Inni omerici/Ad Apollo Delio/Introduzione
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Nel terzo libro della sua storia, Tucidide asserisce che nel primo anno della guerra del Peloponneso (426 a. C.), gli Ateniesi, per consiglio d’un certo oracolo, purificarono l’isola di Delo, e vi celebrarono delle feste, ricorrenti ogni cinque anni.
E soggiunge: «E anche a tempo antico c’era a Delo gran concorso di Ioni e d’isolani circonvicini, che vi si recavano ai sacri spettacoli con le mogli e i figli, come usano ora gli Ioni alle feste d’Efeso. E c’era una gara di ginnastica e di musica, e le varie città vi conducevano cori. E che le cose andassero cosí, lo prova chiaramente Omero in quei versi dell’inno ad Apollo:
Ma in Delo, o Febo, più che altrove, ti giubila il cuore. S’adunan qui gli Ioni per te, ch’ànno usberghi di bronzo,
essi, coi loro figli, le loro consorti pudiche;
e con la danza, coi canti, s’allegran, col pugile gioco,
te ricordando, allorché solennizzano, o Febo, le gare.
E che ci fosse anche la gara di musica, lo dichiara in altri versi dello stesso inno: poiché, dopo avere esaltato il coro delle donne di Delo, termina l’elogio coi seguenti versi, nei quali tesse l’elogio di sé stesso:
E tutte voi, salvete, fanciulle. Di me ricordarvi
dovrete un giorno, quando talun dei terrestri mortali,
qualche tapino foresto, nell’isola giunga, e vi chieda:
«Quale cantore, fanciulle, da voi prediletto su tutti
giunge a quest’isola? E chi vi piace ascoltar più d’ogni altro?»
E voi risponderete cosí, tutte quante a una voce:
«Un cieco, uno che vive nell’isola alpestre di Chio».
Cosí dice Tucidide; e dal suo brano si ricava dunque che, secondo lui, l’inno ad Apollo Delio apparteneva proprio ad Omero.
Naturalmente, la sua opinione ha valore tutt’altro che decisivo. Ma tuttavia, siccome, evidentemente, rispecchiava la credenza comune, qualche cosa prova: prova che gli Attici del tempo di Pericle, non certo destituiti di gusto, né meno competenti di noi moderni nel giudicare i pregi di stile, non credettero quest’inno indegno del gran cantore dell’Iliade. Ad ogni modo, poi, dimostrano, indiscutibilmente, un altro fatto: che, cioè, ai tempi di Tucidide, quest’inno non solamente esisteva, ma esisteva da lungo tempo, se ogni memoria intorno al suo vero compositore era andata smarrita, sicché la paternità poteva, senza contrasto, esserne attribuita ad Omero.
Ho parlato senz’altro d’inno ad Apollo Delio. Ma, in realtà, questo, e l’inno ad Apollo Pizio, che nelle comuni edizioni si trovano separati, nei codici si seguono senza interruzione, in una serie di 546 versi.
Se non che, la duplicità riesce dimostrata da varii fatti.
Primo, dal contenuto. Infatti, nel gruppo di versi 1-178, si parla solamente e sempre di Delo, e dal verso 182 alla fine, sempre e solamente di Pito.
Poi, dal fatto che entrambi questi gruppi di versi hanno un principio e una fine ben distinti: il principio segnato dalla presentazione ex-abrupto del Nume che avanza in Olimpo: la fine dalla dichiarazione del poeta, abituale, e, sembrerebbe, doverosa in questi inni, che egli riprenderà ancora la cetera, per intonare un nuovo canto in onore del Nume. Infine, furono rilevate molte coincidenze che intercedono fra i due brani: principali, il vagabondar di Latona in cerca dell’isola su cui sgravarsi, che ricorda quello di Apollo in cerca della sede piú adatta per il suo oracolo; e la frode di Era, che fa pensare a quella di Telfusa. E furono assunte come indici della dipendenza d’uno degl’inni dall’altro; e, dunque, di duplicità.
E non mancano le prove obiettive.
Ateneo, un bravo grammatico del II secolo a. C., parla di «inni ad Apollo»: dunque ne conosceva piú d’uno 1.
Aristide, anch’egli egregio grammatico, vissuto nel II secolo d.C., in un brano delle sue orazioni, dice: «Chi è l’ottimo dei poeti? — Omero. Chi piace piú d’ogni altro agli uomini, e per quali doti specialmente li diletta? — Egli medesimo lo previde; giacché, verso la fine dell’inno, rivolgendosi alle fanciulle di Delo, dice: «Se, o fanciulle, alcuno vi domandasse, etc.»2.
Dunque, gl’inni sono due, appiccicati, e malamente, l’uno all’altro dai tre versi 179-181, che ci stanno proprio a pigione, che io ho espunti senza esitare, e che, se il curioso lettore non vuol proprio esserne defraudato, dicono cosí:
O Sire che Meonia l’amabile e Licia proteggi,
e la città gioconda che al mare è vicina, Mileto,
e il tuo dominio stendi su Delo battuta dal mare.
