Istoria del Concilio tridentino/Libro sesto/Capitolo IV

Libro sesto - Capitolo IV (21 aprile -14 maggio 1562)

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CAPITOLO IV

(21 aprile-14 maggio 1562).

[I legati sottopongono le sorte difficoltá al papa per averne istruzioni. Lagnanze degli spagnoli per la poca indipendenza del concilio. — Ricevimento degli ambasciatori di Venezia. — Le congregazioni esaminano gli altri articoli sulla divisione delle parrocchie, sulla fusione dei piccoli benefici curati, sui coadiutori da darsi ai curati ignoranti o viziosi, sulla soprintendenza vescovile ai benefici dati in commenda, sugli abusi dei questuanti. — Arrivo degl’inviati del duca di Baviera: questione di precedenza sui veneziani. — Pio IV biasima il contegno degli spagnoli in concilio, difendendo la condotta dei legati di fronte alle rimostranze di Filippo II e del Vargas.— Vivo malcontento della curia romana verso i legati, accusati di non saper difendere la supremazia pontificia dalle pretese dei vescovi. — Sospetti sui fini della politica spagnola. — Come Pio IV giudicasse la situazione.— Comunica ai cardinali la risposta da inviarsi a Trento.— Invio di altri prelati italiani al concilio. — Sua politica di accostamento alla Francia. — Riforma della penitenzieria. — Congregazione generale preparatoria della sessione: decisione di soprassedere circa le questioni della residenza e dei matrimoni clandestini. Risorge il litigio fra spagnoli e imperiali sulla «continuazione». — Sessione decimanona: si proroga la pubblicazione dei decreti ad altra sessione, fissandola al 4 giugno.]

Si consultò tra li legati quello che si dovesse fare; e furono tutti concordi di minutamente dar conto al pontefice di tutto il successo, e aspettarne risposta; e tra tanto proseguir le congregazioni sopra gli articoli rimanenti. Voleva Mantoa mandar a questo effetto Camillo Oliva, segretario suo, in posta con lettere di credenza; e Simonetta proponeva che si scrivesse il tutto in lettera. Fu concluso di componer insieme li pareri; e scritta una longa relazione del successo, e rimesso il soprapiú al secretarlo, quello il giorno medesimo, la sera, partí [p. 371 modifica] di Trento. Il che, se ben esequito con somma secretezza, penetrò nondimeno subito a notizia delli spagnoli, quali fecero grandissime indoglienze che si vedesse dato principio ad un insopportabile aggravio, che ogni trattazione si avesse non solo ad avvisare, ma consultare e risolvere anco in Roma; che il concilio, congregato in quella cittá medesima due altre volte, per questa causa non ebbe successo, e si disciolse senza frutto e con scandolo ancora, perché niente fu risoluto dalli padri, ma tutto in Roma: tanto che era passato in bocca de tutti un blasfemo proverbio: «che la sinodo di Trento era guidata dallo Spirito Santo inviatogli da Roma di volta in volta nelle valise»; che minor scandolo era stato dato da quei papi quali ricusarono il concilio a fatto, che da questi li quali, congregatolo, l’hanno tenuto e tengono in servitú. Allora il mondo restava in speranza che, se pur una volta si poteva impetrar concilio, s’averebbe visto rimedio ad ogni male; ora, osservate le cose giá passate sotto due pontefici, e che ora s’inviano, ogni speranza di bene si vede estinta, né piú bisogna aspettar alcun bene dal concilio, se debbe esser ministro degl’interessi della corte romana e muoversi o fermarsi ad arbitrio di quella.

Questo diede occasione che nella congregazione sequente, dato principio a parlare sopra gli articoli proposti, in poche parole si reintrò nella residenza; a che interponendosi il cardinale varmiense con dire che s’era parlato di quella materia assai, che s’averebbe formato il decreto per risolverla e, proposto quello, ognuno averebbe potuto dire quello che gli restasse, né per questo si potêro quietare gli umori mossi. Onde l’arcivescovo di Praga, ambasciator dell’imperatore, esortò li padri, quasi con un’orazione perpetua, a parlar quietamente e con manco passione, ammonendoli a risguadar il decoro delle loro persone e del luoco. Ma Giulio Superchio, vescovo di Caurle, rispose con alterazione nessuna cosa esser piú indecente al concilio quanto che venga posta legge alli prelati, massime da chi rappresenta potestá secolare; e passò a qualche mordacitá. E pareva che la congregazione fosse per dividersi in parti: onde varmiense, che era il presidente in [p. 372 modifica] quella, cercato di moderar gli animi, divertí il parlare sopra quei articoli per quel giorno, e propose che si procurasse di far liberar li vescovi cattolici prigioni in Inghilterra, acciò, venendo al concilio, vi fosse anco quella nobil nazione, e non paresse quel regno in tutto alienato dalla Chiesa. La proposta a tutti piacque; e fu comune opinione che si potesse piú desiderare che sperare. La conclusione fu che, avendo quella regina rifiutato di ricevere un noncio espresso del pontefice, non si poteva sperare che prestasse orecchie al concilio; però quel piú che si poteva fare era operar che li principi cattolici facessero quell’ufficio.

