Inni omerici/Ad Ermete/Introduzione

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Omero - Inni (Antichità)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1914)
Ad Ermete - Introduzione
Ad Ermete Ad Ermete - Inno

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L’inno ad Ermete è, fra le composizioni poetiche dell’antichità, una di quelle pervenuteci in peggiori condizioni. Questo fatto è indiscutibile; e figuriamoci se non ha fornito argomento alle lucubrazioni dei filologi. Il Matthaeus, per dirne uno, asserí che appena la seconda e la terza parte dell’inno fossero genuine, ed espunse, tanto per fare, il brano sull'invenzione della cetera (24-26), l’episodio del vecchio d’Onchesto (87-95), una certa furberiola arciaristofanesca del pargoletto Ermete (294-303), e, poi, tutto o quasi tutto il resto, dal verso 409 sino alla fine (580). Come si vede, non ne rimane molto. Ma, anche senza cadere in queste esagerazioni, rimane indiscutibile che l’inno è pieno d’interpolazioni e di guasti, che offendono continuamente il senso, e rendono il nesso meno comprensibile: sicché, per questo più che per ogni altro inno, parrà utile una ragionata esposizione della materia.

Invocazione alla Musa; e, esposti quasi come antefatti, il concepimento e la nascita di Ermete.

La costruzione della lira (17-57). Ermete scopre la testuggine, e ne costruisce la lira. E, siccome quella bestiola è la prima cosa in cui s’imbatte uscendo di casa, la assume, [p. 57 modifica] secondo il costume antico, come augurio. E buon augurio. Gli antichi credevano infatti che le carni degli animali che strisciano sulla terra fossero buone a far suffumigi che allontanassero gli effetti della magia.

La costruzione dello strumento è descritta con molti e precisi particolari. Ermete pratica dei fori attorno attorno all’orlo del guscio, v’inserisce trasversalmente delle cannucce tagliate a misura, che vengano a formare come un graticcio, e sopra il graticcio tende una pelle di bue, in maniera da costituire una vera cassa armonica. Il resto della descrizione è chiaro alla semplice lettura.

Una descrizione simile si trova anche ne «I contravveleni», poema didascalico di Nicandro, vissuto a Colofone circa un secolo e mezzo prima di Cristo. Ma è assai meno evidente (560).

     E favellante, sebbene da prima era muta, la rese
     Ermète, il Nume: ché dalla carne fe’ libero il guscio
     versicolore; e sopra il dorso piantò le due braccia.

Il furto dei Buoi. È il primo viaggio d’Ermete. E non è breve. Dal monte Cillene, a N.E. dell’Arcadia, arriva, in una sola tappa, alla Pieria, che si trova all’estremità N. E. della Grecia, in Macedonia, a Sud del fiume Haliacmon, e sotto il monte Olimpo, nel Sinus Thermaicus (Golfo di Salonicco).

Il monte Olimpo era la sede dei Numi, e quindi, com’è naturale, vi pascevano le mandrie celesti. Ermete ne ruba cinquanta capi, le conduce un po’ lungo la spiaggia del mare, poi s’addentra nel continente, e, d’improvviso, lo troviamo in Onchesto, nel cuore della Beozia, poco al disotto della palude Copàide; e qui c’è un breve episodio con un vecchio bifolco. [p. 58 modifica]

Dopo altri luoghi non specificati, eccolo in Èlide, sui rivi d’Alfeo, dove, giunto all’alba, si ferma tutto un giorno e tutta una notte. E la mattina dopo1 lo troviamo di nuovo in Arcadia, sul monte Cillene, nella caverna della sua mamma.

Tornato così nella spelonca, Ermete si rifugia e rincantucciola nella sua cuna. La madre lo scopre, e lo rampogna aspramente; ma egli non si sgomenta, e dichiara che in qualunque modo vuol farsi strada, e ottenere per sé e per la sua genitrice i riguardi che meritano.

Apollo alla ricerca dei buoi. Apollo muove dalla Pieria, e si mette a cercare i buoi rubatigli. Giunge anch’esso ad Onchesto, e chiede notizie al bifolco; ma ne riceve una risposta evasiva. Da Onchesto, si reca a Pilo su l’Alfeo (vedi v. 397); e di lí, giunge anch’egli al monte Cillene.

Contesa fra Apollo ed Ermete. Apollo entra nella caverna, ghermisce il bambolo, e, ad onta delle sue proteste, lo trascina alla presenza di Giove. Dopo una scenetta semicomica, il Dio, padre di tutti e due, li fa riconciliare, e impone che vadano insieme alla ricerca dei buoi.

Nuova contesa di Apollo e di Ermete. I due Numi vanno d’amore e d’accordo sino a Pilo, nella spelonca dove Ermete ha nascosti i buoi. Ma poi, d’un tratto, troviamo un verso (402) che dice:

Cosí disse; e le mani gli strinse di vincoli saldi.

