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Mi pareva che, qualche altro più robusto zampillo, dicesse invece la bellezza delle cime nevose, dalle quali traeva la piccola esistenza, cantando un inno al bianco che fendeva l’azzurro del cielo, e riproducesse nel suo cadere il prolungato ululo del vento fra i massi!

E un terzo che più forte rompeva fra le roccie, mi narrava forse il boato delle valanghe, e poi un altro, un altro ancora, che si staccava da quello, riproduceva il belar delle pecore, il muggito delle vacche, l’agreste canto del guardiano e forse anche l’uggiolare del cane, il colpo morto di un pungolo.

E gli altri più teneri fili non parlavano dell’erba, dei fiori, e nel loro candido scintillare, non ritraevano l’immagine delle stelle alpine?

Poi, tutte, correndo alla medesima arteria, rombavano insieme, fermando in un solo concento tutto quanto riguardava la montagna, e, figlie dirette di essa, ne dicevano le glorie e gli orrori.

Ma le cascate, fumando il loro diafano vapore, si rivestivano dei colori dell’iride; e anche quelli parevano un ricordo del monte; poichè c’era il bianco delle vette, il violaceo delle valli lontane, il verde dei pochi strati d’erba, il rosso a ricordare catastrofi sanguinose, il giallo immagine del misero fieno, l’indaco delle sfumature crepuscolari e l’arancio del primo poetico bacio di sole.

Questa fusione così ideale, e forse troppo piena di poesia, sognavo io camminando verso le ca1 scale del Lanterna.

G. NoLLi. In Valmaleneo — 7