante enormi che producono delle zucche mostruose, lucentissime, d’un verde pallido, contenenti una polpa biancastra e molle che non serve a nulla ma che pure sono molto pregiate dagl’indiani dei cui gusci si servono come di recipienti.
Le loro larghe foglie s’incrociavano in mille guise, formando delle vôlte assolutamente impenetrabili, mentre i tronchi scomparivano sotto ammassi di muschi e di piante parassite.
Non erano però i soli colossi che si presentavano agli occhi dei due naufraghi.
Altri, non meno enormi, di quando in quando sorgevano fra quelle migliaia e migliaia di cuiera, arrestandoli e costringendoli a fare dei lunghi giri per trovare un passaggio.
Erano delle jupati dal tronco brevissimo ma che sviluppavano delle foglie che avevano otto o nove metri di lunghezza e delle miriti, palme superbe di dimensioni esagerate, colle foglie disposte a ventaglio e frastagliate a nastri e non meno immense di quelle delle jupati anzi di più, bastandone una sola per caricare un uomo robusto.
I volatili mancavano, non trovandosi a loro agio fra quelle semi-oscurità; abbondavano invece le splendide e grosse morpho, le più belle farfalle dell’America meridionale e fra le foglie secche si vedevano fuggire in buon numero certi serpenti color del tabacco, colla testa triangolare, agilissimi e anche pericolosissimi, dei mapanari, chiamati dagl’indiani «i maledetti», tanto sono velenosissimi.
I due naufraghi marciavano o meglio si trascinavano da tre ore, chiedendosi ansiosamente quando avrebbero potuto trovare un po’ di largo che permettesse loro di respirare un po’ d’aria pura, quando si trovarono improvvisamente dinanzi ad un corso d’acqua largo una ventina di metri e che pareva si dirigesse verso il sud anzichè all’est, ossia verso la baia.
— Fermiamoci, signore, — disse Garcia. — Non mi reggo più.
— Ed io non sono in miglior stato, ragazzo mio, — rispose Alvaro. — E soprattutto dissetiamoci. —
Stava per aprire le piante acquatiche che ingombravano la riva, quando il mozzo gli mise una mano sulla spalla, dicendogli rapidamente.
— No, signore!
— Che cos’hai? — chiese Alvaro, volgendosi rapidamente.
— Là! Guardate!
— Dove?
— Su quell’albero che s’incurva sul fiume. —
Un fischio acuto che risuonò in aria gli fece alzare la testa.
— Toh! Una scimmia! — esclamò.
— Ma l’altro non è un quadrumane. —
Alvaro aprì con precauzione le piante e guardò verso la direzione che il mozzo gl’indicava.
A venti passi dal posto che occupava, si stendeva orizzontalmente, fino quasi in mezzo al fiume, una di quelle piante chiamate dai brasiliani paiva che hanno il tronco coperto di bitorzoli spinosi e dalle cui frutta si ricava una specie di bambagia finissima, assai soffice ma troppo corta per poter essere filata.
Sui rami di quell’albero si era rifugiata una scimmia, un cebo fischiante, una delle meno attraenti delle specie, avendo le guance coperte di peli bianchi, la faccia incorniciata da una barba nera che dà loro un aspetto poco piacevole, il capo adorno di due lunghi ciuffi che rassomigliano a due vere corna ed il mantello invece bruno giallognolo.
Doveva essere una femmina giacchè stringeva fra le braccia un piccino che strillava disperatamente non ostante le carezze amorose della madre.
Sul tronco invece strisciava con precauzione, badando attentamente dove metteva le zampe per non ferirsi contro i bitorzoli spinosi, un superbo animale che fece tuttavia battere fortemente il cuore del portoghese, avendolo creduto di primo occhio una tigre o qualche cosa di simile.
Se non era una vera tigre, poteva sostenerne il paragone sia per la statura, sia per la ferocia e la forza.
Il giaguaro americano infatti non è meno sanguinario nè meno audace dell’abitatrice delle jungle indiane e viene annoverato, a buon diritto, come il più terribile carnivoro dell’America del Sud, non essendovi nessun altro che possa tenergli testa.
Quantunque veramente sia un po’ più piccolo della tigre reale, se non di quelle che abitano le isole della Sonda, raggiungendo di rado una lunghezza di due metri, è un predone temuto dagli stessi indiani i quali non osano affrontarlo se non sono in buon numero.
