Istoria delle guerre vandaliche/Libro primo/Capo XIII

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CAPO XIII.
Belisario attende grandemente al benessere dell’armata di mare. — Molti soldati vittime dell’avarizia di Giovanni prefetto del pretorio. — Avvedimento di Antonina consorte di Belisario perchè sul mare non si guastasse l’acqua potabile.

I. Terminate queste faccende Belisario pose ogni studio acciocchè le navi sempre veleggiassero di conserva, ed apportassero tutte in un medesimo luogo, di leggieri occorrendo, ove sieno in gran numero, che le une discostinsi dalle altre, massime quando sorgano contrari venti; ed a prevenire tale disordine avvisò mezzo opportunissimo il destinarne alcune a tracciare, siccome guide, la via all’intiero lor novero. Fece pertanto alla capitana e a due altre montate dai primi duci tingere col minio le più alte parti delle vele ed attaccare dei fanali alla cima degli alberi, affinché rendute visibili di giorno e di notte fossero segno a quelle indietro per non isgarrare dal cammino; e’ volle inoltre che lo sciogliere dell’ancora venisse annunziato [p. 342 modifica]dallo squillar delle trombe. Salutato Abido furono le navi da impetuoso vento spinte a Sigeo1, e quindi tornata la calma liete giunsero a Malea2, dove nella notte, di soverchio ristrette per l’angustia del luogo, cominciarono ad urtarsi con gravissimo toro pericolo; ma i piloti ed i marinai fecero pruova di grande virtù ed arte, perciocchè animandosi a vicenda, giusta la usanza, con alte grida, e profittando scaltramente di alcune pertiche riuscirono a discostarle e ad accrescerne gl’intervalli: che se in quel frangente avesse per mala sorte spirato un vento gagliardo non so come e navi ed equipaggio sarebbonsi potuti salvare. Indi passarono a Tenaro, per noi Cenepoli3, poscia a Motone4 dove fatto avevano [p. 343 modifica]scala di fresco le navi colle truppe di Valeriano e Martino. Qui Belisario, cessato ad un tratto il vento, diede in terra coll’esercito, rassegnollo, e fu largo di onori cogli antedetti capitani. Essendo poi costretto a prolungarvi sua dimora in grazia del tempo, ebbe a soffrire la perdita di molti soldati presi da malattia, e fommi a dire il come.

II. Giovanni prefetto del pretorio uom era scellerato in tutto, specialmente però nell’escogitar cose perniciosissime alla comune degli uomini: ed avendone io già esposte alcune dando principio a questo lavoro, passo ora a narrare come l’estrema sua avarizia addivenisse funesta sorgente di morte nell’esercito. È costumanza d’infornare due volte il pane della truppa, acciocchè una maggior cottura rendalo più salubre e meno soggetto a guastarsi, nè tale addiviene se non se dopo aver perduto almeno la quarta parte del primitivo suo peso. Costui adunque, macchinando il mezzo di [p. 344 modifica]sparagnare legna e danaro coi panattieri, e di non alleggerirlo cotanto, ordinò che fosse portato crudo crudo nella stufa delle pubbliche tenne, e posto dov’era più intenso il fuoco, lasciandovelo sinchè la sua crosta mentisse il colore d’una doppia cottura; quindi fecelo entro secchi tradurre sulle navi. Giunta però la flotta a Motone lo si rinvenne convertito per intiero in corrotta e puzzolente farina, di guisa che fu mestieri valersi de’ medinni e delle moggia per distribuirne alle truppe. Gl’individui pertanto alimentati con esso nella state ed in un caldissimo clima agevolmente infermarono, morendone non meno di quattrocento5: ed assai maggiore sarebbene stato il numero se la provvidenza del condottiero non v’avesse tosto riparato coll’interdire quel cibo, surrogandone altro di perfetta qualità compro nel paese. Di poi ne diede avviso, querelandosi, all’imperatore, ma questi, avvegnachè molto biasimasse il prefetto, non imposegli tuttavia gastigo di sorta. Così andò la bisogna.

III. Fatto vela da Motone approdano a Zacinto6, [p. 345 modifica]e provvedutisi dell’acqua necessaria al tragittare dell’Adriatico, navigai di lungo, sinchè arrivati dopo sedici giorni di cammino mai sempre con poco e tardo vento nella Sicilia7, toccano a un luogo deserto, [p. 346 modifica]laddove l’occhio scorge a breve distanza il monte Etna8. Una sì lenta navigazione corruppe nelle navi tutta l’acqua meno quella destinata per la mensa di Belisario e de’ suoi convitati, essendo la moglie di lui Antonina riuscita a conservarla entro anfore di vetro sepolte in cassoni pieni di arena, e collocate nell’ima parte della nave, acciocchè il sole mai giugnesse a penetrarvi.