Alli 25, il giorno di san Marco, in congregazione generale furono ricevuti gli ambasciatori di Venezia. Letto il mandato delli 11 dello stesso mese, e fatta un’orazione da Nicolò da Ponte, uno degli ambasciatori, fu risposto in forma.

In quei pochi giorni li piú prudenti tra li prelati, considerato quanto si diminuirebbe la riputazione del concilio e di ciascuno di essi quando non si fermassero li moti eccitati, cercavano di acquetare gli animi commossi, con mostrar loro che quando non proseguissero le azioni conciliari senza tumulto, oltre lo scandolo che si darebbe e la vergogna che s’incorrerebbe, per necessitá anco seguiria la dissoluzione del concilio senza frutto: li qual uffici ebbero luoco sí che nelle congregazioni si trattò quietamente gli altri sei articoli, sopra quali non fu molto che dire.

Per il quinto la provvisione fu giudicata necessaria: sopra il modo, qualche difficoltá nacque. Imperocché la divisione delle parrocchie giá da principio dalli populi fu constituita, quando un numero di abitanti, ricevuta la vera fede, per aver l’esercizio della religione, fabbricato un tempio e condotto un sacerdote, constituivano una chiesa, che dall’adunazione dei circonabitanti chiamavasi «parrocchia»; e crescendo il numero, per la lontananza delle abitazioni, se la chiesa e il parroco non bastava, ritiratisi li lontani e fabbricatane un’altra, s’accomodavano meglio. Alle qual cose per buon ordine e concordia s’introdusse in progresso di aggionger anco il [p. 373 modifica] senso episcopale. Ma poiché la corte romana con le riservazioni si assonse il conferir dei benefici, quelli che da Roma erano provvisti delle parrocchiali, trattandosi di sminuirli il numero delle anime soggette, e in consequenza il guadagno, s’opponevano col favore del pontefice; onde s’introdusse che senza Roma non si poteva con divisione d’una gran parrocchia erigerne una nova; e quando occorreva farlo, massime di lá da’ monti, per li impedimenti di appellazioni e altri litigi era cosa di spesa immensa. Per provveder a questi inconvenienti in concilio fu opinione delli prelati che quando una chiesa basta ad un populo, ma un solo rettor non è sufficiente, non si moltiplicassero li titoli, allegando che dove sono piú curati in una chiesa, sono anco dispareri; ma potesse il vescovo constringere il parroco a pigliar altri sacerdoti in aiuto, quanti facessero bisogno; ma dove l’ampiezza delle abitazioni ricercava, avessero potestá di erigere una nova parrocchiale, partendo il populo e partendo le entrate, o vero constringendo il populo a contribuire per far una rendita sufficiente. Solo a quest’ultima parte considerò Eustachio Bellay vescovo di Parigi, pochi dí inanzi arrivato, che quel decreto non sarebbe stato ricevuto in Francia, dove non consentono che con autoritá ecclesiastica possi esser comandato a laici in materia temporale, e che alla riputazione del concilio generale non conveniva far decreti che fossero in qualche provincia reietti. A questo replicò fra’ Tomaso Casello, vescovo de La Cava, che li francesi non sanno questa potestá esser data al concilio da Cristo e da san Paulo, quali hanno comandato che il vitto sia dal populo somministrato a chi lo serve nelle cose spirituali, e che li francesi, volendo esser cristiani, conveniva ubidissero. Replicò il Bellay che sin allora aveva inteso quello che Cristo e san Paulo concedono alli ministri dell’Evangelio esser un ius di ricevere il vitto da chi spontaneamente lo dava, e non di costringere a darlo; che Francia vorrá sempre esser cristiana: però di questo non voleva passar piú inanzi.

