L'Esclusa/Parte Seconda/Capitolo V
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V.
Matteo Falcone, quella mattina, non si recò al collegio.
Se Marta, il giorno avanti, si fosse voltata nel salire, avrebbe avuto forse un po’ di pietà per lui rimasto al portoncino come impietrito. Certo egli sperò ch’ella, salendo, gli rivolgesse almeno uno sguardo: poi si mosse sotto la pioggia, quasi barcollando, e attirando gli sguardi della gente.
Non aveva provato mai tanto e così feroce odio contro sè stesso. Ne ghignava forte e squassava l’ombrello fin quasi a spezzarne il fusto e borbottava: — “Io, l’amore! Io, l’amore!„ — e altre parole inintelligibili. E poi, forte, lì in mezzo alla via, col volto contratto e gli occhi fissi biecamente in faccia a qualche passante:
— Meno male che non ha riso di me!
Ne rideva lui invece, orribilmente; e la gente si voltava a mirarlo, stupita, come si guarda un pazzo.
Alla fine, fradicio di pioggia, si ridusse a casa.
Abitava, con la madre e una zia, decrepite e stolide entrambe, una vecchia e vasta casa tutta ingombra di masserizie senza valore, allineate lungo le pareti e alcune anche rammontate le une su le altre, come in un magazzino di mobilia: armadi enormi di legno dipinto, tavolini d’ogni forma e d’ogni dimensione, cassettoni, cassapanche, stipetti, mensole, attaccapanni, seggiole impagliate e imbottite, dalla stoffa stinta, e poi certi canapè d’antica foggia con due rulli alla base delle testate.
Le due sorelle, facendo casa comune, dopo la morte dei loro mariti, non avevano voluto privarsi d’alcuna masserizia appartenente alla propria casa maritale: donde quell’inutile abbondanza: ingombro più che ricchezza.
Nella loro stolidaggine le due vecchie non ricordavano più d’aver avuto marito, e ciascuna aspettava la morte dell’altra per andare a nozze con un loro sposo immaginario.
— Perchè non muori? — si domandavano contemporaneamente sul muso, ogni qual volta s’incontravano appoggiate alla spalliera delle seggiole con le quali si strascinavano a stento per le camere.
Vivevano separate l’una dall’altra, ai lati opposti della casa. E di tanto in tanto, lungo la giornata e spesso anche durante la notte, l’una domandava all’altra, facendo un verso lungo e lamentoso:
— Che ora è?
E l’altra invariabilmente rispondeva con voce lunga e cupa:
— Sett’ooòre!
Sempre sett’ore! A qualche vicina che saliva in casa per ridere alle loro spalle, le due vecchie consigliavano, levando le braccia e scotendo in aria le mani ceree, aggrinzite:
— Maritatevi! Maritatevi!
Pareva che non ci fosse per loro altro scampo, altra salvezza nella vita. E sapeva loro mill’anni che il giorno sospirato delle nozze giungesse alla fine. Ma l’altra, ahimè, l’altra non voleva mai morire! E frattanto si facevano abbigliare, acconciare, parare dalle vicine con gli abiti del loro bel tempo, d’antica foggia; e le vicine sceglievano apposta quelli di stoffa più chiara, i più goffi, i più antichi e stridenti con la vecchiezza delle due povere dissennate; e siccome i corpetti andavan loro adesso troppo larghi, legavano alla vita a questa un boa spelato, a quella un gran nastro; e fiori di carta mettevano loro in capo e foglie di cavolo o di lattuga e capelli finti, e poi cipria in faccia, o imporporavan loro le gote squallide, cascanti, con uva turca:
— Così! così sembra proprio una ragazzetta di quattordici anni!
— Sì, sì.... — rispondeva la vecchia, sorridendo con la bocca sdentata innanzi allo specchio e forzandosi a tener ferma la testa, perchè l’edificio di quella acconciatura non crollasse. — Sì, sì, ma chiudi subito l’uscio! Adesso egli verrà, e non vorrei che quella lì lo vedesse entrare.... chiudi! chiudi!
Matteo Falcone, rincasando, le trovava spesso così goffamente mascherate, immobili sotto l’incubo dell’enorme acconciatura.
— Oh mamma!
— Va’ di là, va’ di là, tua madre è di là! — gli rispondeva stizzita la madre mascherata. — Io non ho figli! Ventott’anni ho.... Non sono maritata....