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E poi c’è una lacuna. E, dopo la lacuna, alcuni versi dai quali appare che fra i due fratelli s’è accesa nuovamente una rissa, e che Apollo ha legato Ermete, il quale riesce però a liberarsi con una nuova magica astuzia. Ora, questa nuova contesa, dopo l’esplicito volere del Padre, non convince. Certo qui ci deve essere un guasto ed una inopportuna interpolazione.

E di qui in poi, la confusione cresce. Apollo, udito il suono della lira, se ne innamora, e la ottiene da Ermete, dandogli in cambio la sferza, perché si dedichi al governo dei buoi e alla cultura dei pascoli.

Poi, entrambi i fratelli si recano presso Giove, che stringe d’affetto l’uno all’altro; e questo è sostanzialmente un doppione. E poi, Febo ed Ermete fanno d’amore e d’accordo lo scambio dei loro attributi; e questo è un altro doppione.

In conclusione, in quest’ultima parte, ci dev’essere un guasto. Ma definire limiti precisi non riesce possibile; e tanto vale lasciare le possibili amputazioni al gusto individuale dei lettori.

Non che però siano giustificabili altri dubbi e altre questioni, solenni solo in apparenza, che sogliono turbare il riposo dei filologi. Principalissima quella che riguarda la sostanziale unità dell’inno, spesso revocata in dubbio perché non si riesce a vedere «il vero soggetto». È il furto dei bovi? Oppure la nascita di Ermete? O le astuzie del piccolo Nume? O i suoi sforzi per conseguire la gloria? O il modo ond’egli emula la specifica gloria d’Apollo? O come ottiene il riconoscimento dei suoi diritti in Olimpo?

Non specifico nomi, e non riferisco argomenti, perché mi sembra che questa affannosa ricerca, sotto la decorativa [p. 60 modifica]bandiera dell’oraziano simplex dumtaxat et unum, nasconda la incoercibile tendenza delle menti germaniche a ridurre tutti i fenomeni, anche quelli che ne son meno suscettibili, alla filosofica unità.

Il che equivale a dire che, secondo me, è una questione di lana caprina. Senza far proprio il minimo torto all’unità raccomandata da Orazio, si può benissimo ammettere che il poeta abbia voluto cantare nell’inno tutti precisamente questi soggetti. Ricchezza d’episodi è varietà, e non distrugge punto l’unità d’un opera d’arte. E se può sembrare opportuno che tanti principati e ducati ed elettorati si uniscano sotto lo scettro d’un solo imperatore per tutelare l’unità d’un popolo; per salvare quella d’una narrazione non c’è proprio bisogno che uno dei suoi episodii cinga la corona e impugni lo scettro, e si metta a dominare su tutti gli altri.

Ed è strano che sia rimasto impigliato in questa difficoltà perfino il Baumeister, il quale subito poi scrive intorno a questo inno riflessioni cosí giuste, che mette conto di riferirle, traducendole alla lettera da quel suo latino assai piú elegante che non soglia essere il latino dei moderni filologi tedeschi. «Se consideri l’indole e la composizione di quest’inno, non ti potrà sfuggire quanta distanza lo separi dai due in onore d’Apollo. In quelli, l’argomento è trattato con la massima serietà e col rispetto dovuto a un Dio augustissimo e potentissimo: qui regnano l’amabile scherzo e la petulanza che convenivano ad un fanciullo lepidissimo, e appena partecipe dell’aura divina. E se pensi a ciò, ti parrà naturale, che, come in quei due carmi c’è un’azione circoscritta da limiti precisi, quasi in un cerchio, qui invece, come nella commedia, la materia sia contenuta fra vincoli piú larghi, e talora deluda [p. 61 modifica]di proposito l’aspettativa, non di rado metta insieme cose diverse e contrarie, e, infine, mescoli il serio e il faceto».

Proprio cosí. Di fronte agli altri inni, questo ad Ermete sta un po’ come la commedia di fronte al dramma.

Ed offre a tratti una comicità fine, quasi si direbbe umoristica, come, per esempio, nell’episodio d’Onchesto, dove il bravo bifolco risponde alle domande d’Apollo con la medesima scaltra reticenza, su per giú, che nei Promessi sposi l’oste volpone adopera con Renzo; ma ce n’è anche, qua e là, un’altra assai piú buffonesca, e che fa pensare agli eroi della commedia d’Aristofane. Si veda con che mezzo Ermete riesce una prima volta a liberarsi dalla stretta d’Apollo; e si consideri l’arlecchinesca osservazione del Dio, che corrisponde perfettamente al contegno che tiene, in circostanza analoga, durante una seduta dell’assemblea, il salcicciaio dei «Cavalieri» d’Aristofane.

E dalla buffonata si arriva alla decisa irriverenza contro i Numi, come quando si afferma che Ermete:

     a dire il vero, aiuta di rado le umane progenie,
     e spesso assai le gabba, quand’è piú profonda la notte.