***
Come è, secondo ogni verisimiglianza, il piú antico, cosí quest’inno ha semplicità di linea e chiarezza mirabili.
Il nucleo è costituito dalla nascita d’Apollo, che, venuto appena alla luce, assume i suoi attributi, la cetra e l’arco. Prima e dopo, ci sono due altri brani, quasi due orli, che l’incorniciano.
Il primo (1-23), risulta a sua volta di tre parti:
A) Una presentazione d’Apollo ne la sua piena gloria, quando entra, ammirato e temuto, in Olimpo, fra il consenso dei Numi (1-13). È una specie di ex-abrupto plastico. Con esso il poeta colpisce súbito e soggioga la fantasia dell’ascoltatore: egli applica, in anticipazione, la massima di Pindaro:
Sostegno al saldo atrio del talamo
confitte voglio auree colonne
sí come per fulgida reggia:
da lungi visibile dev’essere il fronte
dell’opera impresa.
B) Di una breve invocazione alla madre del Nume (14-17).
C) Della dichiarazione, che poi diverrà comunissima in ogni genere d’inni, che, per cantare quel Nume, sono dischiuse al poeta innumerevoli strade. E qui si può trovare l’addentellato ai versi 21-23, che in genere si espungono, come interpolati: essi esemplificano l’affermazione del poeta che non può mancar la materia a chi si accinga a cantare Febo. A lui son sacri tutti i monti, tutti i fiumi, tutte le spiagge, tutti i porti, e da ciascuna di queste località il poeta può attingere ispirazione. E chiama il Nume εὔυμνος, cioè «facile a cantare nell’inno»: che io, tenendo conto del πάντως che lo accompagna, rendo, con qualche libertà: sei tutto un inno. Molti secoli dopo, Callimaco dové ricordarsi di questo passo, quando, nel suo inno ad Apollo, scrisse:
Per cantar Febo, al coro non è sufficiente un sol giorno:
egli è già tutto un inno: cantarlo chi mai non saprebbe?
L’altra parte della cornice, quella che chiude l’inno, è forse il brano piú interessante di tutti gl’Inni. In essa, il poeta abbandona il mito, e traccia un quadro, appena accennato, e non però meno vivace, delle feste celebrate ai suoi tempi in Delo.
E singolarissimo, in tutta la letteratura greca, è il passo intorno alle fanciulle di Delo. Sono, come dice esplicitamente il poeta, le ministre d’Apollo; e la cerimonia da loro celebrata, è, parrebbe, un iporchema, una danza religiosa. Secondo ogni probabilità, le fanciulle vi rappresentavano la corsa di Latona, e imitavano la lingua delle diverse genti fra cui passava la Dea, riproducevano i loro canti e le loro danze. E l’imitazione era perfetta. Ciascuno, asserisce il poeta, udendole, credeva d’udir sé stesso.
Abbiamo dunque una testimonianza precisa e preziosa del carattere prettamente mimico di queste danze. E torna a mente il famoso epitafio scolpito su la tomba del mimo Vitale:
Cosí le mosse, i volti, le voci imitavo, che avresti
detto che favellassero in molti; ed ero io solo.
E quello stesso che in me si vedeva cosí raddoppiato,
guardandomi, sentiva rizzarsi addosso i peli.
Il testo dice che queste fanciulle sacerdotesse imitavano la voce di tutte le genti, e il loro krembaliastys. Ora, in greco krémbalon vuol dire nacchera, e krembaliastys danza o canto a suono di nacchera. Ma il valore specifico non si doveva sentir piú; e il vocabolo avrà voluto semplicemente significare: caratteristica ritmica, o simili. Traduco in conseguenza.
E quasi piú interessante è l’apostrofe rivolta alle fanciulle di Delo. Franta l’eterna obiettività rapsodica, il poeta parla qui per proprio conto, svelandoci alcuni particolari della sua vita: la sua dimora in Chio, e la sua cecità: che poi furono i due principali fulcri della leggenda omerica.
Non basta. Se spogliate le sue parole dalla loro veste poetica, vedete che egli propone alle ministre del culto di Apollo in Delfo, artiste anch’esse, e, piú precisamente, danzatrici mimiche, una specie di patto bilaterale. Egli, che gira pel mondo, tesserà, ovunque si rechi, il loro elogio. Esse, che rimangono sempre nell’isola, ma vengono in contatto con innumerevoli forestieri, canteranno a tutti l’elogio del poeta loro amico. I patti d’alleanza o di fraternità artistica, risalgono, come si vede, ad èra molto antica: almeno a sette secoli prima della salutifera incarnazione.
Assai caratteristica è la precisione onde è descritto il viaggio di Latona; ed interessante è seguirlo tenendo sott’occhio una carta geografica.
La Dea muove da Egina; e, con una rotta costante verso Nord, tocca l’Eubea (Ege è anch’essa nell’Eubea, Piresia è un emendamento del testo, tutt’altro che sicuro), di qui muove all’isoletta di Pepareto, a S.E. della Magnesia, di qui al picco Atòo, l’estremo ad E. del tridente Calcidico, poi al monte Pelio nella Magnesia (qui c’è un piccolo ritorno a Sud, dovuto, credo a necessità metrica), poi in Samotracia.
