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L’inno ad Ermete è, fra le composizioni poetiche dell’antichità, una di quelle pervenuteci in peggiori condizioni. Questo fatto è indiscutibile; e figuriamoci se non ha fornito argomento alle lucubrazioni dei filologi. Il Matthaeus, per dirne uno, asserí che appena la seconda e la terza parte dell’inno fossero genuine, ed espunse, tanto per fare, il brano sull'invenzione della cetera (24-26), l’episodio del vecchio d’Onchesto (87-95), una certa furberiola arciaristofanesca del pargoletto Ermete (294-303), e, poi, tutto o quasi tutto il resto, dal verso 409 sino alla fine (580). Come si vede, non ne rimane molto. Ma, anche senza cadere in queste esagerazioni, rimane indiscutibile che l’inno è pieno d’interpolazioni e di guasti, che offendono continuamente il senso, e rendono il nesso meno comprensibile: sicché, per questo più che per ogni altro inno, parrà utile una ragionata esposizione della materia.
Invocazione alla Musa; e, esposti quasi come antefatti, il concepimento e la nascita di Ermete.
La costruzione della lira (17-57). Ermete scopre la testuggine, e ne costruisce la lira. E, siccome quella bestiola è la prima cosa in cui s’imbatte uscendo di casa, la assume,