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il caronte | 133 |
li ascoltavo volentieri. Se fra i pochi miei amici — pochi, dico! — a qualcuno fosse toccata una disgrazia, lo consolavo esortandolo ad imitarmi. Bisogna ridersi della fortuna, e non dolersi di ciò che è necessario nella nostra natura.
Poi me ne tornavo in villa, e qui terminavo il giorno, parte leggendo, parte in qualche lavoro campestre, o passeggiando: la notte, dormivo; o se no, studiavo e pensavo. Nei giorni festivi scendevo volentieri al paese, discorrendo coi cittadini del tempo buono o cattivo, della natura dei terreni, degli innesti, delle semine, del modo di irrigare, ecc. e cercavo d’imparare dai loro discorsi pieni di senno pratico.
Fui sempre lontano dalle liti e dai tribunali, ma fuggivo anche il banchettare chiassoso: vivevo parcamente, non per avarizia ma per non dover ricorrere al medico. Insomma, non volli esser mai servo delle cose, ma padrone.
Car. — E la morte non t’ha mai messo paura?
Ombra. — Il rimedio sta nel vivere tranquillo ed onesto.
Car. — E contro la povertà qual è il rimedio?
Ombra. — Pensare che non può essere mai povero chi vive secondo natura.
Car. — E contro l’ambizione?
Ombra. — Pensare che non si cade mai pericolosamente se non dall’alto.
Car. — E contro la calunnia?
Ombra. — La buona coscienza.
Car. — E contro l’invidia?
Ombra. — Come può sentir l’invidia chi non si duole mai e sempre ride?
Car. — Ti ha mai turbato la superstizione?
Ombra. — Guardavo Dio; chiudevo le orecchie alle bugie dei preti.