Di qui, ridiscende a Sud. S’interna prima nella Troade, sul monte Ida. Dall’Ida risale un po’, rientra in mare, tocca, poco a Nord, Imbro, e ridiscende, oramai costantemente verso Sud, a Lemno, a Lesbo, a Chio, al promontorio Mimas (di fronte a Chio), al promontorio Coricio (a Sud del Mimas), a Claros (vicino a Colofone), a Samo (Esage non è identificato), a Micale, a Mileto.
Da Mileto, si stacca decisamente dalla terra ferma, e, sempre a Sud, tocca Coo, Cnido, Càrpato.
Di qui, risale ancora a Nord, e si reca a Nasso, a Paro, a Renèa (vicino a Delo).
E da Renèa, eccola infine a Delo, e alla fine del suo viaggio.
Cosí dunque, balzando arditamente da promontorio ad isola, la Dea compie il periplo dell’Egeo, con un giro quanto mai preciso ed elegante 3.
Tralascio le fantasticherie di quelli che vollero correggere l’itinerario, pretendendo alcuni che dovessero essere enumerati solamente i luoghi in cui c’erano santuari di Apollo, ed altri, invece, solamente quelli che non li avevano, perché avevano rifiutato ospitalità alla Dea.
In realtà, il poeta non ha voluto che dare idea del lunghissimo e penoso errare di Latona. E c’è pienamente riuscito, mi sembra, con questa rapida, ma precisa e non aridissima descrizione, che doveva súbito imporsi alla fantasia di quanti avevano presenti o familiari i luoghi descritti.
Una simile cultura geografica dimostra Omero. Non vorremmo perciò concludere che al gran cantore dell’Iliade appartenesse veramente quest’inno.
Ma davvero è tutt’altro che mediocre. C’è dappertutto una gran nitidezza di linee, una gran vivacità di colori. Alcune figurazioni non sembrano, quasi, indegne d’Omero. Per esempio:
Stupore
colse le Dive, d’oro fu florida l’isola tutta,
come pei fiori una selva sul vertice sommo d’un monte.
Oppure, l’apoteosi d’Apollo che si presenta al consesso dei Numi. O, anche, l’immagine, sia pure appena accennata nel discorso di Delo, dell’isola che piomba giú negli abissi del mare. Rimando i lettori all’inno, direttamente. Qui non sembri superfluo riferire, invece, una pittura analoga, sebbene antipoda, di Pindaro, nella quale vediamo l’arrestarsi nel pelago dell’isola errante.
Errava da prima, rapita
dai flutti, dal cozzo dei venti molteplici.
Ma quando la figlia di Coio,
furente nell’ultime doglie, vi giunse,
quattro colonne diritte
dalle radici terrestri
sursero come adamàntini plinti,
e sui capitelli la roccia sostennero.
E quivi, sgravata,
mirò la beata sua prole.
Note
- ↑ Ὅμηρος ἤ τις Ὁμηριδῶν ἐν τοῖς εἰς Ἀπόλλωνα ὕμνοις. Il Gemoll obietta che, essendovi il plurale, Ateneo parla di piú inni, e non già di due. Ma il plurale si poteva adoperare in luogo del duale. E, ad ogni modo, dimostrare che esistevano piú di due inni, non significa dimostrare che i due inni in questione siano brani di un solo inno.
- ↑ Διαλεγόμενος γάρ ταῖς Δηλιάσι καὶ καταλύων τὸ προοίμιον. Il Gemoll nega qualsiasi valore a questo brano, perché crede che Aristide non abbia avuto sott’occhio il testo degli inni, bensí il solo brano di Tucidide. Sarebbe possibile, per quanto non eccessivamente verisimile: ma, ad ogni modo, a carico del Gemoll rimane l’onus probandi. L’unica prova da lui addotta, che, cioè, tanto Aristide quanto Tucidide adoperano il vocabolo προοίμιον invece di ὕμνος, è destituita d’ogni valore. Lo scoliaste di Tucidide dice esplicitamente: ἐκ προοιμίου, ἐξ ὕμνου, τοὺς γὰρ ὕμνους προοίμια ὲκάλουν. Tralascio le ragioni con cui il Gemoll sostiene l’unità dei due inni. Non mi pare che, in genere, siano state accettate. E ostinarsi a confutar gli errori quando non trionfano, significa, in sostanza, favorirne la sopravvivenza.
- ↑ Questo bel percorso è veramente interrotto dal verso 35. che dice: e Sciro, e Focea, e a la scoscesa montagna d’Egocane. Egocane non s’identifica (forse è Kane, vicino a Focea). Ma Sciro è all’altezza dell’Eubea, e Focea anche piú a Sud. E che il poeta immaginasse di far discendere la Dea dall’Ida a S.O. e poi a S.E., per farla quindi risalire anche piú a Nord del punto di partenza, è cosa che razionalmente si può sostenere, ma che non riesce a convincermi. E credo che convenga correggere questo sgorbio geografico, espungendo senz’altro il verso.