L'Asino e il Caronte/Il Caronte/Scena X
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Traduzione dal latino di Marcello Campodonico (1918)
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Scena X.
Caronte e varie ombre.
Car. — Dentro, dentro! ombre infelici... Perchè piangete già prima d’essere condannate? Come se fosse poco dolersi quando si sente il male!... E tu, Ombra procace ed elegante, chi sei?
Ombra 1.a — Cipria, la meretrice.
Car. — E dove esercitasti il tuo mestiere lucroso?
Ombra. — A Roma.
Car. — Chi è questo tuo compagno?
Ombra. — Il Cardinale che mi amava e mi manteneva.
Car. — Come mai tu così giovanetta potesti amare un vecchio, e lui prete una prostituta?
Ombra. — A lui piacque la mia bellezza, a me il suo oro.
Car. — Dunque la bellezza vale più che la religione? e il denaro più che...
Ombra. — Col suo denaro ha ricomprato più volte la sua vecchiezza e la bruttezza della faccia. Inoltre devi sapere che, quantunque vecchio, era molto libidinoso con le donne... nè io sola gli bastavo. Certo, quando m’han menata da lui la prima volta, credevo d’aver da fare con un giovane; sicchè, quando mi trovai in presenza di un vecchio con la faccia rugosa, cominciai a lamentarmi che il nostro mezzano m’avesse così ingannata. Ma lui da furbo ruffiano mi disse: «Non ti lagnar tanto, animuccia! quando avrai provato il suo nervo, non dirai più che ha la bocca torta!» E fu così: nè prima nè poi ho provato altra corda più tesa.
Car. — Al fuoco, al fuoco eterno, che vi serva da letto! E tu che ti copri con la cocolla, chi sei?
Ombra 2.a — Un frate.
Car. — Di che ordine?
Ombra. — Più d’una volta son passato da un ordine all’altro.
Car. — E perchè?
Ombra. — Per poter ingannare più facilmente. Di giorno godevo a sentirmi confessare i peccati delle donne, di notte gozzovigliavo per i bordelli.
Car. — E il denaro di dove lo prendevi?
Ombra. — Un po’ con la frode, un po’ col furto. Ma sopratutto ingannando le donnicciuole, e sgraffignando in sacrestia.
Car. — Sacrilegi ed inganni li espierai nel fuoco. E tu che hai la pelle così lucente e liscia, e cammini come un’anatra, che professione facevi?
Ombra 3.a — Facevo il vescovo.
Car. — E hai messo su tanta pancia?
Ombra. — Non pensavo che al ventre: e ci ho strutto dentro tutte le rendite della mia chiesa. Anzi ho anche fatto lo strozzino.
Car. — E non ti bastavano le rendite della chiesa?
Ombra. — Quelle bastavano al ventre: l’usura serviva al pene. Mantenevo molte concubine, e coll’oro corrompevo anche le donne maritate.
Car. — Miserabile, che devi reggere così grosso ventre su piedi sfatti e malati! più miserabile, che hai venerato come dei solo il ventre e il pene, perchè l’anima ti pesava! più miserabile ancora, che hai suscitato la collera di quel Dio che non conoscesti, come non hai conosciuto te stesso! Va all’inferno!... E tu? bambina così timida e vergognosa!...
Ombra 4.a — Sono una disgraziata.
Car. — Perchè così afflitta?
Ombra. — Potessi perdere la memoria!
Car. — Di che? perchè? Non disperarti!... Se hai peccato, a ciò costretta da altri, avrai una pena leggiera.
Ombra. — Ahimè, m’hanno turpemente ingannata!
Car. — Chi t’ha ingannata?
Ombra. — Un vecchio prete birbante, che m’ha tolto la mia verginità.
Car. — E come mai? Racconta.
