Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo III
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO III.
Roma in balia della peste e della fame. Il Gotto converte gli acquidotti in bastite. — I Romani aizzati dalla fame chiedono al condottiero d’investire il nemico, ma l’orazione loro è da lui confutata.
I. Entrava il solstizio estivo quando e fame e peste assalirono Roma. Il soldato, dal pane infuori, mancava di vittuaglia comunque, ed il popolo anche di quello andava senza, e per colmo di sciagura, più che dalla fame era travagliato orribilmente dalla moría. Il nemico fattone consapevole intralasciò di combatterlo, ponendo solo ogni diligenza nell’impedire che nessun fodero penetrasse là entro. Hannovi tra le vie Latina ed Appia due altissimi acquidotti sostenuti da arcate, i quali giunti allo stadio cinquantesimo dalla città unisconsi per divergere quindi a breve intervallo tra loro, volgendo quello dapprima a destra il suo corso a sinistra: ma tornatisi dipoi a congiungere, e preso nuovamente l’antico ordine procedono altra fiata con opposta direzione. Ora da questo incrocicchiamento deriva che lo spazio di mezzo trovisi ricinto all’intorno dalle mura loro; senza che i Gotti aveanne per modo chiuso con loto e pietre gl’archi inferiori da convertirli quasi direi in bastite, dov’eranvi di guardia mai sempre non meno di sette mila guerrieri a fine di impedire agli assediati qualunque introduzione di commestibili nelle mura. Mali pertanto d’ogni specie posersi intorno agli scoraggiati ed avviliti Romani: tuttavia sinchè ebbervi prodotti maturi sui campi, i più ardimentosi della truppa, istigati dall’amore del danaro, salendo in arcione e conducendo a mano scarichi somieri gittavansi di notte nelle biade vicine alla città, e mietute le spighe e caricatine i giumenti portati seco introducevanle di soppiatto in Roma per venderle a caro prezzo agli opulenti cittadini, vivendo i meno facoltosi di erbe cresciute ogni dove intorno ai borghi e per entro le mura, conciossiachè l’agro romano durante il verno e molto più nelle altre stagioni va ricco di esse, avendolo natura fornito d’una perenne verdezza, la quale potè in allora somministrare ad un tempo e cibo alla plebe e foraggio ai cavalli degli assediati: così pure da taluni vendevansi di nascosto salsicce formate colle carni de’ muli spentisi nella città. Se non che terminato di spogliare delle biade le campagne, i Romani giunti agli estremi ragunaronsi in massa per obbligare Belisario ad una decisiva fazione col nemico, promettendogli che nessuno de’ cittadini sarebbesi ritratto dal prendervi parte. A quest’uopo alcuni di essi fattiglisi innanzi, e trovatolo nel massimo sbigottimento per le presenti bisogne e coll’animo dolentissimo, gli dirizzarono a un dipresso le parole seguenti: «La nostra situazione, o condottiero, per nulla corrisponde alle già concepite speranze, ma, ch’è più, sortirono queste un esito affatto contrario. Imperocchè dopo aver conseguito quanto era da prima l’oggetto dei comuni voti, ora ci ravvolgiamo in tante sciagure che sarebbe vera demenza e sorgente di mali ancor peggiori il voler perseverare tuttavia ne’ primi divisamenti; quelli intendiamo di ostinarci a temporeggiare nella dolce lusinga di venir liberati per opera dei cesarei soccorsi. Or dunque a tale ci spingono le nostre miserie che fannoci arditi a segno di voler usare della forza delle armi contro il nemico. Ma sia qui permesso di parlarti con maggiore franchezza, dacchè un ventre digiuno e bisognoso di tutto non sa arrossire, e le calamità da noi tollerate renderanno meritevole di scusa il nostro ardimento, non avendovi, a giudicarne dalle apparenze, disgrazia peggiore del prolungare una vita infelice; tu vedi a che siamo ridotti: il barbaro è padrone dei campi e della regione per lungo e per lato a noi dintorno; da questa città sono mandati in bando tutti gli agi della vita, e da sì gran tempo che appena possiamo formarcene qualche idea. Di già parte de’ Romani ha incontrato morte, nè sepolcro cuoprene le fredde spoglie; e noi ancora viventi, per dir breve le sofferenze nostre, viviamo, che le mille volte ameremmo meglio essere nel numero degli insepolti. Conciossiachè la fame quanti ha in suo dominio ben di leggieri induceli a credere tutti gli altri mali comportabili, fa dimenticare qualsivoglia sinistro, e giugne persino a rendere soave ogni specie di morte rimpetto a quella da lei prodotta. Accondiscendi pertanto che non ancora da questo flagello distrutti cimentiamo le armi per le bisogne nostre, all’uopo o d’uscirne vittoriosi, o di trovarvi un termine ai presenti mali. E di vero coloro cui il temporeggiare dà speranza di salvezza spererebbero più che da stolti se impazienti dell’attendere affidassero la somma delle cose alla sorte d’un combattimento. Noi in cambio col nostro indugiare accresciamo la difficoltà della battaglia; e l’indugio stesso, comunque vuoi breve, ne verrà assai più attribuito a colpa, che non l’esporci ad una pronta e ardita impresa.» Belisario così rispondea ai romani oratori: « Quanto sin qui operaste erasi già compiutamente dal mio animo preveduto, nè un che avvenne d’improviso per esse. Ben da lunga pezza apparai come sia il vulgo insubordinato, intollerante del presente, improvvido del futuro, e di nulla capace, salvo l’esporsi di leggieri ai più ardui cimenti, ed il correre con temerità somma alla propria rovina. La vostra cieca instabilità non ha tuttavia sopra di me possa tale che inducami a fare scempio di voi, e con voi delle imperiali faccende. Imperciocchè niente vale nell’arte della guerra una sconsiderata prontezza, assaissimo per lo contrario un maturo consiglio, ed un accorgimento giusto ponderatore di tutta l’importanza delle occasioni. Voi quali giuocatori ai dadi vorreste il tutto sommettere al getto d’uno di essi, ma non è mia usanza d’anteporre un furioso procedere ai vantaggi d’un vie meglio calcolato operare. Mi promettete inoltre di farvi nostri aiutatori nell’assalire il nemico: or bene di grazia, quando vi esercitaste nel maneggio delle armi? E foste pure valentissimi in esso, chi non di meno appresene l’arte col battagliare del continuo, sa pur troppo non potersi in un attimo addivenir guerriero, ed una simulata fazione di guerra essere ben lunge del presentare l’avversario in campo. Ammiro impertanto la vostra prontezza e vi condono l’eccitato tumulto; vi proverò solo che a mal punto il faceste, e noi prudentemente indugiamo. L’imperatore ci manda innumerevole esercito raccolto da tutti gli stati suoi, ed un’armata di mare, quanta non ebbero mai prima d’ora i Romani già cuopre il littorale della Campania e parte grandissima del seno Ionico, e tra pochi giorni qui approderà carica d’ogni maniera di vittuaglia, più che sufficiente a trarci fuori dalla miseria e ad inondare di dardi i campi nemici. Ho divisato adunque di procrastinare la battaglia sino all’arrivo loro, estimando consiglio migliore l’assicurarsi della vittoria, che non mandare in rovina con precipitosa e dissennata audacia la comune salvezza: sarà quindi mia cura di troncare ogni indugio acciocchè tutti uniscansi immediatamente a noi.»