Il sesto e l’ottavo articoli non averebbono avuto bisogno [p. 374 modifica] di decreto, quando alli vescovi fosse rimasta la loro autoritá; anzi quando fosse rimasta alli parrochi e al populo, a’ quali, come di sopra s’è detto, giá apparteneva, e sarebbe giusto che sempre appartenessero simil provvisioni: ma la necessitá di trattar queste materie nasceva dall’essere tutte riservate a Roma. Li prelati erano d’un istesso parere, che le provvisioni fossero necessarie; alcuni però non consentivano che si facessero, per non metter mano nell’autoritá pontificia, trattando sopra le cose a quella sede riservate, massime in tanto numero. Leonardo Marino arcivescovo di Lanciano trattò, come termine di giustizia, che essendo tutti gli offici della cancellarla apostolica venduti, non era cosa giusta sminuirli le espedizioni solite a farsi in quella; che era un levar parte degli emolumenti senza consenso de’ compratori; però si lasciasse queste provvisioni da farsi a Roma, dove sarebbe considerato l’interesse di tutti. Ed era questo vescovo per passar piú inanzi, per li interessi che egli e altri suoi amici avevano in quei uffici, se dall’arcivescovo di Messina, spagnolo, che li sedeva appresso, non fosse stato ammonito che niente si sarebbe risoluto, se non consultato e consentito a Roma. Fu raccordato quello che nel primo concilio s’introdusse nel dar autoritá alli vescovi sopra le cose riservate al pontefice, di aggiongere che facessero come delegati della sede apostolica; qual conseglio fu abbracciato in tutti li decreti che si formarono in tal materie.

Nel settimo, quantunque da ognuno fosse giudicato giusto che il populo avesse il debito servizio da persone sufficienti per il ministerio e costumate per l’edificazione, nondimeno esser assai e molto provvedere in futuro, perché sempre sono odiose e trascendenti le leggi che, in dietro risguardandosi, dispongono anco delli negozi passati; perciò bastare che all’avvenire sia provveduto di persone idonee, e quelli che si ritrovano in possesso siano tollerati. L’arcivescovo di Granata disse la deputazione d’un inetto al ministerio di Cristo non esser dalla Maestá sua divina ratificata, e perciò restar nulla; e il provvisto non aver legittima ragione, e doversi per debito, [p. 375 modifica] rimosso quello che è inetto, provveder di sufficiente. Ma non fu seguito questo parere, come troppo rigido e che nell’esecuzione si sarebbe conosciuto impossibile, non essendovi una pontual misura dell’abilitá necessaria; però la via del mezzo fu abbracciata di non ecceder la proposta dell’articolo; e facendo differenza dagl’ignoranti alli scandalosi, con quelli, come meno colpevoli, procedere con minor rigore. E poiché per ogni ragione al vescovo appartenirebbe provvedere, quando le collazioni non fossero dal pontefice uscite, li fosse concesso anco contra li provvisti pontifici, come delegato della sede apostolica, porgere il rimedio.