Ombra. — Andavo spesso in chiesa, a pregare Dio che mi facesse trovare un buon marito; e spesso anche mi confessavo da un vecchio prete che pareva un santo. Mi lodava, mi dava buone speranze, mi si mostrava molto affabile. Quando ebbe ben conosciuta la mia semplicità e la mia ignoranza, mi disse: «Dio vuole che tu non prenda marito; a Lui devi consacrare la tua verginità». — Rispondo: «Se tu me lo consigli, e dici che Dio così vuole, sia fatta la volontà di Dio! A Lui dono e consacro la mia verginità». «Così devi fare, figliola! e hai detto ottimamente. Ma tu non sai, forse, che quello che hai consacrato a Dio, devi darlo a qualche sua Chiesa». — «E a qual chiesa potrei io consacrarla, padre, meglio che alla tua?» — «Sta bene; intanto io interrogherò la mia coscienza, se posso prendere in nome della mia chiesa il deposito di questa tua sacra offerta. Va, figliola; ritorna da me domattina. Io passerò la notte in preghiera; tu lavati bene, poi mettiti una camicia nuova: bisogna esser tutti mondi davanti a Dio; e chi è puro di cuore non può toccar cose impure. Vieni domani sola al convento: Dio non vuol testimoni alla tua offerta».
Il mattino dopo andai sola sola, com’egli m’aveva comandato, alla chiesa del convento; ed egli mi fece tosto entrare in una cappella di cui aveva la chiave, dove davanti a Dio ardevano moltissime candele. Dopo aver pregato un poco: «Ora spogliati, figliola: la purità della tua persona deve essere offerta a Dio nuda, come se ti facesse sua sposa». Quando fui nuda, in piedi davanti a lui, «Chiudi gli occhi, e prega». Dopo un poco, toccandomi le mammelle, diceva: «queste sono della mia chiesa»; poi carezzandomi il mento e le guance, «queste pure sono della mia chiesa». Poi, facendomi col dito una croce sopra le labbra, mi baciò tre volte, dicendo: «così prendo possesso della tua bocca». E poi così il petto, i fianchi, il ventre. Poi mi ordinò di stendermi a terra. Io malaccorta mi stesi; e allora egli piegando i ginocchi e toccandomi le cosce disse, l’empio! «Dio, tu che creasti queste belle cosce pienotte, e questo ventre liscio e senza difetto, e queste belle braccia rotonde così venuste e così soavi, guarda questa tua verginella innocente, e rallegrati di prenderne possesso». Tre volte cantò queste parole come fosse una formola sacra, poi, mettendomi la mano alla parte per cui noi siam donne, disse: «Come con la mia bocca ho preso il possesso della tua bocca, così di questa tua parte prendo possesso con la parte mia».
Car. — Birbante! Ma come t’accorgesti di essere stata ingannata?
Ombra. — Perchè, avendomi fatta tornare più volte, e sempre egli lavorando con più ardore il suo fondo, finii col trovarmi incinta... Ah fossi morta prima!... Morii invece nel parto.
Car. — E... non ti ha assolto quando stavi per morire?
Ombra. — Sì; m’ha assolto.
Car. — E allora sta tranquilla: anche qui ti assolveranno i giudici infernali.
⁂
Guarda uno là che ride! Ti par luogo da ridere questo?
Ombra 6.a — Rido, perchè non ho da pagarti il nolo: Ah ah!
Car. — Ti prendi gioco di Caronte, tu?
Ombra. — Io non gioco mai: nè a dadi nè a carte.
Char. — Che sorta d’uomo è costui! anche nel dolore ha voglia di scherzare... Dico ego tibi: alium paulo post sermonem seres, ubi ad forum veneris.
Umbra. — Vendi in foro halium (at non Veneris!) non seri solet.
Char. — Ma come sei bravo! Dic, quaeso, quam artem exercuisti?
Umbra. — Martem non exercui, sed male me Mars habuit.
Char. — Di bene in meglio! Tu me, facetissime homo, tuis istis dictis vel in risum rapis.
Umbra. — Rapis, amice, nunquam sum usus; magis me delectavit coepa et porrum.
Char. — Videlicet suae cuique sunt voluptates.
