In morte di Lorenzo Mascheroni (1831)/Canto I

Canto primo

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Prefazione editore Canto II
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Canto Primo


Come face al mancar dell’alimento
Lambe gli aridi stami, e di pallore
3Veste il suo lume ognor più scarso e lento;

E guizza irresoluta, e par che amore
Di vita la richiami, infin che scioglie
6L’ultimo volo, e sfavillando muore:

Tal quest’alma gentil, che morte or toglie
All’Italica speme, e su lo stelo
9Vital, che verde ancor fioria, la coglie;

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Dopo molto affannarsi entro il suo velo,
E anelar stanca su l’uscita, alfine
12L’ali aperse e raggiando alzossi al cielo.

Le virtù, che diverse e pellegrine
La vestìr mentre visse, il mesto letto
15Cingean, bagnate i rai, scomposte il crine:

Della patria l’amor santo e perfetto,
Che amor di figlio e di fratello avanza,
18Empie a mille la bocca, a dieci il petto:

L’amor di libertà, bello se stanza
Ha in cor gentile, e, se in cor basso e lordo,
21Non virtù, ma furore e scelleranza:

L’amor di tutti, a cui dolce è il ricordo
Non del suo dritto ma del suo dovere,
24E, l’altrui bene oprando, al proprio è sordo:

Umiltà, che fa suo l’altrui volere:
Amistà, che precorre al prego e dona,
27E il dono asconde con un bel tacere:

Poi le nove virtù che in Elicona
Danno al muto pensier con aurea rima
30L’ali, il color, la voce e la persona;

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Colei1 che gl’intelletti apre e sublima,
E col valor di finte cifre il vero
33Valor de’ corpi immaginati estima;

Colei che li misura, e del primiero
Compasso armò di Dio la destra, quando
36Il grand’arco curvò dell’emispero;

E spinse in giro i soli, incoronando
L’ampio creato di fiammanti mura,
39Contro cui del caosse il mar mugghiando,

E crollando le dighe entro la scura
Eternità rimbomba, e paurosa
42Fa del suo regno dubitar Natura:

Eran queste le Dee che lamentosa
Fean corona alla spoglia che d’un tanto
45Spirto, di vita nel cammin, fu sposa.

Ecco il cor, dicea l’una, in che sì santo
Sì fervido del giusto arse il desiro:
48E la man pose al core, e ruppe in pianto.

Ecco la dotta fronte onde s’apriro
Sì profondi pensieri, un’altra disse:
51E la fronte toccò con un sospiro.

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Ecco la destra, ohimè! che li descrisse,
Venìa sclamando un’altra; e baci ardenti
54Su la man fredda singhiozzando affisse.

Poggia intanto quell’alma alle lucenti
Sideree rote, e or questa spera or quella
57Di sua luce l’invita entro i torrenti.

Vieni, dicea del terzo ciel la stella:
Qui di Valchiusa è il cigno, e meno altera
60La sua donna con seco, e assai più bella;

Qui di Bice il cantor, qui l’altra schiera
De’ vati amanti: e tu, cantor lodato
63D’un’altra Lesbia2, ascendi alla mia spera.

Vien, di Giove dicea l’astro lunato:
Qui riposa quel grande che su l’Arno
66Me di quattro pianeti ha coronato.

Vien quegli occhi a mirar, che il ciel spiarno3
Tutto quanto e, lui visto, ebber disdegno
69Veder oltre la terra e s’oscurarno.

Tu, che dei raggi di quel divo ingegno
Filosofando ornasti i pensier tui,
72Vien; tu con esso di goder se’ degno.

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Ma di rincontro folgorando i sui
Tabernacoli d’oro apriagli il sole;
75E Vieni, ei pur dicea, resta con nui.

Io son la mente della terrea mole,
Io la vita ti diedi, io la favilla
78Che in te trasfuse la giapezia prole4.

Rendimi dunque l’immortal scintilla5
Che tua salma animò; nelle regali
81Tende rientra del tuo padre e brilla.

D’italo nome troverai qui tali
Che dell’uman sapere archimandriti
84Al tuo pronto intelletto impennàr l’ali;

Colui che strinse ne’ suoi specchi arditi6
Di mia luce gli strali e fe’ parere
87Cari a Marcello di Sicilia i liti;

Primo quadrò la curva del cadere7
De’ projetti creata, e primo vide
90Il contener delle contente sfere.

