Istoria delle guerre vandaliche/Libro primo/Capo XII

../Capo XI

../Capo XIII IncludiIntestazione 18 settembre 2024 100%

Libro primo - Capo XI Libro primo - Capo XIII


[p. 337 modifica]

CAPO XII.

Il patriarca di Bizanzio benedice l’esercito. — Sogno di Procopio. — Partenza delle navi, ed omicidio punito da Belisario. — Suo parlamento.


I. Giustiniano, correndo l’anno settimo del suo imperio, sul far di primavera1 comandò che la nave capitana aggiugnesse il lido vicino al palazzo, dove Epifanio vescovo della città benedisse l’armata secondo la usanza, e pregatole bene impose al guerriero testè battezzato di andare a bordo2; salitivi in pari tempo Belisario e la consorte Antonina si sciolse l’ancora. Il duce avea seco Procopio autore della presente Istoria, il quale era dapprincipio alquanto in forse e temente del pericolo, ma rincorato poscia da un sogno intraprese con grandissimo fervore il viaggio.

II. Parvegli, dormendo, essere in casa Belisario e [p. 338 modifica]che tal dei donzelli annunziasse avervi gente con doni all’uscio; il duce allora affacciatosi ad un balcone vide alcuni del volgo col dorso carico di grano3 e di frutti: disceso adunque fe loro deporre le offerte nell’androne, e sopra vi si assise colla sua comitiva gustando di quelle frutta sembrate ad ognuno di sapore gratissimo; in compendio tale fu il sogno.

III. Le altre navi seguirono la capitana e fecero scala tutte di conserva all’antica Perinto, a noi Eraclea4, dove spesero cinque giorni ad attendere alcuni [p. 339 modifica]cavalli delle imperiali razze della Tracia, presente di Giustiniano al condottiero, di là apportarono ad Abido, e la bonaccia ve li ritenne quattro giornate. In questo intervallo due Massageti uccisero un compagno che beffavali di lor ebbrezza, essendo gente appassìonatissima del vino; e Belisario condannolli entrambi a morire di laccio su d’un promontorio di quella regione. Per la quale sentenza tutta la schiera loro, e massime i consanguinei, levarono forte rumore, dicendo non essersi già sommessi alle romane leggi entrando volontariamente in lega coll’imperio, nè in patria andar punita di morte simigliante colpa; e mormoravanne altresì alcuni Romani, che, scellerati eglino stessi, non volevan sentir di gastighi contro de’ rei. Il duce però fatti chiamare a parlamento i Massageti e l’esercito intiero così arringolli:

IV. «Se a gente inesperta di guerra o a nuove cerne ora io prendessi a ragionare, dovrei con assai lunga diceria esporre quanto addivenga efficace la osservanza della giustizia al conseguir la vittoria, lasciando agli ignoranti il pensare che tutte la forza di quest’arte, e tutti i prosperi o contrarj eventi delle armi [p. 340 modifica]dipendano dal solo valore. Voi però che spesso rovesciaste nemici non inferiori di numero e coraggio, e spesso pure foste da loro vinti, andrete persuasi, il credo, che mentre gli uomini qui e qua combattono, l’Ente Supremo regolane di pieno suo volere i destini. Quindi è fuor d’ogni dubbio che la gagliardia del corpo, il continuo esercizio delle armi e tutti gli apparecchi di guerra ben poco montano rimpetto alla giustizia ed alla riverenza del Nume, e che dall’adempimento di queste cose ridondano prosperità incomparabilmente maggiori. Imponendoci adunque soprattutto giustizia di vendicar coloro che furono a torto uccisi, io per non mancare a lei, e perchè non venga meno ogni disciplina ed in pochissimo pregio abbiansi le nostre vite, ho sentenziato i due omicidi a morte. Che se un barbaro adduce a minorar sua colpa di aver ucciso nell’ebbrezza, e’ vie più s’aggrava, non essendo lecito a chicchessia, e ben meno ad un soldato dell’esercito, l’abusare del vino al punto di togliere ai compagni la vita. Ma se l’ebbrezza vuol essere per sè stessa gastigata eziandio quando va esente da omicidio, quanto più farà mestieri punirla rendutasi rea di sì grande eccesso, in ispecie poi se il sangue versato fu del compagno anzichè dello straniero? Laonde siate voi stessi i giudici della gravezza e malvagità del commesso delitto, custodite le vostre mani, e guardatevi dall’ingiuriare, conciossiachè non lascerò mai impunita, nè comporterò un’ingiustizia comunque ella sia, e meno ancora tra’ miei commilitoni annovererò colui che, sebbene temuto [p. 341 modifica]dai nemici e valoroso, non si presenta con mani pure a combatterli, un nulla essendo il coraggio dalla giustizia disgiunto». Dopo quest’ammonizione tutto l’esercito convinto dell’equità di essa e preso da timore, avendo innanzi agli occhi l’eseguita sentenza, pensò tosto a moderarsi ed a vivere in buona armonia, certo di non patire ingiustizie sotto la obbedienza d’un tanto duce.

Note

  1. Nella stagione del solstizio estivo. (Cous.)
  2. Chi si fosse costui lo abbiamo dalla Storia Segreta (c. 1). «Era in casa di Belisario un giovane di nome Teodosio, nato in Tracia di genitori della setta degli Ennomiani. Volendo Belisario condurlo in Africa gli si fece al sagro fonte padrino; a ed insiem colla moglie lo adottò per figlioccio, secondo che i cristiani sogliono fare». Costui altrove è nomato maggiordomo di Belisario, ed essendo giovane di molto ingegno venne sì in Africa che in Italia prescelto dal duce a trattare gravissimi affari.
  3. Leggo questo sogno tradotto con qualche discrepanza dal mio testo nel Cousin.
  4. «Era Perinto posta sul mare in una eminenza della penisola lunga uno stadio. Avea le case ben unite insieme, e tutte cadenti sotto la vista, perchè a cagione del pendio del colle le une venivano ad essere sopra le altre, come se poste fossero su tanti scaglioni succedentisi, e così prendeva una certa forma di teatro» (Diodoro Siculo, lib. xvi, trad. del cav. Compagnoni). Essa fu da Filippo il grande strettamente cinta d’assedio, e molto travagliata perchè favoriva le parti degli Ateniesi. È incerta poi l’epoca nella quale cominciò a dirsi Eraclea, pretendendo alcuni scrittori che ai tempi di Tolomeo avesse già un tal nome, e portano a conferma della opinione loro un passo di questo autore ove si legge: Pirinthus, sive Heraclea; ma da altri si risponde che le ultime due parole (sive Heraclea) collocate da principio nel margine ad illustrazione, venissero in processo di tempo sconsigliatamente introdotte nel testo. Una seconda opinione ed anche fornita di maggiore probabilità è quella che ciò accadesse dopo l’imperio di Severo e de’ figli suoi, trovandosi in un nummo Mediceo dato in luce dallo Spanemio la leggenda: Επιδημία Β. ζινρον Περινθιων Νεωχορων; Adventus II Severi Perinthiorum Neocoron; ed in altro di Geta, presso l’Arduino: Περενθιων Νεωχορων; Perinthiorum Neocoron. È chiamata poi Eraclea da Zosimo in Aureliano, scrivendo: «Nel tempo della sua dimora presso Perinto, che ora, mutato il nome, è detto Eraclea, gli furono tramate insidie» (lib. i, cap. 6); da Vopisco e da Eutropio. Marciano eracleota la dice colonia de’ Samii (Perieg. in fine; V. inoltre Procopio, lib. iv, degli Edif.).