Umbra 3.a — Nunquam ego e sue voluptatem cepi unquam. Egone bestiolam tam immundam in delitiis haberem? Parce, oro, Charon: delicatior ego fui quam reris. Principes viros in iocis habui, non bestiolas: illos mihi ludos faciebam.
Char. — Tum tu histrio fuisti?
Umbra. — Hetruria mihi patria fuit, non Histria; ma ho avuto sempre per principio di non arrabbiarmi mai, di non dolermi di nulla.
Quand’uno pigliava moglie, io ridevo; quando seppelliva un figlio, ridevo; un altro impazziva per amore? ridevo. Ridevo se uno vestiva troppo di lusso; se fabbricava con troppa magnificenza, se comprava un podere troppo grande: ridevo sempre di tutto. Una sola volta mi ricordo d’aver pianto, e fu quando, mortami la madre, dovetti comprare un pezzo di terra per farla seppellire in santo; e piansi sulla triste condizione degli uomini e della loro religione. Ma dopo poco avevo bell’e asciugate anche queste lagrime, e, fedele alla mia natura, risi di me stesso che non avevo riso anche allora.
Car. — Sei un bel tipo tu! che nascondi la sapienza sotto il riso...
Ombra. — Parla chiaro; non borbottare: non scherzo più. Domandami pure.
Car. — Sei così originale, che vorrei sapere un po’ della tua vita.
Ombra. — Non mi sarà grave: perchè, riandando il corso della mia vita, non troverei nulla di cui dovessi pentirmi. Ti par poco?
Devi dunque sapere che — in primis et ante omnia — vedendo il governo della cosa pubblica essere sempre in mano di gente malvagia e sediziosa, mi astenni dai pubblici uffici, contentandomi di vivere da privato. Occupandomi solo di coltivare i miei campi, non volli fare mai il mercante; per timore o di diventare usuraio, o di espormi a gravi rischi. Non mi son mai messo ai servigi di nessuno, nè piccolo nè grande. Vivevo fuori della città, dove andavo di raro; e sempre ben deciso a non dar noia nè far danno ad alcuno, ma neppure a prendermela per detto o fatto di altri. Entravo in città ridendo, ne uscivo ridendo: se vedevo qualche amico o conoscente, lo salutavo e si stava allegri insieme; ma se cominciava a parlar di politica, lo piantavo subito.
Al mattino andavo casto in chiesa, ma non volli mai stringere famigliarità con dei preti: finito l’uffizio divino, via subito. Stavo volentieri con delle persone colte, che fossero piuttosto rette nei loro giudizi, che ingegnose; e quando discutevano, li ascoltavo volentieri. Se fra i pochi miei amici — pochi, dico! — a qualcuno fosse toccata una disgrazia, lo consolavo esortandolo ad imitarmi. Bisogna ridersi della fortuna, e non dolersi di ciò che è necessario nella nostra natura.
Poi me ne tornavo in villa, e qui terminavo il giorno, parte leggendo, parte in qualche lavoro campestre, o passeggiando: la notte, dormivo; o se no, studiavo e pensavo. Nei giorni festivi scendevo volentieri al paese, discorrendo coi cittadini del tempo buono o cattivo, della natura dei terreni, degli innesti, delle semine, del modo di irrigare, ecc. e cercavo d’imparare dai loro discorsi pieni di senno pratico.
Fui sempre lontano dalle liti e dai tribunali, ma fuggivo anche il banchettare chiassoso: vivevo parcamente, non per avarizia ma per non dover ricorrere al medico. Insomma, non volli esser mai servo delle cose, ma padrone.
Car. — E la morte non t’ha mai messo paura?
Ombra. — Il rimedio sta nel vivere tranquillo ed onesto.
Car. — E contro la povertà qual è il rimedio?
Ombra. — Pensare che non può essere mai povero chi vive secondo natura.
Car. — E contro l’ambizione?
Ombra. — Pensare che non si cade mai pericolosamente se non dall’alto.
Car. — E contro la calunnia?
Ombra. — La buona coscienza.
