Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo XXVII

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CAPO XXVII.

Ostinatissimo combattimento alla fonte d’Aussimo. — Resa di Fiesole ed Aussimo.

I. Belisario vedendo i barbari comportarsi con tanta fermezza d’animo tra quelle sciagure divisava privarli dell’acqua, persuaso questa essere la più breve e facile via di costringerli ad un arrendimento. Dalla parte d’Aussimo volta a settentrione, ed un trar di pietra lunge dalle mura aveavi in dirupato suolo una fonte, la cui sottilissima vena cadente in vecchia grotta empivane il cavo, e da qui gli abitatori attignevano a tutto bell’agio acqua; laonde opinò che distrutto quel ricettacolo i barbari fatti bersaglio delle nemiche frecce non avrebbero potuto lungamente rimanervi colle amfore loro per raccorne il bisogno: messosi adunque ad escogitare i mezzi opportuni a tanta impresa, trascelse alla per fine il seguente. Comandato a sue genti di armarsi cinse le mura con tale apparato di pronto combattimento che i Gotti non poterono a meno di sospettare prossimo un generale assalto, e paurosi di [p. 252 modifica]ciò teneansi ai merli per imprenderne la difesa. Belisario in questa fa comando a cinque Isauri, valentissimi nell’arte fabbrile, di penetrare con iscuri ed altri stromenti acconcj al taglio delle pietre e protetti da molti scudi nella grotta per romperne prontamente e rovesciarne come sapessero il meglio le pareti; i barbari mirando costoro inoltrarsi sotto del muro stettersi cheti all’uopo di saettarli vie meglio non appena e’ si fossero di più avvicinati; nè sospettavano fin qui d’inganno. Ma non sì tosto ebbero veduto gli Isauri padroni della caverna che assalgon il resto con sassi e proietti d’ogni maniera, ed i Romani allora a corsa retrocedettero, ivi lasciando que’ soli cinque militi a dar mano all’opera, i quali trovandosi là entro fuor di pericolo, imperciocchè in lontani tempi a fine di aombrare il luogo eravi stata costrutta una volta sopra l’acqua, faceansi giuoco del folto saettamento nemico. Ora i Gotti intolleranti di rimanere nel circuito delle mura, aperta la porta ivi da presso, piombarono alla rinfusa e tutti ribollenti di sdegno sopra i guastatori, e gl’imperiali anch’essi ad instigazione di Belisario accorsero pieni di coraggio alla difesa de’ suoi; qui si combattè ostinatamente e gran pezza discacciandosi a muta a muta gli uni e gli altri con grave reciproca strage, e maggiore di Romani che non di Gotti, i quali da più elevato suolo pugnando recavano eccidio tale da non reggere al paragone di quanto ne provavano eglino stessi; nè con tutto ciò i primi volean darsi per vinti rispettando Belisario ivi accorso, e mai sazio di animarli colla sua voce. In questa una [p. 253 modifica]freccia avventata da tale de’ nemici iva già, vuoi a caso, vuoi ad arte, e stridendo per la gran foga nell’aere ad investire direttamente il ventre del condottiero assorto in altre cure, e quindi nella impossibilità di allontanarsi o di evitarne l’offesa. Una sua lancia tuttavia, di nome Unegato ed a breve distanza da lui, veduto il pericolo e fattoglisi colla destra scudo, salvollo contro la comune aspettazione; ma riportatone egli grave ferita dovè tosto addoloratissimo abbandonare l’ordinanza, nè fu più in istato di valersi del braccio, avendone il colpo troncalo i nervi. La battaglia principiata col mattino prosegui sino al meriggio, e sette Armeni agli stipendj di Narsete ed Arazio fecero in essa pruove da dirsene, correndo su per que’ malagevolissimi balzi non altrimenti che nella pianura, ed uccidendo chiunque s’opponeva loro, finchè giunsero a mettere in fuga i barbari di fronte; gli altri Romani veduto l’inimico piegare vie più lo incalzano, e messolo alla per fine in piena rotta costringonlo a riparare entro le mura. Tra queste faccende gl’imperiali opinavano di già abbattuto dagli Isauri il serbatoio dell’acqua, e condotta a felice termine l’impresa; quando per lo contrario non erasi ancor levata una sol pietra, essendo che gli artefici degli andati tempi, soliti ad eseguire le opere loro con tutta la perizia dell’arte, aveanlo costruito forte sì da non cedere alle ingiurie nè degli uomini, nè degli anni. Gli Isauri adunque non appena retroceduti i Romani nel campo vi tornarono anch’essi, abbandonando la grotta senza compiere l’impresa loro. Belisario allora [p. 254 modifica]comandò alle truppe di gittare in quell’acqua le morte bestie, e le erbe più nocevoli all’umana salute; v’immergessero di più ed estinguessero la pietra grandemente arsa dal fuoco, che altre volte dalle genti nomavasi calce, ed ora la chiamiamo asbesto1 (per indicare non distrutta affatto in essa la forza del fuoco), il quale ordine di subito venne eseguito. I barbari intanto si valevano, sebbene molto più parcamente di quanto la necessità richiedesse, d’un pozzo scarsissimo d’acqua entro le mura. Il duce supremo poi avea dimesso il pensiero d’impadronirsi armata mano della città, e di fare nuovi tentativi risguardanti sia la grotta, sia altra cosa comunque; e’ sperava che la fame di per sè basterebbe a domare i nemici, e mirando a ciò limitava ogni sua cura ad una strettissima guardia degli assediati. Questi poi nella ferma persuasione ancora che sarebbe per giugnere da Ravenna l’esercito ad aiutarli, sebbene oppressi da somma carestia di vittuaglia non venivano ad alcuna determinazione.