A trattar della visita de’ benefici commendati, nel nono articolo, diede occasione un ottimo uso degenerato in pessimo abuso. Nelle incursioni de’ barbari, che avvennero nell’imperio occidentale, ben spesso occorreva che le chiese fossero delli suoi pastori private in tempo quando insieme erano impediti per incursioni, assedi o prigionie dal provvedere di successori quelli a chi canonicamente apparteneva; onde acciò li populi non restassero longamente senza reggimento spirituale, li prelati principali della provincia, o vero alcuno delli vicini raccomandava la chiesa a qualche persona del clero, di pietá e bontá conspicua e atta a quel reggimento, sin che, rimossi li impedimenti, potesse esser eletto canonicamente il pastore. L’istesso facevano anco li vescovi o parrochi vicini, quando occorreva simil vacanza delle parrocchiali nelii contadi; e cercando sempre il commendante di adoperar persona insigne, e il commendatario di corrispondere all’espettazione, riusciva con gran frutto e sodisfazione. Ma come sempre sottentra la corruzione nelle cose buone, qualche commendatario pensava non solo al bene della chiesa commendata, ma anco a cavarne qualche frutto ed emolumento per sé, e li prelati a commendare le chiese anco senza necessitá: e crescendo l’abuso sempre piú, convenne far legge che non potesse una commenda durare piú che per sei mesi, e il commendatario non potesse participar delli frutti della commenda. Li pontefici romani però, con la pretensione di superioritá a queste [p. 376 modifica] leggi, non solo commendavano per piú longo tempo e concedevano onesta porzione al commendatario, ma passarono tanto inanzi, di commendar anco a vita e di conceder li frutti tutti, non altrimenti che al titolario. Anzi mutò la corte in contrario anco la forma; e dove nelle bolle, rendendo la causa, prima diceva: «Acciò che la chiesa sia tra tanto governata, te la raccomandiamo», si passò a dire: «Acciò tu possi sostentar con maggior decenza lo stato tuo, ti raccomandiamo la tal chiesa». E di piú ordinarono anco li pontefici romani che, morendo il commendatario, il beneficio restasse affetto alla disposizione loro, sí che a chi la collazione s’aspetterebbe, non potesse impedirsene. Ed essendo li commendatari dal papa constituiti, non potevano li vescovi intromettersi in sopraintendere al governo di quelle chiese che dal papa erano raccomandate ad un altro; e in corte ciascuno piú volentieri impetrava li benefici in commenda che in titolo, esentandosi per quella via dalla soggezione de’ prelati superiori: da che nasceva che il vescovo era privato d’autoritá sopra la maggior parte delle chiese della diocesi; e li commendatari, non soggetti ad alcuna sopraintendenza, lasciate cader le fabbriche e restrette o levate a fatto le altre spese necessarie, non avendo altro fine che, secondo il proemio della bolla, sostentar lo stato proprio, mandavano il tutto a desolazione. A questo disordine, non ostando altro se non che pareva indecenza se il vescovo mettesse mano in quello che dal papa era ad un altro raccomandato, fu pensato con decoro provvedere, concedendo alli vescovi l’autoritá di visitare e sopraintendere, ma come delegati del pontefice.

La causa della proposta duodecima, di rimediare alli abusi de’ questuanti, fu parimente l’esser degenerata l’antica instituzione. Imperocché, essendo instituita in qualche luochi per necessitá alcun’opera pia di ospitalitá, infermaria, educazione de orfani e altre tali, senza altro fondo che delle limosine de fedeli, le persone pie pigliavano carico d’andar cercando la limosina alle case; e per aver facile ingresso e fede si munivano con lettere testimoniali del vescovo. Altri, acciò dal [p. 377 modifica] vescovo non potessero esser impediti, ottenevano facoltá dal papa con littere che li raccomandassero, le quali facilmente erano concesse per qualche parte dell’emolumento che nell’espedizione della bolla alla corte toccava. Questa instituzione immediate si voltò in eccessi di abuso, imperocché delle raccolte elemosine minima parte era quella che si spendesse in l’opera. Quelli ancora che impetrato avevano la facoltá di questuare, sustituivano persone abiette e infami, e con loro dividevano il frutto delle limosine, anzi affittandoli anco la questura. Li questuanti poi, per cavar quanto piú si poteva, mille artifici sacrileghi ed impii usavano, portando forme d’abiti, fuochi, acque, campane e altri instrumenti da strepitare, che potessero indur spavento e superstizione nel volgo, narrando falsi miracoli, predicando false indulgenze, richiedendo le limosine con imprecazioni e minaccie di male e infortuni a chi non le dasse; e altre tal impietá usando, che il mondo ne era pieno de scandoli: né si poteva provvedervi, attese le concessioni apostoliche impetrate. Sopra questa materia si estesero li prelati, con narrare li abusi e descendere alle suddette e innumerabili altre impietá; con mostrare che altre volte sono stati tentati rimedi senza frutto, e tali riuscirebbono tutti quelli che si tentassero: uno solo esservi: l’abolire il nome e l’uso de’ questori. E in questo parere convennero quasi tutti.

Arrivarono in questo tempo ambasciatori del duca di Baviera, quali ricusarono presentarsi nella congregazione se non gli era data precedenza da quei di Vinezia; il che ricusando essi di fare, li legati interposero dilazione per aspettar sopra questo risposta da Roma.