Car. — E contro l’invidia?
Ombra. — Come può sentir l’invidia chi non si duole mai e sempre ride?
Car. — Ti ha mai turbato la superstizione?
Ombra. — Guardavo Dio; chiudevo le orecchie alle bugie dei preti.
Car. — Non ti sei mai adirato?
Ombra. — Mi sdegnai una volta. E non per me, ma perchè vidi un innocente condannato a torto, senza che i cittadini protestassero. Ma vedendo poi che mormoravano sottovoce e avevano paura... risi anche di quello.
Car. — Soldato lo fosti mai?
Ombra. — Nemmeno la tromba volevo sentire.
Car. — E non ti sei mai posto al seguito di re o di reucci?
Ombra. — Mai. Sono nato per me, e non pei re.
Car. — Hai avuto figli?
Ombra. — Mi sono morti subito, e ho pensato che quella era la volontà di Dio.
Car. — Dunque hai preso moglie?
Ombra. — Più per far piacere ai miei genitori che a me; mi morì dopo tre anni di matrimonio, e d’allora in poi vissi celibe.
Car. — Perchè non ne hai preso un’altra?
Ombra. — Non bisogna mettersi allo sbaraglio due volte, e volevo esser libero.
Car. — Litigavi spesso con lei?
Ombra. — Mai; perchè essa era di carattere dolce e verginale; ed io cercavo di esser ilare in casa come fuori.
Car. — E che ti par del destino dell’uomo?
Ombra. — Vanità e stoltezza in ogni cosa.
Car. — Felice te, che hai vissuto da sapiente!
Ombra. — Non chiamare nessuno nè felice nè sapiente: perchè non c’è nessuno così ricco di beni, che non sian molti più quelli che gli mancano; nè alcuno così saggio, che non ignori infinite cose. E poi si sa che la perfezione non è di questo mondo. Inoltre, come poter essere felici, quando da un momento all’altro tutto può mutartisi contro?
Car. — Non dissi che tu eri felice, o amico; ma felice per aver saputo ciò.
Ombra. — Non è la conoscenza dei beni che rende l’uomo felice, ma il possederli e l’usarne con gioia.
⁂
Car. — Ma chi è quel prepotente sfacciato che fa tanto chiasso laggiù?
Ombra 6.a — È il primo dei miei amici; non ti adirare con lui.
Car. — Amici voi?... così diversi come siete?...
Ombra. — Se è proprio dell’amico giovare all’amico, questi m’è stato utile più di nessuno altro amico. Devi sapere che egli era del mio quartiere; e siccome ogni giorno leticava con sua moglie, fu quello che più mi convinse a non riprenderla io. Poi, siccome per un nonnulla se la prendeva con me e coi vicini, m’insegnò ad essere paziente e tollerante con tutti. E perciò, come Ercole, salendo all’Olimpo, andò a salutar prima fra tutte Giunone, la sua acerbissima nemica, che gli aveva imposto le più faticose imprese, così io amo costui e lo ringrazio d’avermi insegnato la pazienza.
Car. — Pazienza e sapienza. Ma tu, noiosissimo seccatore, perchè ti conducevi così?
Ombra 7.a — Mi chiamavano il Mosca, e ho voluto esserlo per davvero.
Car. — Solamente? Chi sa come ti rincresceva di non avere il pungiglione delle vespe!
Ombra. — Mi contentavo di quello delle mie parole, con cui vincevo le vespe e le zanzare.
Car. — La tua pena sarà dunque fra le zanzare e i calabroni! Vattene; e tu, ospite caro Etrusco, dimmi se conosci qualcun altro, in mezzo a questa gran moltitudine.