E così pure gli rispondeva la zia, per cui egli aveva anche rispetto e compatimento filiale.
— Ventott’anni.... Non sono maritata!
Alla zia però sorgeva e pesava tante volte il sospetto, non fosse Matteo veramente suo figlio; poichè a quando a quando nella memoria ottenebrata le si ridestava un vago senso del dolore provato tanti e tant’anni addietro per la perdita dell’unico suo figliuolo.
— Ma come! — le dicevano le vicine. — Se lei non ha mai avuto marito?
— Sì, eppure.... eppure Matteo, forse, è figlio mio, — rispondeva la vecchia sorridendo maliziosamente, con aria di mistero. — Forse!
— Ma come?
La vecchia allora attirava per un braccio la vicina e le diceva all’orecchio:
— Per virtù dello Spirito Santo!
E una gran risata.
Quanto aveva contribuito, oltre alla coscienza della propria bruttezza, quel continuo spettacolo in casa, alla formazione dell’orrendo concetto che il Falcone aveva della vita e della natura?
Egli non arrivava ad intendere la infelicità che l’anima suol crearsi o coi dubbii o con la febbre di sapere; la povertà era per lui male comportabile e riparabile; due sole vere infelicità aveva la vita, per coloro sui quali la natura esercita la sua feroce ingiustizia: la bruttezza e la vecchiaja, soggette al disprezzo e allo scherno della bellezza e della gioventù.
Non continuavano forse a vivere per servir di trastullo alle vicine la madre e la zia? E lui, perchè era nato? Perchè togliere la ragione e lasciar la vita a chi per la morte è già maturo?
Era invasato e rivoltato così profondamente da quest’idea, che tante volte si sentiva spinto da tutto l’essere suo a vendicar le vittime di tanta ingiustizia: sfregiar la bellezza, sottrar la vecchiaia all’agonia della vita. E doveva in certi momenti far violenza a sè stesso per resistere all’impulso del delitto, mentre che lo spirito lucidissimo glielo rappresentava già visibilmente, come se egli allora lo commettesse. Delitto? No. Riparazione!
E quante volte, distogliendosi con subitaneo sforzo da quest’invasamento delittuoso e recandosi dalla madre, come per compensarla con esagerate cure del truce proposito nutrito un istante contro di lei, non gli avveniva di vedersi accolto dalle risa della incosciente, che gli diceva:
— Mettiti i piedi giusti!
Credeva la vecchietta ch’egli li tenesse così per capriccio o per farla ridere. E insisteva, ridendo:
— Mettiti i piedi giusti!
Allora anche lui rideva. Oh diventar pazzo di fronte alla stolidaggine della madre!
— Sì, ecco mamma: ora me li aggiusto.
E la vecchia, guardando, rideva degli sforzi di lui, che si raddrizzava i piedi reggendosi alla parete.
Il giorno della sprezzante ripulsa di Marta, egli non si recò nemmeno a visitare nelle loro camere la madre e la zia, come soleva, rincasando; non desinò, non andò a letto la notte, non si tolse neanche gli abiti inzuppati di pioggia. Appena ruppe il giorno, uscì per una delle sue lunghe passeggiate, nelle quali, dopo le crisi più violente, metteva alla tortura i piedi e sè stesso. Montecuccio, il più alto monte della Conca d’oro, era la mèta. Raggiunto il culmine, lanciava con tutta l’anima uno sputo in direzione della città:
— Io verme, a te vermicajo!
Vi ridiscese, quel giorno, spossato, sfinito, già quasi calmo. Era tardi: a quell’ora le lezioni al collegio dovevano essere già terminate. Stimò tuttavia prudente recarvisi, per scusare l’assenza. In fondo, vi si recava con la speranza d’incontrare Marta per via.
E infatti la incontrò a pochi passi dal portone del Collegio. Andava lentamente, leggendo una lettera: un’altra lettera.... Chi le scriveva ogni giorno? E com’era accesa in volto! Quella, senza dubbio, era una lettera d’amore!
Il Falcone ne era così certo, come se già gliel’avesse strappata di mano e letta.
Era stato ben questo il primo impeto nel vederla; ma s’era trattenuto: l’aveva lasciata passare innanzi lentamente, per la sua strada, assorta nella dolce lettura.
— Non m’ha veduto.... — fece tra sè. E andò per un’altra via, senza pensar più di scusare al collegio la sua assenza.