Il pontefice, quando ebbe avviso delli voti nelle congregazioni dati sopra la residenza, e avvertí li spagnoli esser tutti conformi, fece cattivo pronostico, penetrando che tal unione non poteva esser senza participazione del re. Diceva esser, giá molto tempo, per grandi esperienze certificato che li prelati oltramontani sono inimici della grandezza d’Italia e della sede apostolica; e per la suspizione che del re aveva, restava mal sodisfatto, come che gli mancasse della promessa fattagli [p. 378 modifica] di conservar la sua autoritá. In fine de tutti li ragionamenti concludeva che se li principi l’abbandoneranno, ricorrerá al Cielo; che aveva un milion d’oro, e sapeva dove metter la mano sopra un altro; e poi Dio provvederebbe alla sua Chiesa. Tutta la corte ancora sentiva con gran passione il pericolo di tutto lo stato suo, vedendosi bene che quelle novitá miravano a far tanti papi, o nessun papa, e interrompere tutti gli emolumenti alli uffici della cancellaria.

Venne anco dal noncio di Spagna avviso che il re sentiva male il proponentibus legatis statuito nella prima sessione: e tanto piú al pontefice piaceva che fosse stato decretato, poiché dal dispiacimento che altri ne ricevevano, apparivano li disegni di propor cosa di suo pregiudicio. Fece con tutto ciò far scusa col re, dicendo esser fatto senza sua saputa, ma vedersi necessario per reprimere la petulanzia degl’inquieti: che il concilio sarebbe una torre di Babel, quando senza freno ogni persona ambiziosa avesse facoltá di movere umori; che li legati erano discreti e riverenti a Sua Maestá, e averebbono sempre proposto tutto quello che le fosse stato in piacere, e dato sodisfazione ad ogni persona pia e savia. Ma con l’ambasciator del re appresso sé residente, che gliene trattò, procedette con alquanta durezza, prima querelandosi che egli avesse fatto sopra ciò cattivi uffici, e poi commemorando il modo di procedere de’ prelati spagnoli in concilio, quasi sedizioso; mostrò che il decreto era santo e necessario, e che non si faceva pregiudizio ad alcuno per dire che li legati proponeranno. A che replicando Vargas che, quando fosse solamente detto «li legati proponeranno» nessun si dolerebbe, ma quell’ablativo proponentibus legatis privava li vescovi di proporre, però conveniva mutarlo in altra locuzione, il papa non senza sdegno rispose aver altro da fare che pensar cuius generis et cuius casus. Non mancava di fondamento il sospetto del pontefice, avendo scoperto che quell’ambasciator aveva ispedito molte poste in Spagna e a Trento, confortando li prelati spagnoli a mantener la libertá e mostrando al re che il concilio fosse tenuto in soggezione. [p. 379 modifica]

Ma nella corte, avendo molti prelati da Trento scritto ciascuno agli amici suoi, e variamente secondo li vari affetti, s’eccitò gran tumulto e piú tosto consternazione d’animo, parendo di veder giá Roma vuota de prelati e privata d’ogni prerogativa ed eminenzia. Si vedeva chiaro che li cardinali abitanti in Roma sarebbono esclusi dall’aver vescovati; che senza dubbio la pluralitá de’ benefici veniva proibita; che nessun vescovo né curato averebbe potuto aver ufficio in Roma; che il pontefice non averebbe potuto dispensare in alcuna delle suddette cose, che sono le principali della sua potestá, onde l’autoritá pontificale si diminuiva in gran parte; e raccordavano quel detto di Livio, che la maestá del principe difficilmente si abbassa dalla sommitá al mezzo, ma con facilitá è precipitata dal mezzo all’infimo luoco. Discorrevano l’efficacia che il decreto averebbe prestato per aumentar la potestá de’ vescovi, quali averebbono tirato a loro la collazione delli benefici, negata la potestá pontificia per le reservazioni: che li vescovi oltramontani, e alcuni italiani ancora, hanno sempre mostrato il malanimo verso la corte per invidia, e per non aver in quella cosí facil ingresso; e che da questi, che fingono star lontani da Roma per conscienzia, convien guardarsi, ché farebbono peggio degli altri, se loro venisse fatto; che questi chietini hanno un’ambizione maggiore degli altri, se ben coperta, e con l’altrui rovina vogliono alzarsi; che ben lo mostrò in fatti Paulo IV. E perché li spagnoli erano uniti in questo, e s’era certificato che Vargas li esortava a perseverare, sussurravano molti che dal re venisse il motivo, il quale, vedendo che per aver li sussidi dal clero li convien superar due difficoltá, una in aver il consenso del papa, l’altra in rimovere la resistenza che fanno li capitoli e i collegi (che per essere pieni di nobiltá, esenti dalli vescovi, ed aver ricevuti li benefici la maggior parte per collazione pontificia, non hanno rispetto di opporsi), pensasse di alzar li vescovi da lui totalmente dependenti, quali riconoscono li vescovati dalla sua presentazione, sottomettendogli li capitoli e collegi e levandoli dalla soggezione del papa; e cosí col loro mezzo acquistare un facile e assoluto dominio sopra il clero. [p. 380 modifica]