Seco è il calabro antico8, che precide
Alle mie rote il giro e del mio figlio
93La sognata caduta ancor deride.9

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Qui Cassin10, che in me tutto affisse il ciglio,
Fortunato così, ch’altri giammai
96Non fe’ più bello del veder periglio.

Qui Bianchin, qui Riccioli11, ed altri assai
Del ciel conquistatori, ed Orìano
99L’amico tuo qui assunto un dì vedrai;

Lui che primiero dell’intatto Urano
Co’ numeri frenò la via segreta,
102Orian degli astri indagator sovrano12.

Questi dal centro del maggior pianeta
Uscían richiami; e: — Vieni, anima dìa,
105Par ch’ogni stella per lo ciel ripeta.

Sì dolce udìasi intanto un’armonia,
Che qual più dolce suono arpa produce
108Di lavoro mortal muggio saria.

E il sol sì viva saettò la luce,
Che il più puro tra noi giorno sereno
111Notte agli occhi saria quando è più truce.

Qual tra mille fioretti in prato ameno,
Vago parto d’april, la fanciulletta,
114Disiosa d’ornar le tempia e il seno,

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Or su questo or su quel pronta si getta,
Vorrìa tutti predarli, e li divora
117Tutti con gli occhi ingorda e semplicetta;

Tal quell’alma trasvola, e s’innamora
Or di quel raggio ed or di questo, e brama
120Fruir di tutti, e niun l’acqueta ancora;

Perocchè più possente a sè la chiama
Cura d’amore di quei cari in traccia
123Che amò fra’ vivi e più fra gli astri or ama.

Ella di Borda13 e Spallanzan la faccia
E di Parin sol cerca; ed ogni spera
126N’inchiede, e prega che di lor non taccia.

Ed ecco a suo rincontro una leggiera
Lucida fiamma, che nel grembo porta
129Una dell’alme di cui fea preghiera.

Qual fu suo studio in terra, iva l’accorta
Misurando del cielo alle vedette
132L’arco che l’ombra fa cader più corta14.

Oh mio Lorenzo! — oh Borda mio! Fur dette
Queste, e non più, per lor, parole: il resto
135Disser le braccia al collo avvinte e strette.

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— Pur ti trovo. — Pur giungi. — Io piansi mesto
L’amara tua partita, e su latino
138Non vil plettro il mio duol fu manifesto.

— Io di quassù l’intesi, o pellegrino
Canoro spirto; e desiai che ratto
141Fosse il vol che dovea farti divino.

— Anzi tempo, lo vedi, fu disfatto
Laggiù il mio frale. — Il veggo, e nondimeno
144“Qual di te lungo qui aspettar s’è fatto?„

Così confusi l’un dell’altro in seno,
E alternando il parlar, spinser le piume
147Là dove fa la lira il ciel sereno;

D’Orfeo la lira, che il paterno nume
D’auree stelle ingemmò; mentre volgea
150Sanguinosa la testa il tracio fiume:

E, misera Euridice, ancor dicea
L’anima fuggitiva, ed Euridice,
153Euridice, la ripa rispondea.

Conversa in astro quella cetra elice
Sì dolci suoni ancor, che la dannata
156Gente gli udendo si faría felice.

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Giunte a quell’onda d’armonia beata
Le due celesti peregrine, un’alma
159Scoprir che grave al suon si gode e guata:

Sovra un lucido raggio assisa in calma,
L’un su l’altro il ginocchio, e su i ginocchi
162L’una nell’altra delle man la palma.

Torse ai due che veniéno i fulgid’occhi,
Guardò Lorenzo, e in lei del caro aspetto
165Destàrsi i segni dall’obblio non tocchi.

Non assurse però; ma con diletto
La man protese, e balenò d’un riso
168Per la memoria dell’antico affetto.

E ben giunto, lui disse; alfin diviso
Ti se’ dal mondo, dal quel mondo u’ solo
171Lieta è la colpa ed il pudor deriso.

Dopo il tuo dipartir dal patrio suolo15
Io misero Parini il fianco venni
174Grave d’anni traendo e più di duolo.

E, poich’oltre veder più non sostenni
Della patria lo strazio e la ruina,
177Bramai morire, e di morire ottenni.

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Vidi prima il dolor della meschina,
Di cotal nuova libertà vestita,
180Che libertà nomossi e fu rapina.