Note

  1. Ora capo Gianizzeri; nella Troade alla spiaggia dell’Arcipelago. V. Strabone (lib. xiii).
  2. Promontorio della Laconia presso le Boie: ora capo Matapan. Gell, Itiner. in Morea.
  3. Così Pausania: «Da Teatrone è lontano cento cinquanta stadj il promontorio Tenaro, che s’innalza sporgendo in mare; e sonovi le cale Achillea (ora porto Kallio, o Quaglio) e Psamato. Nel promontorio è un tempio somigliante a spelonca; in faccia un simulacro di Nettuno. Dal promontorio Tenaro è Cenepoli distante il navigare di una quarantina di stadj; anticamente era chiamata Tenaro anch’essa» (La Laconia, cap. 25, trad. del cav. Ciampi). Cenepoli è a noi Villanuova.
  4. Porto della Messenia fabbricato da Dotade figlio d’Istmio. Intorno poi all’origine di questo nome leggiamo in Pausania che «prima dell’esercito raunato da’ Greci a’ danni di Troia, sino alla guerra sotto Ilio Motene ebbe nome Pedaso; poi, da quanto ne dicono i Motonesi medesimi, mutò nome presolo dalla Motone figliuola di Eneo, ed affermano che a lui figlio di Portaone dopo la presa d’Ilio ritornatosene con Diomede nel Peloponneso, nascesse di concubina una figlia Motone. A parer mio diè il nome al paese lo scoglio Motone che fa loro anche il seno; perchè stendendosi sott’acqua rende più stretto il passo alle navi, ed insieme sta lì a mettere ostacolo che dal profondo non si rimescoli il flutto». (Della Messenia, cap. 55, trad. del cav. Ciampi). Strabone: «Appresso (dopo le Strofadi) viene Metona; la quale si dice che fosse da Omero denominata Pedaso: una delle sette città che Agamennone promise ad Achille» (lib. viii, trad. di F. A.).
  5. Cinquecento. (Cous.)
  6. Zante, o le piccole isole Curzolari dei moderni; isola del mar Ionio verso la parte occidentale della Morea, fabbricata da Giacinto o Zacinto figliuolo di Dardano. Non sarà fuor di proposito a maggiore illustrazione di questo viaggio marittimo di cui riportare il seguente brano di Strabone: « La larghezza del mar di Sicilia da Pachino a Creta si dice che sia di quattro mila e cinquecento stadj, ed altrettanto dal punto predetto fino a Tenaro di Laconia. Dal promontorio Japigio sin al fondo del golfo Corintio ve n’ha men di tremila; e il tragitto di chi naviga da quel medesimo promontorio alla Libia è di quattro mila stadii.» «Le isole di quel mare sono Corcira e Sibota in faccia all’Epiro; e poi dinanzi al golfo Corintio Cefallenia, Itaca, Zacinto, le Echinadi.» (lib. ii, tr. di F. Ambrosoli). Ed in altro luogo (lib. x) scrive «Giacinto un poco più di Cefallenia piega verso l’occaso ed il Peloponneso. La sua circonferenza supera i culto sessanta stadj, e sessanta o in quel torno è lunge da Cefallenia; il suo terreno selvoso ma fertile ha una città dello stesso nome degna di ricordanza. Da lei ai libici Esperj si numerano tremila e trecento stadj». Plinio in fine rammenta un suo più antico nome: Inter hanc (Same) et Achaiam cum oppido magnifica et fertilitate praecipua, Zacynthus, aliquando appellata Hyrìe (St. nat., lib. iv).
  7. «Essa è la più eccellente tra le isole, e tiene facilmente il primato per l’antichità delle cose degne di essere rammentate. Anticamente chiamossi Trinacria per la sua figura triangolare. Di poi fu detta Sicania dai Sicani che la coltivarono: indi Sicilia dai Siculi, i quali in essa passarono dall’Italia in gran numero. Il circuito suo è di quattromila trecento sessanta stadj, poichè il lato che corre da Peloro fino a Lilibeo e di mille settecento stadj, quello che da Lilibeo va a Pachino, scorrendo il promontorio della giurisdizione siracusana, comprende mille cinquecento stadj, e l’altro ne comprende mille centosessanta. I Siciliani per una tradizione continua di molti e molti secoli hanno dai loro maggiori udito che l’isola fu dedicata a Cerere ed a Proserpina. Alcuni poeti hanno favoleggiate che nelle nozze di Plutone con Proserpina Giove donò alla nuova sposa per anacaliptri (paraferna) quest’isola . . . Gli scrittori delle antiche narrazioni dicono che la Sicilia una volta era un Chersoneso, o vogliam dire penisola, e che poi diventò un’isola» (Diodoro Sic., lib. v, o sia Insulare, trad. del cav. Compagnoni). Plinio è della medesima opinione. Strabone dopo aver esposto a un di presso nell’egual modo la figura di quest’isola aggiunge: «Il tragitto dal Lilibeo alla Libia più breve di tutti e di mille e cinquecento stadj. Laonde si dice che un tale d’acutissima vista (Strabone anch’egli nomato) annunziò dalla sua vedetta ai Cartaginesi assediati in Lilibeo il numero delle barche che uscivano di Cartagine» (lib. vi, trad. di F. Ambrosoli). Tucidide scrisse che «quest’isola si estende in circuito a quel tratto che può fare in otto giorni una nave da carico; e in tanta grandezza venti soli stadj di mare son quelli, i quali le impediscono di congiungersi alla terra ferma.» (Guerre del Pelop., lib. vi, trad. del cav. Manzi).
  8. Questo cratere è distante da Catania ottanta stadj, e le sue lave corrono a pochi passi da quella città. Intorno ad esse ed al nome Etna V. Str., lib. vi.