Si doleva la corte di tutti li legati generalmente, che avessero proposto o permesso che si proponesse l’articolo; giá esser stato con somma arte statuito che soli potessero proporre, non ad altro fine se non per ovviare alli tentativi de’ mal affetti a Roma; e non poter aver scusa, poiché vi era l’esempio del disordine che causò questa disputa nel primo concilio. Sopra tutti si dolevano di Mantoa e Seripando; di quello principalmente, che con la riputazione e credito poteva ovviar ogni inconveniente: e del rimedio discorrevano che bisognava mandar altri legati, persone piú inclinate al bene comune, e non principi né frati, ma incamminati per li gradi della corte. E la voce universale destinava Giovanni Battista Cigala, cardinale di S. Clemente, in primo luoco per essersi mostrato difensore acerrimo dell’autoritá pontificia nelli carichi di referendario e di auditor di camera, con molta lode e aumento delle cose di Roma: il quale, come superior di Mantoa, averebbe tenuto il primo luoco, da che anco Mantoa si sarebbe mosso a ritirarsi.

Il pontefice fece tener molte congregazioni delli cardinali proposti alla consulta del concilio, da’ quali essendo raccordati diversi rimedi per ovviare al corso del male, si diede a parlar del negozio assai piú quietamente e correttamente di prima. Non dannava l’opinione di quelli del ius divino, anzi li lodava di aver parlato secondo la loro conscienzia, e qualche volta aggiongeva anco che forse quell’opinione era la migliore; ma si doleva di quelli che a lui s’erano rimessi, essendo il concilio congregato acciò ciascuno dica l’opinione propria, e non per addossare le cose difficili ad altri e sutterfuggir l’odio e l’invidia; che li dispiacevano le differenze nate tra li legati suoi, quali non dovevano con scandolo pubblicarle, ma, tenendole secrete, o tra loro comporle o a lui riferirle; che si come lodava il dir la propria opinione con libertá, cosí biasmava le pratiche, e quello che da alcuni era stato usato per sovvertir altri con inganni e quasi violenze; che non poteva restar di non gravarsi di quel che si parlava contra la libertá del concilio, e che il consultar le cose a Roma era un violarla. Esser [p. 381 modifica] cosa molto strana che egli, quale è il capo del concilio, e li cardinali, che sono li principali membri, e altri prelati che in Roma sono, che pur in concilio hanno voto, debbino aversi per stranieri, che non possino esser consci di quello che si tratta e dire il parer loro; e quei che non hanno parte legittima si facciano lecito intromettersi con mali modi. Vedersi chiaro che tutti li prelati sono andati a Trento con commissioni delli suoi principi; che secondo quello camminano; che gli ambasciatori con lettere e uffici li constringono a seguir li interessi de’ suoi principi; e pure per questo nessun dice (come dir si doverebbe) che il concilio non sia libero. La qual cosa amplificava con molta veemenza in tutti li ragionamenti, aggiongendo che il dire: «il concilio non è libero» era un colore di chi non voleva veder buon fine del concilio, per dissolverlo o levarli la riputazione; li quali egli teneva tutti per occulti fautori dell’eresia.

Finalmente, dopo aver di questo particolare conferito con tutti li ambasciatori appresso sé residenti, e molte volte consultato, il 9 maggio, congregati tutti li cardinali, fece legger gli avvisi avuti da Trento, e discorse la somma delle consultazioni avute e il bisogno di camminar in questo negozio con desteritá e costanza, accennando che molti fossero congiurati contro la sede apostolica. Poi fece legger la risposta che disegnava mandar a Trento, la qual in sostanza conteneva due ponti: che il concilio dal canto suo era stato sempre lasciato libero e sarebbe per l’avvenire; l’altro, esser giusta cosa che da quello sia riconosciuto per capo e gli abbia il rispetto che si debbe alla sede apostolica. Dimandò il parere a tutti li cardinali, quali concordemente lodarono la risposta data. Raccordarono alcuni che, atteso li dispareri tra li legati, era bene mandarne altri, e anco de straordinari. Alcuni aggionsero l’importanza del negozio meritare che la Santitá sua e tutto il collegio si riducesse a Bologna, per accostarsi a Trento e poter meglio sovvenire alle occorrenze. Al che il papa rispose esser pronto non solo di andar a Bologna, ma a Trento ancora, bisognando; e tutti li cardinali s’offerirono di seguitarlo. [p. 382 modifica]

