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Le gamme del suono e della luce, che s’erano nel mio interno sposate, mi avevano conquistato così che non ammiravo più nulla di quanto m’era d’intorno.

Dinnanzi a me, sul piccolo sentiero, dovevano, come acrobati invidiabili, descrivere piccole parabole le locuste, al lato destro i boschetti dovevano invitarmi alle loro ombre odorate, e, più dietro, le montagne, velate da una sottilissima nebbia, dovevano forse più del solito, perchè mattiniero, accennarmi qualcosa con lo svettar lento dei pini; ma io non vedevo, continuando la mia strada, che le cascate cinte da un nimbo di luce, non ne sentivo che il suono.

E finalmente arrivai.

In alto, sulla montagna, spiccava una zona di sole e, sotto, verso la metà del declivio, quasi uscisse dal cuore delle roccie, s’innalzava come tendendo al raggio d’oro, una nube bianchiccia e crosciava giù verso le viscere della terra um gran getto d’acqua, invisibile quasi per l’opacità della nebbia.

Il quadro era tutto qui; grandioso, bello forse per gli altri, ma non per me che l’avevo immaginato assai più grande e più bello.

La delusione mi rattristò, rimasi dinnanzi la realtà fredda delle cascate, provando il senso dil qualche cosa che si sfasciasse, dove e come non sapevo, poichè tutte le mie attività erano assorbite dal nuovo e non aspettato nè desiderato paesaggio.

Mi scossi, volli, come Narciso, ripiegarmi nel