Non ha l’elegante rigatura della tigre, tuttavia la sua pelliccia è magnifica e si paga anche oggidì assai cara. Il suo pelame è corto, fitto, morbido, di tinta giallo rossiccia, cosparso di bellissime macchie nere e di punti orlati di rosso del più grazioso effetto.
Ve ne sono anche di neri con macchie più cupe, come vi sono le pantere nere di Giava e di Sumatra e sono del pari più terribili degli altri, ma fortunatamente sono rari.
Quello che si trovava sull’albero, doveva essere uno dei più grossi della famiglia, toccando in lunghezza i due metri, e certamente uno dei più formidabili.
Doveva aver sorpresa la povera scimmia, divisasi forse dalle sue compagne per cercare a terra delle frutta, e con un’abilissima manovra l’aveva costretta a rifugiarsi su quella pianta per impedire di tornare nella foresta dove la caccia sarebbe stata ben più difficile, essendo i cebi fischianti così agili da potersi slanciare, senza tema di cadere, da un albero all’altro.
La disgraziata madre, comprendendo la gravità del pericolo, fischiava disperatamente per chiamare l’attenzione delle compagne che dovevano trovarsi nei dintorni, ma nessuna rispondeva al suo appello.
D’altronde nulla avrebbero potuto fare contro quel terribile carnivoro, anzi probabilmente erano subito fuggite per non incorrere in egual sorte.
— Che splendido animale! — mormorò Alvaro, tenendosi prudentemente nascosto fra le piante e tirandosi presso il mozzo come se avesse avuto paura che il giaguaro glielo rapisse.
— Non è una tigre, signore, quella là? — chiese Garcia che non pareva troppo spaventato.
— Somiglia più ad una pantera, — rispose Alvaro, che fino allora non aveva mai veduti dei giaguari, animali ancora sconosciuti agli europei.
— Sarà pericoloso?
— Non vorrei provare le sue unghie, mio caro.
— Che riesca a divorare quella povera scimmia?
— Lo vedremo, Garcia. Mi pare però che quella belva non faticherà troppo a raggiungerla, quantunque il quadrumane si sia rifugiato sugli ultimi rami.
— E lo lasceremo fare, signore?
— Ti rincresce per la scimmia?
— Sì, signor Alvaro.
— Lasciamolo avanzarsi per ora; al momento opportuno interverremo, quantunque nulla vi sia da guadagnare per noi affrontando quella belva che mi ha l’aria d’essere assai pericolosa. —
Il giaguaro continuava ad inoltrarsi senza dimostrare troppa premura.
D’altronde le spine che coprivano il tronco della paiva che erano assai acute, gl’impedivano di procedere rapidamente.
Alzava con precauzione le zampe, guardava bene dove le appoggiava per non ferirsi, manifestando il suo malumore con dei sordi miagolii che terminavano in una specie di ululato rauco.
La scimmia che lo vedeva avvicinarsi sempre, quantunque lentamente, raddoppiava i suoi fischi e continuava ad innalzarsi, tenendosi ben stretto, con una mano, il piccino, il quale, conscio del pericolo che correva la madre, mandava delle grida lamentevoli.
A poco a poco aveva raggiunto uno degli ultimi rami, ma là giunta aveva dovuto arrestarsi giacchè il suo peso minacciava di farlo rompere.
Si trovava proprio al di sopra del fiume e non aveva ormai nessun scampo.
Anche se si fosse lasciata cadere in acqua non sarebbe sfuggita alle terribili unghie del giaguaro, essendo queste belve abilissime nuotatrici.
Il giaguaro giunto a metà del tronco, desideroso di finirla, si raccolse su se stesso, poi con un salto fulmineo balzò su uno dei più grossi rami dove non vi erano più spine.
— La scimmia è perduta, — disse Alvaro che seguiva con viva curiosità la manovra del carnivoro.
Ed infatti la sorte del cebo era ormai decisa. Fra pochi istanti doveva terminare fra i denti e le unghie del carnivoro.
Il giaguaro salì rapidamente il ramo, lesto come un gatto, però giunto ad un certo punto dovette fermarsi. Un crepitio si era fatto udire ed il prudente ed astuto carnivoro aveva subito compreso che non poteva andare più innanzi senza esporsi al pericolo di capitombolare nel fiume, nel qual caso la scimmia non avrebbe mancato di approfittare per fuggire nella foresta.
