Istoria delle guerre persiane/Libro secondo/Capo XXIV
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1833)
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CAPO XXIV.
I. Egli è la Dubiana1, ragguardevolissima regione per ogni cosa ma più che tutto per la salubrità dell’aere e delle acque, di spettanza de’ Persi; giace otto giornate di cammino lunge da Teodosiopoli, e racchiude bellissime campagne ricche di cavalli, e gran numero di borgate assai vicine tra loro, dove nulla manca al beato vivere; hannovi del pari mercantili fondachi abbondanti di prodotti indiani, iberici e di altre persiane provincie, e sin di quelle sotto giurisdizione romana.
II. Il vescovo di lei, unico in mezzo a tanto popolo, nomasi grecamente cattolico. Di qua camminando a man diritta stadj centoventi trovi il monte Dubio, alpestro e malagevolissimo da salire, ed in una sua gola il vico detto Anglon, dove Nabede all’udire la nemica scorreria riparò di subito con tutto l’esercito, molto sperando nella fortezza del luogo. Sorge il villaggio appiè del monte, ma la rocca, dello stesso nome, occupa l’alto, ed avvegnachè di sua natura inespugnabile mercè della scabrosa erta pur volle costui raddoppiarne il disagio ingombrandovi il sentiero con pietre e carra; fecevi inoltre al dinanzi e fossa e trincea, ed entro alcune vecchie casipole mise forte agguato di sua gente; i guerrieri persiani quivi rinchiusi non oltrepassavano il numero di quattro mila.
III. Compievasi dai barbari questo apparecchio quando i Romani avanzarono ad una giornata di cammino da Anglon, e sorpresovi un esploratore nemico interroganlo ove si stesse il duce persiano; quegli risponde essersi di colà ritirato con tutto l’esercito. Narsete allora, furibondo per la fallita occasione, rimproverò i suoi colleghi prefetti della soverchia tardanza, e sì fecero eziandio costoro incolpandosi a vicenda; abbandonato quindi ogni pensiero di pugna, tutti si diedero al predare. Inoltravano adunque trascuratissimi nell’ordine e nella disciplina, senza punto di contrassegno, solito darsi in tali congiunture, non distinti tra loro, ma soldati e bagaglioni alla rinfusa, in poche parole sembrava truppa meglio intenta a caricarsi di bottino che in marcia contro il nemico. Arrivati così davanti Anglon e mandativi esploratori, questi tornando annunziano aver già Nabede messo l’esercito in ordinanza di battaglia. I capitani avvegnachè sbigottiti per la impreveduta faccenda, non osarono tuttavia dar le spalle, gindicando turpezza e viltà il fuggire con tanto esercito; ma in cambio l’imminente pericolo suggerì loro di partirsi in tre corpi, affidando a Pietro il destro corno, a Valeriano il sinistro, ed il centro a Martino. Giunti siffattamente a piè della rocca fecero alto, serbando ognora pochissim’ordine a motivo dell’erto e malagevole terreno su cui dovevano fare giornata. I Persiani dal canto loro, ristretta l’ordinanza, stavano immobili ad osservare l’esercito nemico, giusta il comando avuto dal capitano di non essere in modo alcuno i primi ad assalire, ma di opporre, provocati, una ostinata resistenza.
IV. Primo di tutti adunque Narsete cogli Eruli e coi Romani si fa innanzi, e fidando nelle sue forze attacca il nemico di contro, mettelo in rotta, e lo costringe a riparare nella rocca; ed intanto egli animando ognora i suoi, quantunque ristretti in augustissimo spazio, non cessa d’incalzarlo; ma balzando fuori i barbari dagli agguati avventansi all’imprevista contro degli Eruli, ed uccisine molti feriscono dentro all’occhio Narsete stesso, che tolto di là dal fratello Isace poco stante spirò, uomo al certo più che valente ed utile in questa guerra, e colla morte di lui surse grande scompiglio, facil cosa da immaginare, tra’ Romani. Allora mosse Nabede con tutte le truppe, abbattendo in tanta malagevolezza di terreno molti d’ogni gente nemica, moltissimi però degli Eruli, primi a cimentarsi e disarmati in campo; sendo egli sprovisti di celata, di corsaletto, e d’ogni altra guisa d’arme a riparo de’ corpi loro, secondo la nazionale usanza di marciare alla guerra col solo scudo e coperti di vile e logoro mantello cinto sui reni; e fin lo scudo è interdetto ai servi prima che abbian dato prova di grande valore: tanto giova sapersi degli Eruli. Gl’imperiali discorati dall’impeto de’ Persiani voltan tutti a gara le spalle, dimentichi della virtù e dell’onor romano, e questo procedere fu sì vituperoso che il nemico stesso vedendolo nol ritenne già effetto di timore, ma stratagemma guerresco, a motivo di che, non osando combattere pochi contro molti in campagna aperta, dopo averli molestati per que’ luoghi stretti fecesi di bel nuovo indietro. Gli altri non di meno, ed in preferenza i duci, immaginando averli sempre alle calcagna, precipitavano vie peggio la fuga, non ristavansi neppure un attimo dal correre, incitavano collo scudiscio e con le grida i cavalli, e sin gittavan lunge da sè le armadure come inutili arnesi, fermi nel pensiero che impotenti sarebbero a sostenere un secondo cimento. Ogni loro speranza di salute era riposta nella celerità de’ cavalli, e per dirla in breve fu tanta e sì grande la foga del galoppare che di que’ poveri animali quasi nessuno campò la vita, ma oppressi dalla fatica subitamente cadevan morti. Una tale sconfitta è fuor d’esempio in quelle guerre, imperocchè quanti d’essi allenarono correndo vennero poscia o trucidati o fatti prigionieri: i Persiani riportaronne similmente ricchissimo bottino di armi, di cavalli e d’ogni maniera di suppellettile. Adulio poi avvicinatosi di troppo nel cavalcare ad una rocca della Persarmenia fu dal presidio colpito di sasso nella testa, ed ivi medesimo cessò di vivere. A Giusto in fine riuscì di penetrare nella regione de’ Tarabi2, e raccoltavi non molta preda tornò pur egli assai presto indietro.
Note
- ↑ Nomata forse Davana, o Dahana da Ammiano Marcellino (lib. xxiii).
- ↑ Dans le pais de Taurancse (Cous.).