Si consultò sopra il mandar altri legati, e fu risoluto di differire a parlarne, per opinione che Mantoa non dimandasse licenza, che sarebbe stato di gran pregiudicio alla riputazione del concilio, per l’opinione che l’imperatore e il re di Spagna e quasi tutti li principi avevano della sua bontá, e per il credito che tenevano di lui la maggiore parte delli prelati di Trento.

Spedite le lettere, fece ufficio con li ambasciatori di Venezia e Fiorenza, acciò da quei principi fossero raccomandate le cose del ponteficato alli ambasciatori loro in Trento, e commesso che operassero con li prelati degli stati loro di non intervenir in trattazioni contra la sede apostolica, e non esser tanto ardenti nella materia della residenza. Chiamò poi tutti li vescovi che ancora si ritrovavano alla corte, e li mostrò il bisogno e il servizio che la loro presenza poteva in Trento prestare, li caricò di promesse, e alli poveri diede sovvenzione, e li spedí al concilio: il che fece cosí per accrescere il numero, quando si parlasse della residenza, come perché s’aspettavano quaranta francesi, de’ quali egli non pronosticava alcun bene. E per non aver il regno di Francia contrario, li ambasciatori del quale dovevano in breve arrivar in Trento, si risolse di dar aiuto al re di centomila scudi in dono, e altrettanti in prestito, sotto nome che fossero de mercanti, dando il re sufficiente cauzione del capitale e dell’interesse, con condizione che si facesse da dovero e senza simulazione; che fossero revocati li editti e la guerra fatta per la religione; che con quei dinari si levassero svizzeri e germani, che stessero sotto il suo legato e con le insegne della Chiesa; che non si perdoni ad alcun ugonotto senza suo consenso; che siano impregionati il cancellier, Valenza e altri che egli dirá; che non sia trattata cosa nel concilio contra la sua autoritá, e che non facciano li ambasciatori menzione delle annate; offerendosi però egli di accordare col re in quella materia e reformarla con sodisfazione di Sua Maestá.

Consultò di poi il pontefice la materia della residenza, per poter parlar di quella (quando occorresse) correttamente, in [p. 383 modifica] maniera che né si pregiudicasse, né dasse scandalo; e ben discusse le ragioni, fermò opinione di voler approbare e far eseguire la residenza, sia fondata in qual legge si voglia, o canonica o evangelica. In questa forma rispose all’ambasciator francese che gliene parlò, soggiongendo che di tutti li precetti evangelici egli solo è deputato esecutore; che avendo Cristo detto a san Pietro: «Pasci le mie uagnelle», ha voluto che tutti li ordini dati dalla Maestá sua divina siano eseguiti mediante Pietro solamente; e che egli ne voleva fare una bolla, con pena di privazione delli vescovati, che sarebbe stata piú temuta che una dechiarazione quale il concilio facesse de iure divino. E insistendo l’ambasciatore sopra la libertá del concilio, disse che, se gli fosse concessa ogni libertá, la estenderebbe a riformar non solo il pontefice, ma li principi secolari ancora. E questa forma di parlare molto piaceva al papa, solito dire nessuna cosa esser peggio che star sulla pura difesa; e che se altri col concilio lo minacciavano, bisognava minacciar loro parimente con le arme medesme.

In questo tempo istesso, per dar principio ad eseguire quel che richiesto e promesso aveva, di reformar esso la corte senza che il concilio se n’intromettesse, incominciando da un membro principalissimo, pubblicò la riforma della penitenziaria, dando fama che in breve averebbe anco riformata la cancellarla e la camera. Ognuno aspettava di veder regolar in quella le cose appartenenti alla salute delle anime, che molte sono maneggiate in quell’officio; ma né di penitenza, né di conscienza, né di altra cosa spirituale si fece pur minima menzione in quella bolla; solo alla penitenziaria levò le facoltá che esercitava in diverse cause beneficiali e nelle spettanti alla disciplina esteriore de’ frati regolari, senza però esprimer se quella provvisione fosse fatta per dar ad altri ufficiali quelle facoltá che dalla penitenziaria levava, o pur che le avesse per abusi indecenti e volesse esterminarli di Roma. Ma l’evento immediate levò l’ambiguitá, perché le stesse cose si ottenevano dalla dataria, e per altre vie, solamente con spesa maggiore; e questo fu il frutto della riforma. [p. 384 modifica]