Serva la vidi, e, ohimè! serva schernita,
E tutta piaghe e sangue al ciel dolersi
183Che i suoi pur anco, i suoi l’avean tradita.

Altri stolti, altri vili, altri perversi,
Tiranni molti, cittadini pochi,
186E i pochi o muti o insidiati o spersi.

Inique leggi, e per crearle, rochi
Su la tribuna i gorgozzuli16, e in giro
189La discordia co’ mantici e co’ fuochi;

E l’orgoglio con lei, l’odio, il deliro,
L’ignoranza, l’error, mentre alla sbarra
192Sta del popolo il pianto ed il sospiro.

Tal s’allaccia in senato la zimarra,
Che d’elleboro ha d’uopo e d’esorcismo;17
195Tal vi tuona, che il callo ha della marra;

Tal vi trama, che tutto è parossismo
Di delfica manía, vate più destro
198La calunnia a filar che il sillogismo;

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Vile! e tal altro del rubar maestro18
A Caton si pareggia, e monta i rostri
201Scappato al remo e al tiberin capestro.

Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri
Parlar virtude, e sè dir Bruto e Gracco,
204Genuzj essendo Saturnini19 e mostri.

Colmo era in somma de’ delitti il sacco;
In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro,
207E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco.

Venne il nordico nembo, e quel leggiadro
Viver sommerse: ma novello stroppio
210La patria n’ebbe, e l’ultimo soqquadro.

Udii di Cristo i bronzi suonar doppio
Per laudarlo che giunto era il tiranno:
213Ahi! che pensando ancor ne fremo e scoppio.

Vidi il tartaro ferro e l’alemanno
Strugger la speme dell’ausonie glebe
216Sì, che i nepoti ancor ne piangeranno.

Vidi chierche e cocolle armar la plebe,
Consumar colpe, che d’Atreo le cene
219E le vendette vincerian di Tebe.20

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Vidi in cocchio Adelasio,21 ed in catene
Paradisi e Fontana.22 Oh sventurati!
222Virtù dunqu’ebbe del fallir le pene?

Cui non duol di Caprara e di Moscati?23
Lor ceppi al vile detrattor fan fede
225Se amâr la patria o la tradìr comprati.

Containi! Lamberti!24 oh ria mercede
D’opre onorate! ma di re giustizia
228Lo scellerato assolve e il giusto fiede.

Nella fiumana di tanta nequizia,
Deh! trammi in porto, io dissi al mio Fattore,
231Ed ei m’assunse all’immortal letizia.

Nè il guardo vinto dal veduto orrore
Più rivolsi laggiù, dove soltanto
234S’acquista libertà quando si muore.

Ma tu, che approdi da quel mar di pianto,
Che rechi? Italia che si fa? L’artiglia
237L’aquila ancora? O pur del suo gran manto

Tornò la madre a ricoprir la figlia?
E Francia intanto è seco in pace? O in rio
240Civil furore ancor la si periglia?

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Tacquesi: e tutta la pupilla aprío
Incontro alla risposta alzando il mento.
243Compose l’altro il volto, e quel desio

Fe’ del seguente ragionar contento.