C’è proprio la medesima atmosfera della commedia antica.

Ma se questa somiglianza ci serve a caratterizzare l’inno, non giova però a sicure illazioni cronologiche. Perché la commedia, a sua volta, in simili atteggiamenti, si era molto modellata sui poeti giambici. E l’ultima frecciata contro Ermete, ricorderà assai certe poesie d’Ipponatte; e, specialmente, le tirate [p. 62 modifica]contro Ermete, che non si è mai mosso a pietà della sua miseria:

Me l’avessi mai dato un buon mantello
perché d’inverno non patissi il freddo!
Me li avessi nascosti, questi piedi,
entro un bel paio di babbucce doppie,
ché non mi si crepassero i geloni!

O quella contro Pluto, che forse rassomiglia anche di piú a questa dell’inno:

È proprio cieco, Pluto! Fosse mai
venuto a casa mia, per dirmi: «Piglia,
piglia, Ipponatte, queste trenta pezze
d’argento, piglia questo, piglia quello».
È un vigliacco per l’anima.

Spiccato carattere etiologico, e, dunque, alessandrino, ha il particolare delle pelli di bue:

come anche adesso, che tanto tempo è trascorso, le pelli
di vecchi bovi, in luoghi si tendono eccelsi.

Ma non è il caso, neanche qui, di fare induzioni cronologiche: primo, perché, come dicemmo, quest’indice è tutt’altro che assoluto; e poi perché il brano non sfugge al sospetto d’interpolazione.

Un dato obiettivo per stabilire uno almeno dei limiti cronologici, si è voluto ricavare dal verso 51, nel quale si dice [p. 63 modifica] esplicitamente che Ermete tese sulla lira sette corde. Ora, siccome, secondo la tradizione, inventore della lira a sette corde sarebbe stato Terpandro2, che fiorì intorno al 676 a.C., la composizione dell’inno dovrebbe di necessità cadere dopo questa data.

Ma, in verità, a tempo di Terpandro la lira a sette corde esisteva già da secoli: la vediamo chiarissimamente rappresentata sui monumenti cretesi. Sicché, questo argomento, che poté sembrar capitale, è da riporre tra i ferri vecchi.

Anche fu osservato che la leggenda d’Apollo è esposta nella forma medesima che ricorreva nell'«Antiope» di Euripide. Sicché Euripide avrebbe già conosciuto l’inno (vedi ed. del Gemoll, pag. 240). [p. 64 modifica]

Ma potrebbe anche essere, o addirittura il contrario, oppure che tanto Euripide quanto l’autore dell’inno si ispirassero direttamente ad una tradizione popolare. Solita inconsistenza dei presunti «indici obiettivi».

I «Satiri alla caccia» di Sofocle non presentano analogie con quest’inno. Ma, anche qui, sarebbe illegittimo concludere che dunque Sofocle non conobbe l’inno, e che questo ai suoi tempi non esisteva ancora.

In conclusione, il meglio sarà badare al generale carattere artistico. E, qualora non si dimentichi che qualche brano di carattere un po’ piú recente, non va esente dal sospetto d’interpolazione, parrà assai evidente che quest’inno è tutt’altro che indegno di stare in compagnia con gli altri; e che anche per l’età non deve essere troppo remoto dai migliori di essi.

Note

  1. Qui espungo il verso 95, che designa Selene come «la figlia di Pallante, figliuolo del re Megamede». Non riesce chiaro come abbia potuto intrudersi nel testo; ma quanto alla intrusione non mi sembra che possano cader dubbii.
  2. Strab. 618 Τέρπανδρος ἀντὶ τῆς τετραχòρδου λύρας ἐπταχòρδῳ χρησάμενος. Ma le parole di Strabone, che del resto sono suscettibili anche d’una larga interpretazione, sono derivate dal notissimo brano dello stesso Terpandro: Σοί δ’ἡμεῖς τετράγηρυν ἀποστέρξαντες ἀοιδὰν ἑπτατόνῳ φόρμιγγι νέους κελαδήσομεν ὕμνους. Ora, da questi versi non si può affatto ricavare la conclusione che fino a Terpandro ci fossero soltanto lire a quattro corde, e che egli per primo ne inventasse una a sette corde. Avvenne in Grecia ciò che è avvenuto sempre per ogni elemento delle costituzioni musicali, e quindi anche per gli strumenti: che cioè le forme più antiche seguitano a sopravvivere anche quando sono già apparse e trionfano le più moderne. Già in tempi antichissimi esistevano lire a sette corde; ma i compositori ligi alla tradizione classica, seguitavano ad attenersi a quella a quattro corde, cioè alle melodie che si svolgevano nell'àmbito d’una quarta (si veda il mio studio sui modi greci nel volume «Nel regno d’Orfeo»), Terpandro, invece, più vago di novità, abbandonò lo strumento arcaico, e si attenne a quello, pure antichissimo, che la Grecia classica aveva accolto da meno tempo.