Ombra 6.a — Vedi: questo primo fu il più bugiardo uomo che esistesse al mondo; ma la sua bugia più grossa — e ora la confessa — fu quella che disse a me, di non aver mai leticato con la moglie. Quel giovane che lo segue era nato ricco ed è morto poverissimo, per aver posto ogni suo studio a far del metallo fumo, e del fumo metallo; finì col gettare nella fornace tutto il suo oro. Quel terzo fu tanto libidinoso e bestiale, che non si astenne nemmeno dai bruti. Di quei due, l’uno fu il più vile degli adulatori, l’altro un emerito ruffiano; e tutti due riuscirono a conquistarsi i primi posti presso Cesari e Pontefici. L’adulatore, salito in alto con le sue vili arti, si fece poi ricchissimo accusando gli innocenti e confiscandone le ricchezze — e io lo so, non perchè io mi occupassi di lui, ma perchè me l’ha detto uno della mia tribù che lo conosceva bene. L’altro invece l’ho conosciuto; aveva un aspetto così serio e triste, che a guardarlo si sarebbe detto non solo integerrimo, ma nato per essere maestro di morale: brutto ipocrita!
Se invece vuoi sentire un vero filosofo, che non solo sa discorrere bene, ma, mettendo in pratica le sue dottrine, ha dato il buon esempio, è quello là. Vuoi sentirlo parlare?
Car. — Volentierissimo. Qual è la sua patria?
Ombra. — D’origine era Umbro.
Car. — Ospite Umbro, mi congratulo della tua venuta nel Regno dei Mani, sia perchè tu ti sei liberato dalle cure che travagliano la misera vita dell’uomo, sia perchè io avrò, spero, il piacere di ascoltarti. Vuoi dirmi che cosa tu pensi della Virtù?
Ombra 8.a — Con molto piacere. Vuoi che ti dica in che cosa specialmente consiste la vis virtutis, la sua forza, e quali frutti se ne ricavano? Tu sai quanto Dio è distante dall’Uomo, non solo di spazio ma anche per natura: ebbene, la Virtù è la sola che in vita concilia Dio all’uomo, e dopo morte unisce l’uomo a Dio. Poichè, siccome la virtù «sta nel mezzo» e fugge gli estremi, così anche fra Dio e l’Uomo sta unicamente la Virtù; nè senza di essa è possibile conoscere Dio o salire a Dio. Tutti gli altri beni sono fragili e passeggeri: la virtù sola è stabile ed eterna. E mentre essa non ha bisogno di alcuno, tutte le altre cose senza di lei sono manchevoli.
Felice dunque colui che bene oprando e ben ragionando abbia raggiunto la perfetta virtù! Essa lo fa vivere libero e sicuro, al disopra del turbamento delle passioni e dei pericoli eterni. Egli non temerà le leggi, perchè detterà legge a sè stesso; e procedendo sicuro innanzi, si metterà sotto i piedi le calunnie del volgo e i capricci dei tiranni; saldo come torre contro la Fortuna, tanto se questa gli sorrida, come se gli sia avversa.
Car. — Non si potrebbe dire di più e di meglio. In essa sta la felicità dell’uomo; ma questi, ciechi della mente, si potrebbe dire che corrono invece volenterosi alla propria rovina. E lo so io, che sento continuamente la gente accusar — tardi! — la propria stoltezza. Mi congratulo con voi due, e vi ringrazio.
Ma ormai siam giunti, e vi tocca discendere. Entrate dunque felici nel regno beato della Immortalità. Sapientissimo Mercurio, io ti consegno tutta questa schiera che ho sbarcato: guidali tu davanti ai loro guidici.
Coro delle anime dannate:
Per noi si va nella Città dolente,
per noi si va nell’eterno dolore,
per noi si va fra la perduta gente.
Nascemmo in pianto, vivemmo nell’errore,
piangendo navigammo il triste fiume,
piangendo affronteremo — oh qual terrore! —
Minosse, il rege dalle oneste piume,
Eaco truce, ed il tremendo aspetto
di Radamanto, che nel gran Volume
eterno segneranno il maledetto!
Cerbero allor con tre gole gli latra,
l’Idra lo morde al collo e lo tien stretto,
rugge il Leon e lo scuoia e lo squatra.
Coro delle anime innocenti:
Nell’eterna primavera |