Ma ritornando a Trento, detti li pareri dalli padri, e dalli deputati formati nove decreti, tralasciati li articoli del matrimonio, come era giá deciso, e della residenzia, avendo cosí concordato li legati e fatto ufficio con alquanti che dovessero contentarsene, furono proposti nella congregazione per stabilirli, e leggerli nella sessione al suo tempo statuito. Si eccitarono per quell’ommissione le dimande delli fautori della residenza; al che essendo dalli legati risposto che quell’articolo non era ben discusso, né in quella sessione era opportuno proporlo, ma s’averebbe fatto a suo tempo, s’aumentarono le instanze acciocché allora si proponesse, e le allegazioni di ragioni, che mai sarebbe opportunitá maggiore; con qualche mormorazione ancora che fosse un’arte per non concludere mai. Furono nondimeno costretti a rallentare l’instanza, vedendo li legati risoluti a non trattarne allora, e perché quei della contraria opinione, fomentati da Roma, facevano instanza in contrario piú efficacemente: però attendendo agli articoli, con poche alterazioni li nove capi furono formati.

Il marchese di Pescara fece efficace instanza per nome del re, acciò in quella sessione si dechiarasse che quel concilio era continuazione dell’incominciato sotto Paulo III e proseguito sotto Giulio; e la richiesta era aiutata dalli prelati spagnoli e altri che li seguivano, e sostentata allegando che era necessario farlo per necessitá di fede, altrimenti sarebbono rivocate in dubbio le determinazioni fatte, con notabile impietá. In contrario facevano gagliardi uffici li ambasciatori imperiali, dicendo che sarebbono partiti immediate, e protestato; perché, avendo l’imperatore data la parola alla Germania che quella riduzione s’averebbe per nova convocazione, non poteva sostener un tanto affronto; che per questo non mettevano in difficoltá le cose giá decise, ma mentre vi era speranza di poter ridur la Germania, non volessero troncarla con tanto aggravio della cesarea Maestá. Il cardinale Seripando altro non aveva in mira, se non che si determinasse continuazione, e giá nel fare la bolla della convocazione s’affaticò molto per questo; e ora aiutava efficacemente la richiesta de’ spagnoli. Ma il [p. 385 modifica]

Cardinal di Mantoa fece constante resistenza, per non far una tanta ingiuria all’imperatore senza necessitá; e trovò temperamento di quietare li spagnoli, con dire che, avendo giá tenuto due sessioni senza far di questa proposta menzione, non sará alcun pregiudicio differir anco ad un’altra. La risoluzione delli ambasciatori cesarei di partirsi e l’ufficio del cardinale fecero che il Pescara remissamente procedesse; e opportunamente vennero littere da Luigi di Lansac, principale dell’ambasciaria mandata al concilio dal re di Francia, che, essendo in viaggio non molto lontano, scrisse alli legati e padri pregando che la sessione si prolongasse sino all’arrivo suo e dei colleghi; onde il Mantoa si valse anco di quell’occasione di metter in consulta la prorogazione, nella quale chi per uno chi per piú di questi rispetti, e chi considerando non esser ancora ben quieti li umori della residenza, se ne contentarono; e risolsero, per servar la dignitá della sinodo, non di prolongar la sessione, ma celebrarla senza proponere materia alcuna.

Venuto il giorno 14, con le solite ceremonie si ridussero nella pubblica sessione, dove, cantata la messa e fatte le altre preghiere costumate, il segretario lesse li mandati de’ principi, secondo l’ordine che gli ambasciatori loro s’erano presentati in congregazione: del re cattolico, di Fiorenza, de’ svizzeri, del clero d’Ongaria e de’ veneziani; e il promotore in poche parole ringraziò tutti quei principi di aver offerto le loro forze per sicurtá e libertá del concilio. Doppoi il vescovo celebrante prononciò il decreto in questa sustanza: che la sinodo ha deliberato di prolongare, per alcune giuste e oneste cause, la promulgazione di quei decreti, che era ordinata per quel giorno, sino a’ 4 di giugno, nel qual giorno intima la seguente sessione. Né altro in quell’adunanza fu fatto.