II. In cotal mezzo gli assediati di Fiesole in balia di gagliardissima fame, arrivati al punto di non saper più comportarne gli acerbi disagj, ed opinando vano ogni pensiero di aiuti da Ravenna stabilirono arrendersi al nemico. Fattisi pertanto a colloquio con Cipriano e Giustino, ed ottenuta sacra promessa che ne andrebbero salvi delle persone, volontarj consegnarono sè stessi ed il castello ai Romani. Laonde Cipriano, guernito [p. 255 modifica]Fiesole di sufficiente presidio, condusse i prigioni e le truppe sotto di Aussimo. Quivi giunti Belisario mostrando i vinti duci ai difensori di quelle mura esortavali a riaversi da un così inopportuno impazzire, ed a spogliare gli animi delle affatto vane speranze ricevute da Vitige, siccome inutili, nulla rimanendo loro di meglio che, rifiniti dalle giornaliere calamità, piegare il capo alla sorte medesima, cui la guernigione di Fiesole dovè alla stretta de’ conti soggiacere. Queglino adunque dopo lunga e matura deliberazione, abbattuti dalla fame, prestarono da ultimo docile orecchio ai consigli avuti, e dichiararonsi pronti a cedere la città quando si accordasse loro di poter sani e salvi e colle proprie suppellettili riparare in Ravenna. A tale proposta Belisario stettesi lungamente in fra due, vedendo contraria alle sue future imprese la congiunzione di tanti e tanto valorosi nemici con quelli nell’Emilia a stanza. Increscevagli d’altronde perdere cogli indugj l’occasione, e pensava, lasciando qui le cose tuttavia in sospeso, di marciare contro al re loro. Imperciocchè era inquieto sulle mosse de’ Franchi, divolgatosi ch’e’ sarebbero per giugnere tra breve in soccorso de’ Gotti. Così e’ bramava ardentemente prevenirne l’arrivo e non volea tampoco abbandonare le mura d’Aussimo prima di conquistarle. I soldati di più faceangli instanza che non accordasse ai barbari di ritirarsi portando seco il danaro, ed a vie meglio indurlo dalla loro mostravangli le ferite in gran copia ricevute durante l’assedio, nè taceano tutte le sofferte molestie, mercè delle quali teneansi in diritto d’un guiderdone colle spoglie de’ [p. 256 modifica]vinti. Alla per fine da quinci i Romani temendo vedersi precipitosamente fuggita l’occasione, da quindi gli assediati oppressi dalla fame convennero ad una che i primi dividessersi metà del danaro custodito in Aussimo, e gli altri col rimanente passassero sotto il dominio e l’autorità imperiale. Questi accordi furono da ambe le parti fermati con giuramento, promettendo i vincitori di attenersi della miglior fede ai patti, e la guernigione di non occultare parte alcuna delle ricchezze loro; fattosene così lo scompartimento queglino ebbero Aussimo, e questi furono divisi per le romane truppe.

Note

  1. Ἂσβεστος, inestinguibile. Questa pietra è della natura dell’amianto.