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AD ERMETE | 57 |
diera dell’oraziano simplex dumtaxat et unum, nasconda la incoercibile tendenza delle menti germaniche a ridurre tutti i fenomeni, anche quelli che ne son meno suscettibili, alla filosofica unità.
Il che equivale a dire che, secondo me, è una questione di lana caprina. Senza far proprio il minimo torto all’unità raccomandata da Orazio, si può benissimo ammettere che il poeta abbia voluto cantare nell’inno tutti precisamente questi soggetti. Ricchezza d’episodi è varietà, e non distrugge punto l’unità d’un opera d’arte. E se può sembrare opportuno che tanti principati e ducati ed elettorati si uniscano sotto lo scettro d’un solo imperatore per tutelare l’unità d’un popolo; per salvare quella d’una narrazione non c’è proprio bisogno che uno dei suoi episodii cinga la corona e impugni lo scettro, e si metta a dominare su tutti gli altri.
Ed è strano che sia rimasto impigliato in questa difficoltà perfino il Baumeister, il quale subito poi scrive intorno a questo inno riflessioni cosí giuste, che mette conto di riferirle, traducendole alla lettera da quel suo latino assai piú elegante che non soglia essere il latino dei moderni filologi tedeschi. «Se consideri l’indole e la composizione di quest’inno, non ti potrà sfuggire quanta distanza lo separi dai due in onore d’Apollo. In quelli, l’argomento è trattato con la massima serietà e col rispetto dovuto a un Dio augustissimo e potentissimo: qui regnano l’amabile scherzo e la petulanza che convenivano ad un fanciullo lepidissimo, e appena partecipe dell’aura divina. E se pensi a ciò, ti parrà naturale, che, come in quei due carmi c’è un’azione circoscritta da limiti precisi, quasi in un cerchio, qui invece, come nella commedia, la materia sia contenuta fra vincoli piú larghi, e talora deluda