Istoria delle guerre persiane/Libro secondo/Capo XXV

Capo XXV

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CAPO XXV.

Armi di Cosroe per la quarta volta sulle terre imperiali, ed assedio di Edessa. — E’ vuol danaro dai cittadini. — Prosegue a cingerli strettamente coll’esercito, ed i suoi lavori giungono a sbigottire gli assediati, che mandangli Stefano, medico, oratore di pace. — Parlar di costui. — Risposta del re. — La città vedesi agli estremi con timore gravissimo de’ suoi futuri destini.

I. Il Persiano col venturo anno riconduce l’esercito sulle terre imperiali volendo procedere nella Mesopotamia a vendicarsi, non per verità dell’imperator Giustiniano o d’altro mortale, ma dello stesso Nume adorato dai cristiani. Perciocchè egli nella prima scorreria tentato indarno l’assalto di Edessa1, mentre riveniva frettolosamente indietro e forte rattristavasi co’ magi dell’avvenuto, ebbe a dir loro che non cesserebbe ogni fatica e rischio per mettere il giogo a tutti gli Edesseni e per ridurne la città pascolo di gregge. Or dunque accostandovi l’esercito fece inoltrare senza danneggiamento una mano d’Unni sino alle mura ver l’Ippodromo, dove i pastori, sperando l’ertissimo luogo di non facile accesso al nemico, eransi riparati cogli armenti; ma tuttavia i barbari montativi predavan il bestiame, avvegnachè gli altri virilmente adoperassero a ributtarli. Allo strepito i Persiani corsero in aiuto degli Unni, e balzato eziandio fuori il presidio e [p. 250 modifica]gli abitatori a proteggere i suoi, v’ebbe ostinata zuffa nel cui periodo il rapito armento rivenne di per sè ai proprj covili. Tra’ combattenti barbari segnalavasi uno degli Unni, il quale pieno di ardimento procedendo travagliava più che gli altri tutti i Romani, ma tal contadino fromboliere colpitolo nel ginocchio destro il precipitò giù d’arcione. Durata la pugna dalla mattina al meriggio, distaccaronsi le fazioni, pensando e questi e quelli averne assai, e l’oste imperiale si ricondusse entro le mura, ed i Persiani piantarono il campo lungi da là sette stadj.

II. Allora Cosroe, indotto vuoi da tristi sogni, vuoi dal pensiero che sarebbegli tornato a disonor gravissimo il dover togliere una seconda volta quell’assedio a mani vôte, risolvè chiedere agli Edesseni gran somma di danaro in prezzo del suo ritirarsi. Al quale uopo nel venturo giorno mandò il turcimanno Paolo vicin delle mura ad annunziare ai cittadini che di buon grado accoglierebbe una loro deputazione all’oggetto di trattare seco. E questi inviarongli quattro ragguardevolissimi personaggi, a cui d’ordine reale il zabergane propose aspramente, per intimorirli, di scegliere tra la pace e la guerra; e rispondendosi dagli ambasciadori pace, replicò valer ella carissimo prezzo. Gli altri pregaronlo di aggradire le offerte cui obbligavansi dopo il saccheggio degli Antiocheni; ma quegli con riso beffardo rimandolli, aggiugnendo ch’e’ riverrebbero tostochè avessero meglio provveduto alla conservazione della città loro; trascorso però brevissimo tempo Cosroe li richiamò ed annoverati quanti e quali forti avesse già preso [p. 251 modifica]ai Romani, terminò minacciandoli di trattare gli Edesseni vie peggio ancora se non ricevesse tutto il danaro guardato entro quelle mura, ed a quest’unico patto promise ritirare l’esercito. L’ambasceria in cambio si dichiarava prontissima a comperare gli accordi, ma supplicavalo di proferire oneste domande, non avendovi uomo che prima di combattere atto sia a pronosticare veracemente l’esito della guerra, ed a misurarne tutti i pericoli. Punto il barbaro dall’arditissima risposta ordinò loro di subito partire.