Note

  1. [p. 95 modifica]Urania (in greco la celeste) la musa che presiedeva alla matematica ed all’astronomia.
  2. [p. 95 modifica]* Invito a Lesbia Cidonia. Questo elegantissimo poemetto, di cui abbiamo più edizioni, non è che la descrizione de’ musei di Pavia. Sono le Grazie medesime che parlano profonda filosofia.
  3. [p. 95 modifica]* È noto che il gran Galileo dopo le sue scoperte astronomiche divenne cieco * ― Fu egli il primo a scoprire i satelliti di Giove.
  4. [p. 96 modifica]Prometeo ed Epimeteo figliuoli di Japeto furono i creatori degli esseri animati. Avendo Epimeteo conceduti tutti i doni di forza e di difesa agli animali e dimenticatosi intieramente dell’uomo, Prometeo, onde supplire, involò a Pallade ed a Vulcano le arti ed il fuoco animatore dell’intelletto, e gliene fe’ dono. ― Platone in Protagora; Eschilo nel Prometeo.
  5. [p. 96 modifica]Il poeta segue la dottrina di Platone, favorevole alla poesia, il quale pensava che le anime fossero state distribuite da Dio nei pianeti, donde, per opera di divinità subalterne, scendano ad informare i corpi de’ mortali: e quelle anime che avranno vissuto in terra la vita de’ giusti, ritorneranno dopo la morte a rivivere nell’astro primitivo, laddove le altre passeranno ad animare il corpo de’ bruti, finchè siansi intieramente purgate. — Platone, lib. vii della Repubblica.
  6. [p. 96 modifica]È fama che Archimede, prima ancora di Buffon, abbia conosciuto l’uso degli specchj ustorj, di cui si servì per incendiare le navi di Marcello, che assediava Siracusa.
  7. [p. 96 modifica]* Archimede fu il primo che trovò la quadratura della [p. 97 modifica]parabola, e i rapporti della sfera col cilindro. Della quale ultima scoperta egli stesso compiacquesi tanto che la volle incisa sul suo sepolcro; lo che servi d’indizio a Cicerone per iscoprirlo, siccome egli stesso racconta nelle Tuscolane l. 5, § 23.
  8. [p. 97 modifica]* Filolao nativo della Magna Grecia e discepolo di Pitagora. Fu il primo ad insegnare il sistema ora detto Copernicano.
  9. [p. 97 modifica]Fetonte fulminato.
  10. [p. 97 modifica]* Cassini chiamato l’oracolo del Sole, diede una teoria completa sul movimento delle macchie solari, e parlò più sensatamente d’ogni altro della paralasse del sole, elemento principale di tutta l’astronomia.
  11. [p. 97 modifica]Monsignor Bianchini vescovo di Verona e il P. Riccioli gesuita, celebri astronomi, i quali applicarono le osservazioni degli astri alla storia umana, il primo colla sua erudita istoria provata dai monumenti e l’altro colla sua cronologia riformata, tenuta in grande estimazione.
  12. [p. 98 modifica]* La teoria del nuovo pianeta Urano, stampata in Milano del 1789, fu conosciuta a Parigi dai più distinti astronomi e geometri. Ma perchè il modesto Oriani non la presentò all’accademia delle scienze, l’astronomo Delhambre profittò senza scrupolo delle scoperte altrui, e le sue tavole pubblicate due anni dopo ottennero un premio ad altri dovuto.
  13. [p. 98 modifica]* Bartolomeo Borda celebre matematico francese, intimamente legato d’amicizia col nostro Mascheroni, il quale su la di lui morte compose un’elegia latina degna del secolo d’Augusto.
  14. [p. 98 modifica]Il Meridiano.
  15. [p. 98 modifica]Mascheroni, il quale era stato membro del corpo legislativo della repubblica cisalpina, dacchè gli austro-russi invasero l’Italia, si rifuggiò cogli altri patrioti in Francia.
  16. [p. 98 modifica]Allude alle aringhe che si tenevano in pubblico da quegl’invasati che si chiamavano repubblicani.
  17. [p. 99 modifica]Cioè, il quale è o pazzo o indemoniato. Era comune proverbio tra i greci quando volevano significare che taluno era pazzo, che aveva d’uopo di elleboro: oppure, che bisognava mandarlo per l’elleboro ad Anticira.