— La va male per la belva, — disse Alvaro. — Comincio a credere che la scimmia sia ben lontana dal farsi divorare. —
Il carnivoro si era messo a soffiare come un gatto in collera e sfogava il suo malumore, maltrattando la corteccia dell’albero da cui staccava larghi pezzi.
La scimmia, pazza di terrore e sentendosi ormai perduta, si penzolava all’estremità del ramo, tenendosi appesa colla destra mentre colla sinistra si stringeva sempre, con vera frenesia, il piccino che non voleva lasciare.
In quel momento, trasportate dalla corrente, passavano sotto l’albero delle immense foglie di victoria regia, coi margini assai rialzati e che potevano sostenere ben altro che una scimmia di così piccola mole.
— Ah! La furba! — esclamò Alvaro. — ....poi, uno di essi, attraversò, come un lupo, la radura, mentre.... (Cap. XIII).
In quel momento il cebo si lasciò cadere a piombo su una delle più larghe foglie, senza abbandonare il piccino. La piccola zattera si sommerse un po’ sotto l’urto, poi risalì a galla mentre la scimmia festeggiava la sua vittoria con un lungo fischio.
La corrente che era piuttosto rapida la trasportava verso la riva opposta.
Il giaguaro che vedeva sfuggirsi la preda aveva mandato un furioso miagolio. Staccò le unghie dalla corteccia poi si slanciò risolutamente in acqua.
Aveva calcolato male la distanza che lo separava dal cebo. Invece di piombare sulla piccola zattera cadde due passi più indietro e si sommerse sollevando un largo sprazzo di spuma.
— È rimasto burlato il ghiottone! — esclamò Garcia, felice di quell’inaspettato scioglimento.
— Adagio, mio caro, — rispose Alvaro. — Se quell’animale si è gettato in acqua, vuol dire che è un nuotatore e la scimmia non è ancora giunta alla riva. —
In quel momento alla superficie del fiume si produsse un rigonfiamento di spuma, poi si udirono risuonare, strozzati, gli ululati della belva misti a dei ruggiti stridenti che parevano lanciati da qualche altro animale.
— Pare che la belva sia alle prese con qualcuno, — disse Alvaro, chinandosi sulla riva per meglio osservare.
Ad un tratto una coda, o meglio un cilindro nerastro, emerse dalle acque, ripiegandosi tosto, quindi apparve il giaguaro ma non era più libero.
Un serpente enorme lo aveva avvolto fra le sue spire e così strettamente da soffocarlo.
Era un sucuriù chiamato anche boa anaconda, il più enorme dei rettili brasiliani, raggiungendo talvolta una lunghezza di tredici a quattordici metri e che vive in fondo ai fiumi.
Quantunque non sia velenoso, possiede al pari dei pitoni, una tale forza da soffocare facilmente anche un bue fra le sue spire.
Sentendosi forse urtare dal giaguaro che nel salto doveva essere sceso fino in fondo al fiume, lo aveva prontamente afferrato.
Il rettile ed il carnivoro, entrambi formidabili, lottavano con furore ora salendo a galla ed ora sommergendosi.
Il primo continuava a stringere la preda cercando di fracassarle le costole e la spina dorsale; il secondo, pazzo di dolore lavorava ferocemente di denti e d’artigli lacerando la pelle dell’avversario.
Il sangue arrossava l’acqua, ma il boa non allargava i suoi anelli, certo della vittoria finale.
Per alcuni istanti furono veduti dibattersi alla superficie e furono uditi i miagolii disperati dell’uno ed i fischi dell’altro, poi entrambi scomparvero in un largo cerchio di sangue per non più riapparire.
— Perdinci! — esclamò Alvaro. — Ecco dei nemici dai quali noi dovremo, d’ora innanzi, ben guardarci.
— Che sia morta quella tigre, signore? — chiese Garcia che era assai pallido.
— Lo suppongo, e anche quel serpentaccio non deve trovarsi troppo bene, ammesso che sia riuscito a soffocare l’avversario e dovremo approfittare per attraversare subito il fiume.
— E se ve ne fossero degli altri?
— Sarebbero accorsi a prendere parte alla lotta. Ah! E la scimmia?
— Ha preso terra ed è scomparsa nella foresta.
— Sbrighiamoci finchè il boa è occupato a divorarsi il carnivoro o sta spirando. —
Tagliarono frettolosamente alcuni bambù, li legarono alla meglio con delle liane e una mezz’ora d’ora dopo si trovarono sull’altra riva, sbarcando nel medesimo luogo ove la scimmia si era messa in salvo.