III. Correndo l’ottavo giorno dell’assedio il re comandò che s’inalzasse rimpetto alla città un cavaliere, e l’opera ebbe subito principio col taglio di moltissimi alberi, che vennero poscia disposti in forma quadrata e coperti di terra e di pietre; ed a rendere più spedito il lavoro si trascurava ogni servitù di scalpello verso queste, allogandole siccome portavansi dalle cave. Furonvi eziandio intramesse lunghe travi all’uopo di collegare vie meglio l’opera e darle solidità maggiore nel suo inalzamento. Ora Pietro, altro dei duci soprastanti al presidio, il quale con Martino e Peranio difendeva la muraglia rimpetto al cavaliere, spedì una mano di Unni a combattere improvvisamente gli operai, e molta ne fu la strage, narrandosi per sino che tale di essi, nomato Argeo, ebbe l’animo di ucciderne ventisette2. Ammaestrati dall’avvenuto i barbari procedettero di poi nel lavoro con tale e tanta cautela che non fuvvi più mezzo di sorprenderli una seconda volta. Innalzatosi [p. 252 modifica]il cavaliere a segno degli archi nemici, la guernigione cominciò a gittarvi tanta copia di saettame e di pietre, che gli altri dovettero a propria salvezza formare nel suo davanti una maniera di testuggine sovrapponendo a telai di legno tessuti di pelo caprino, nomati cilicii, ed aventi lunghezza e spessore che impedissero il ferir degli strali o d’altra simigliante arma. I cittadini allora, intimoritisi, mandarono ambasceria al re dandone la presidenza a Stefano, medico principalissimo di que’ tempi e fornito di somme ricchezze in premio dell’avere un dì risanato Cavado figliuol di Perozo. Questi presentatosi con tutto il corteo al monarca gli dicea:

IV. «È massima incontrastabile di tutti i popoli che a buon re si convenga la clemenza, e che le guerre, gli eccidj, il predare cittadi, il guastar terre possano forse procacciargli altri nomi speciosi, non già quello di buono; nè havvi luogo quanto Edessa meritevole a giusto titolo di andar libero da ogni tuo nocumento. In lei io nacqui, il quale nulla presago del futuro attesi con ogni diligenza alla tua educazione e persuadei a Cavado il destinarti successore al trono: facendomi però l’artefice del tuo innalzamento addivenni pur quello di tutte le presenti sciagure della mia patria; sendo che l’ignoranza delle cose avvenire procacci molte pene ai mortali. Or dunque se hai rimembranza di tal benefizio cessa d’affliggerci con nuove sciagure; rendimi in fine questa mercede, non isterile a te stesso di beni collo storti il mal nome di possedere inumanissimo cuore».

V. Il re nondimanco protestò all’ambasceria di [p. 253 modifica]voler quivi rimanere coll’esercito finchè non venissergli restituiti dagli Edesseni Pietro e Peranio, i quali, schiavi di suo padre, avevano poscia avuto la baldanza d’impugnare le armi contro di lui; e quando i Romani vi si rifiutassero proponeva l’alternativa o di sborsargli cinquanta mila aurei3 o di aprire lor porte ad alcuni Persiani che investigherebbero e porterebbero via tutto l’oro e l’argento, lasciando ai cittadini la libertà e la padronanza del resto. Sì disse il re con orgoglio sommo, e pieno di fiducia che porterebbevi di leggieri entro le armi. Gli ambasciadori, giudicando impossibile di aderire a nessuna delle proposte, malcontenti dell’animo e pieni d’affanno tornarono alla città, mettendola con sì tristo annunzio nella più desolante costernazione.

VI. Cresceva intanto a dismisura il battifolle, ed i Romani più non sapendo qual consiglio prendere inviarono altra fiata al barbaro i loro deputati, ma questi pervenuti al campo e dichiaratisi oratori delle già supplicate cose non poterono tampoco udire la voce reale, e dovettero, ch’è peggio, con molte villanie retrocedere. Il presidio allora stabilì difendersi valorosamente, ed innanzi tutto pose mano ad elevare la parte del muro di contro al cavaliere per non essere dal nemico dominato. Giunto però al termine della sua opera esortò Martino che andasse a conchiudere la pace comunque e’ crederebbe opportuno; il duce avvicinatosi al campo nemico palesò il motivo della sua venuta ad alcuni duci, [p. 254 modifica]i quali tennerlo a bada con lusinghieri discorsi, mentendo brama di pace sinchè videro compiuto l’inoltrato lavoro. Nè, ad ascoltarli, dar sì potea altri più disposto del re loro alla concordia, ma d’un sentimento diametralmente contrario incolpavano Giustiniano, ed a pruova adducevanne che Belisario, di gran lunga maggiore di Martino in potenza e dignità, era bensì riuscito nell’indurre Cosroe a ritirarsi dalle terre romane4 colla promessa d’inviargli ambasceria per venire agli accordi, essergli però, di sua confessione, mancate le forze a piegare l’animo dell’imperatore, e con esse mancati i mezzi di adempiere alcuno degli obblighi contratti.

Note

  1. V. il cap. 12 di questo libro.
  2. Diciassette (Cousin).
  3. Cinquante mille marcs d’argent (Cousin).
  4. V. cap. 21 di questo libro.