  18. [p. 104 modifica]Giuseppe Lattanzio, uomo d’ingegno mediocre nativo di Nemi nella campagna di Roma, dov’è il lago Nemorino, per cui più sotto il poeta lo chiamerà galeotto di Nemi cioè barcajuolo. Perseguitato per opinioni politiche, si riparò a Milano, centro della Cisalpina; dove si diede a tradurre e scarabocchiar romanzi. Fu oratore pubblico, poeta e giornalista. Scrisse in opposizione alla Mascheroniana un assai cattivo poema in terza rima intitolato l’Inferno, che non fu terminato, dove tra gli altri caccia tra i dannati il celebre generale Lahoz, e tartassa il Monti e più altri. Ma il Monti lo ripagò ad usura, perseguitandolo acerbamente con rabbia proprio letteraria, onde il povero Lattanzio n’ebbe a soffrire non poco. Avendo egli lasciato travedere nel suo Corriere delle dame, che Napoleone si farebbe re d’Italia, fu dal governo inviato alla Senavra, grande ospitale dei pazzi suburbano, dove, trattenutovi per qualche mese, fu per diventar pazzo davvero: perciò il poeta dirà più innanzi che la fune e la Senavra impetra. Una persona che ha avuto qualche parte in quell’affare ci assicura che il Lattanzio fosse di accordo col governo nell’enunciare quella sua notizia, la quale doveva servire siccome di scandaglio per conoscere la disposizione degli animi. Egli morì in Roma nel 1822.
  19. [p. 104 modifica]Genuzio e Saturnino, due de’ più sediziosi e de’ più sanguinarj tribuni di Roma. Quest’ultimo, nemico implacabile del senato, fece uccidere nel modo il più barbaro il patrizio Gratidiano, e mantenevasi più migliaja di sicarj disposti ai feroci suoi ordini, cui chiamava il suo antisenato.
  20. [p. 105 modifica]Allude ai tragici casi della famiglia di Edipo.
  21. [p. 105 modifica]Adelasio di Bergamo fu membro del direttorio cisalpino e ardente propugnatore delle nuove idee repubblicane. Trovò non di meno grazia appo gl’imperiali per aver loro svelato i depositi del denaro e degli archivj della repubblica. Egli era di un carattere debole, ed un bizzarro miscuglio d’idee liberali e cappuccinesche. Finì in fatti col farsi frate nel convento di S. Giustino in Padova, dove morì poco dopo.
  22. [p. 105 modifica]Conte Giovanni Paradisi di Reggio. Fu membro del direttorio della Cisalpina e in conseguenza tradotto a Cattaro dagli austriaci nel 1799. Fu in seguito ai Comizj di Lione; e nella formazione del regno d’Italia, creato, per le profonde sue cognizioni di matematica, direttore delle acque e strade, decorato di molti ordini, di cariche illustri e in ultimo della presidenza del senato: era anco membro dell’Istituto Italiano e morì in patria nel 1822. Il padre Gregorio Fontana delle Scuole pie, celebre filosofo e matematico, era nativo di Nogarola nel Tirolo italiano. Fu pubblico professore a Sinigaglia, a Bologna, a Milano, finalmente a Pavia, dove fu anco nominato direttore della Biblioteca. Napoleone, che amava gli uomini dotti e i matematici in ispecie, lo distinse molto e lo fece nominare [p. 106 modifica]membro del Consiglio Legislativo della Cisalpina, per cui fu egli pure tratto a Cattaro. Siccome egli aveva anticipatamente pubblicato qualche cosa contro la rivoluzione di Francia, perciò l’opera sua fu abbruciata insieme colla Bassvilliana, e il partito fanatico tentò, ma inutilmente, di cacciarlo dal suo posto. Durante la repubblica italiana diventò membro del collegio elettorale dei dotti. Morì in Milano il 24 agosto 1803.
  23. [p. 106 modifica]Conte Carlo Caprara di Bologna il quale fu pure condotto a Cattaro per essere stato del direttorio Cisalpino. Fu in seguito grande scudiere del vice re d’Italia. Pietro Moscati milanese, celebre medico e fisico, fu del congresso cisalpino, quindi presidente del direttorio e in seguito relegato a Cattaro, donde fu chiamato quasi subito a Vienna ad assistere l’Arciduca Carlo, che trovavasi ammalato. Ritornato in Italia fu spedito ai Comizj di Lione, e ottenne da Napoleone dignità ed onori e la carica di direttore generale della pubblica istruzione.
  24. [p. 106 modifica]Conte Costabili-Containi di Ferrara membro del direttorio Cisalpino, in seguito deputato ai Comizj di Lione e per ultimo consigliere di Stato e intendente dei beni della corona del regno d’Italia, anch’egli deportato a Cattaro. Luigi Lamberti di Reggio in Lombardia, dotto ellenista e letterato. Fu prima segretario del legato pontificio a Bologna; trasferitosi in seguito a Roma, strinse amicizia col celebre Ennio Quirino Visconti e col Monti. [p. 107 modifica]Venuto a Milano durante la Cisalpina fu membro del corpo legislativo ed uno de’ più validi oppugnatori della strana legge proposta in favore della poligamia. Trasportato a Cattaro cogli altri colleghi, si occupò in ricerche scentifiche. Di ritorno in Italia fu nominato dell’Istituto italiano. Tra le altre sue opere, pubblicò alcune dottissime illustrazioni filologiche sul testo di Omero delle quali si valse assaissimo il Monti per la sua traduzione dell’Iliade. Morì in Milano verso la fine del 1813. Tutti costoro, tranne l’Adelasio furono grandi amici del poeta: e l’abate Beccattini, cattivo scrittore di quei tempi, fu ’l miserabile che gli denunciò insieme ad altri molti al commissario imperiale Cocastelli.
    V. Apostoli, lettere Sirmiensi.