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XXVII.1
A FEBO APOLLINE
De la quadriga eterea
Agitator sovrano,
Sferza i focosi alipedi,
4Bellissimo Titano.
Te pur, de l’ugna indocile
Stancando il balzo eoo,
Chiamâro in van ne’ vigili
8Nitriti Eto e Piroo,
Quando la bella Orcamide
Ti palpitò su ’l core
E gli achemenii talami
12Chiuse ridendo Amore.
E a noi con l’alma Venere
Facile Amor si mostra,
E noi gli amplessi affrettano
16De la fanciulla nostra.
In vano, in van la rigida
Madrigna a me la niega;
Amor che tutto supera,
20Amor che tutto piega,
Vuol, fausto iddio, commetterla
Ne le mie mani e vuole
I nostri amor congiungere,
24Te declinato, o Sole.
Ed ella omai le tacite
Cure nel petto anelo
Volge, e te guarda. Oh giungati
28Il caro sguardo in cielo!
Dolce fiammeggian l’umide
Luci nel vano immote:
Siede pallor lievissimo
32In su le rosee gote.
Ecco, presente Venere
Ne l’anima pudica
Regna, e il pensier virgineo
36Con forza empia affatica.
Cotal forse aggiravasi
Ne la stanza odïosa
Del giovinetto Piramo
40L’inaugurata sposa,
E in cor pensava i gaudii
Al fido orror commessi
Ed i furtivi talami
44E i raddoppiati amplessi:
In tanto Amor gemeane,
De’ preparati lutti
Già fatalmente prèsago
48E de’ mutati frutti.
Ma le dolenti imagini
Si portin gli euri in mare:
Diciam parole prospere:
52Benigno Amor ne appare.
Oh sperar lungo e timido,
Oh d’angosciose notti
False quïeti, oh torbidi
56Sogni dal pianto rotti!
Mercé, mercé! pur compiesi
Il dolce e fier desio,
Pur debbo al fine io stringerla
60Su questo petto mio!
Ah no che sen piú candido
Endimïon non strinse
Quando notturna Venere
64La schiva dea gli scinse!
Io ardo. Amore infuria
Nel fulminato petto;
E corro, e guardo, ed Espero
68Gridando in cielo affretto.
Pietà, divino Apolline!
Spingi i destrier celesti,
Le inerti Ore sollecita;
72Ruina.... A che t’arresti?
E ancor rattieni il cocchio
In su l’estrema curva?
E ancor l’ancella undecima
76Lenta su ’l fren s’incurva?
Male io sperai te facile
Al suon di mie querele,
Sempre a gli amanti infausto,
80Sempre in amor crudele!
Clizia oceania vergine
Per te conversa in fiore
Ancor mutata sèrbati
84Il non mutato amore.
Imprecò già Coronide
Per te al disciolto cinto:
Amícle un giorno e Tàigeta
88Pianser per te Giacinto.
Ma e tu d’amor gl’imperii,
Tu, petto immansueto,
Durasti; e i greggi a pascere
92Pur ti ritenne Admeto.
Te solitari attesero
I templi ermi del cielo,
Né piú muggía da gli aditi
96La religion di Delo.
Giacea de’ tori indocili
Dal vago piè calcato
L’arco divino argenteo
100In abbandon su ’l prato.
Né bastò l’arte medica
Verso la cura nova:
Ahi, sol di furie e lacrime
104Il nostro iddio si giova.
Né tra le dita ambrosie
Piú ti splendea la lira,
Quella onde al padre caddero
108Sovente i fuochi e l’ira.
E che? l’avena rustica
Dal labbro tuo risona,
O figlio de l’Egioco,
112O figlio di Latona?
Tu d’amor gemi, ed orride
Co ’l muggito diverso
Rompon le vacche tessale
116La dotta voce e il verso.
Fama è però che memore
Tu de l’incendio antico
A gli amorosi giovini
120Nume ti porgi amico.
E i vóti a te salirono
Del buon Cerinto grati,
Quando immaturi pressero
124L’egra Sulpizia i fati:
Tu al bel corpo le mediche
Mani applicar godesti,
Tu al giovinetto cupido
128Integra lei rendesti.
E giorno fu che in trepida
Cura Tibullo ardea:
Varia di amori il candido
132Vate Neera angea.
Gemeva egli le vigili
Piume stancando in vano:
Ma in piena luce videti
136Il cavalier romano.
Pe ’l lungo collo eburneo
Intonsi i crin fluire
Vide e stillar la mirtea
140Chioma rugiade assire.
Qual de la luna in placido
Sereno, era il candore:
Era nel corpo niveo
144Di porpora il colore,
Come al settembre tingonsi
Bianche mele fragranti,
Come fanciulle intrecciano
148I gigli a li amaranti.
- Soffri, dicesti: ad Albio
Serbata è pur Neera:
Tendi le braccia a i superi
152Con molta prece, e spera. —
E anch’io pregai: di lacrime
Io gli abbracciati altari
Sparsi: e non furo i superi
156A me di grazia avari.
Non io lamento perfida
La mia fanciulla, escluso
Non io gli aspri fastidii
160De la superba accuso;
Né de le mense eteree
Vuo’ che ti prenda oblio,
Ed entri, almo Latoide,
164Quest’umil tetto mio.
Mi dolgo io ben che tardisi
A le mie gioie l’ora
Dal corso tuo che a Nereo
168Par non accenni ancora.
Dolgomi.... Ahi folle! inutili
Querele io spando: errore
Al cor m’induce il memore
172Libetrico furore.
Te da le valli tessale
Te da l’egea marina
Vedea de’ vati ellenici
176La fantasia divina,
Giovine iddio bellissimo
Pe’ i cieli ermi sorgente:
Ignei tu avevi alipedi,
180Carro di fiamma ardente;
E intorno ti danzavano
Ne la serena spera
Le ventiquattro vergini
184Fósca e vermiglia schiera.
Né vivi tu? né giunseti
Del vecchio Omero il verso?
E Proclo in van chiamavati
188Amor de l’universo?
Il vero inesorabile
Di fredda ombra covrío
Te larva d’altri secoli,
192Nume de’ greci e mio.
Or dove il cocchio e l’aurea
Giovanil chioma e’ rai?
Tu bruta mole sfolgori
196Di muto fuoco, e stai.
Ahi! da le terre ausonie
Tutte fuggîr li dèi:
In vasta solitudine,
2000 Musa mia, tu sei.
In vano, o ionia vergine,
Canti, ed evochi Omero:
Surge, e minaccia squallido
204Da’ suoi deserti il vero.
Vale, o Titano Apolline,
Re del volubil anno!
Or solitario avanzami
208Amore, ultimo inganno.
Andiam: de la mia Delia
Ne gli atti e nel sorriso
Le Grazie a me si mostrino
212Quai le mirò Cefiso;
E pèra il grave secolo
Che vita mi spegnea,
Che agghiaccia il canto ellenico
216Ne l’anima febea!