Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo XXVI

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CAPO XXVI.

Un soldato romano traditore porta lettere dagli assediati in Aussimo a Vitige, e quindi recane la risposta. — Tale degli Sclabeni torna al suo campo trascinandosi un Gotto sorpreso in agguato, e confessatosi da costui il tradimento si passa alla punigione del reo.

I. Allorquando Teudeberto messo in campagna l’esercito, giusta la mia narrazione, assalì armata mano l’Italia, Martino e Giovanni raccozzatisi dopo la fuga tornarono ai loro posti onde impedire il nemico di combattere i suoi occupati negli assedj. I Gotti poi rinchiusi in Aussimo, ignari tuttavia della venuta de’ Franchi, e noiati del lungo attendere i soccorsi chiesti a Ravenna, pensarono di nuovamente supplicarne a Vitige; ma privi ora d’ogni mezzo per gabbare la nemica vigilanza attristavansene formisura. Veduto quindi Burcenzio (nome d’un imperiale milite, di nazione Besso e subordinato all’armeno duce Narsete) starsene verso il meriggio tutto solo di guardia perchè uom della città non si desse a foraggiare, lo avvicinano per iscambiarvi parole, e lo invitano con promessa di ricco guiderdone e di farlo esente da ogni violenza e frode, ad un colloquio. Accontatisi di tal maniera seco preganlo di portare una lettera a Ravenna, offerendogli tosto molto danaro, e rassicurandolo che altro e di gran lunga in maggior copia e’ ne riceverebbe al suo ritorno colla risposta del re loro. Il milite acciecato dalla pecunia promette l’opera sua, e compie la data parola. Sen vola [p. 248 modifica]dunque colla lettera perfettamente suggellata a Ravenna, dove introdotto alla presenza di Vitige gliela consegna, ed eccone a un di presso il tenore: «A quale trista condizione siamo di già ridotti lo comprenderai apertamente col domandare al messo chi e donde egli ne sia; imperocchè non havvi Gotto che osi metter piede fuor delle mura. Tutta la grandissima nostra vittovaglia è sotto di queste; vogliam dire l’erba; ma ora neppur di lei possiamo valerci se non in forza di sanguinosissimi badalucchi. Dove andranno a riuscire di tali cose ed a te ed a’ tuoi dimoranti in Ravenna si pertiene vederlo.» Vitige letto il foglio, rispondea: «Non sia chi di voi, o miei carissimi sopra tutti i mortali, opini avviliti i nostri animi e resi torpidi a segno di tenere per inerzia sì picciol conto dei Gotti. Ogni cosa era testè più che in ordine per la partenza; io avea di già inviato Uraia coll’intero novero delle sue truppe alla volta di Milano, quando un impreveduto assalimento de’ Franchi sconvolse tutte le nostre disposizioni; nè uom sia che m’aggravi di tanto sinistro, imperocchè le vicende superiori ad ogni umano sforzo purgano, se non altro, della colpa le vittime d’una contraria fortuna; questa prendela intieramente sopra di sè, e chiamasene affatto mallevatrice. Ora poi, udita la partenza di Teudeberto, saremo a voi tra breve, consentendolo il Nume, con tutto l’esercito nostro. V’è mestieri intanto armarvi di coraggio contra le avversità cui soggiacete, ed accomodarvi il meglio alle imperiose circostanze di coteste mura, non dimenticando l’antico valore, mercè del [p. 249 modifica]quale, datavi la preferenza su gli altri tutti, ve le ho affidate; v’è d’uopo quindi rispettare la bellissima opinione che godete presso di noi, quella intendomi di ritenervi il propugnacolo di Ravenna, e della nostra salvezza.» Vitige dato compimento alla lettera accommiatò il messo con largo dono, e costui giunto in Aussimo, e scolpalosi presso de’ suoi commilitoni della lunga assenza, pretestando che pigliato da malattia erasi dovuto riparare in un vicino tempio, si recò poscia alla fissatagli stazione, e da quivi all’insaputa dell’universale ricapitò ai nemici il foglio, per la cui pubblica lettura s’inanimì di guisa ognuno che sebbene alle strette colla fame non volle più arrendersi alle molto belle proposte ricevute dal supremo duce imperiale. Accertati di poi che nessun aiuto marciava da Ravenna a quella volta, ed assaliti ognor più gagliardamente dalla fame spediscono altra fiata Burcenzio al re loro con lettera in cui dichiaravansi laconicamente incapaci di tollerare la diffalta dei cibi al di là dei cinque giorni; costui portò, facendosi indietro, la risposta di Vitige, il quale non cessava animarli con le ordinarie speranze.

II. I Romani, per tornare ad essi, comportando a malincorpo in deserta regione un sì lungo assedio, eransi nella incertezza di proseguirlo, vedendo in ispecie i barbari, avvegnachè mal concj da tante sciagure, ostinatissimi nella difesa. Il perchè Belisario nulla ommetteva per avere nelle sue mani vivo qualche nemico de’ più ragguardevoli, sperando con ciò indagare donde originasse quella grandissima constanza in mezzo ai tanti [p. 250 modifica]lor mali. Comunicati adunque i suoi pensamenti a Valeriano, questi lo assicurò che di leggieri condurrebbe a buon fine l’impresa, avendovi tra’ suoi militi parecchi Sclabeni, i quali appiattatisi chetamente sotto di angusto sasso o virgulto, e rimanendosi celati ai passeggieri, erano soliti ad attrappare qual si volevan nemico; ned altrimenti costoro adoperare presso del fiume Istro, ove hanno stanza, e contro i Romani, e contro gli altri barbari. Belisario lietamente uditone comandò che presto si desse mano all’opera, e quel duce uno trasceltone, robustissimo della persona e di esperimentato coraggio, gli promise a nome del supremo duce molto danaro, quando riuscisse a pigliare uom de’ nemici vivo. E quegli che sì, dicea, ed essere ben agevol cosa laddove il suolo vestivasi tuttavia d’erba, essendo gran pezza che i Gotti, consumata la vittuaglia, vi traevano di che cibarsi. Costui adunque d’assai buon mattino s’appressa al muro, e coperto da un arbuscello e raggricchiatosi nella sottoposta erba vi sta in agguato. Al primo albeggiar poi ecco inoltrare fin colà tal de’ Gotti e mettersi a segare il verde, non paventando sinistri dall’arbuscello, e solo gittando continui sguardi sul campo romano perchè altri non capitasse a molestarlo. Ma lo Sclabeno assalitolo all’improviso dagli omeri lo afferra, e strettolo a metà vita con ambe le mani lo conduce al campo, ove ne fa la consegna a Vateriano. Questi, donde, o prigioniero, gli dice, cotanta speranza ne’ Gotti, i quali avvegnachè estenuati di forze antepongono perseverantemente una disagiatissima vita al divenire nostri suggetti? L’altro palesò da imo a [p. 251 modifica]sommo la tradigione di Burcenzio, ed in un confronto tra essi lo rimandò convinto. Il fellone come si vide al tutto scoperto fe’ intiera confessione del commesso reato, ed in pena del tradimento venne posto da Belisario in balìa de’ suoi compagni, che vivo e sotto gli occhi de’ nemici consegnaronlo alle fiamme, perchè assaporasse di tal guisa il frutto della soverchia avidità del danaro.