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Montecuccio, il più alto monte della Conca d’oro, era la mèta. Raggiunto il culmine, lanciava con tutta l’anima uno sputo in direzione della città:
— Io verme, a te vermicajo!
Vi ridiscese, quel giorno, spossato, sfinito, già quasi calmo. Era tardi: a quell’ora le lezioni al collegio dovevano essere già terminate. Stimò tuttavia prudente recarvisi, per scusare l’assenza. In fondo, vi si recava con la speranza d’incontrare Marta per via.
E infatti la incontrò a pochi passi dal portone del Collegio. Andava lentamente, leggendo una lettera: un’altra lettera.... Chi le scriveva ogni giorno? E com’era accesa in volto! Quella, senza dubbio, era una lettera d’amore!
Il Falcone ne era così certo, come se già gliel’avesse strappata di mano e letta.
Era stato ben questo il primo impeto nel vederla; ma s’era trattenuto: l’aveva lasciata passare innanzi lentamente, per la sua strada, assorta nella dolce lettura.
— Non m’ha veduto.... — fece tra sè. E andò per un’altra via, senza pensar più di scusare al collegio la sua assenza.