Importante scoperta del famoso tarèno di Amalfi/Capitolo II
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Seneca, de benefic. |
Capitolo II.
Del tarèno amalfitano di argento.
Questa monetina rediviva, appartenutasi un tempo al florido commercio amalfitano, merita al presente tutta la nostra attenzione; epperò n’esporremo alcuni particolari poco o nulla conosciuti finora.
Nulla havvi di più semplice e chiaro, quanto il tipo del nostro tarèno, già delineato a fac-simile sul frontispizio. Lo stato perfetto di conservazione e la chiarezza della sua leggenda, tutta estensiva e senz’alcuna abbreviatura, mentre ne accrescono il pregio, dispensano l’osservatore dalla pena d’interpretazione.
Esso è del peso di acini sette — L’insieme della moneta rappresenta in ambe le facce due cerchi concentrici risaltati a mo’ di puntini o globetti, con propria leggenda patria, e nel mezzo dell’àrea vi campeggia una piccola Croce; simbolo che ricorda la pia istituzione de’ spedalieri gerosolimitani di S. Giovanni (poi cavalieri di Malta). Nel diritto v’è l’epigrafe CIVITAS e nel rovescio AMALFIA — Ecco una moneta assolutamente autonoma, la quale circolava anco nell’impero greco e nell’Africa per equilibrio di commercio, e si eguagliava nel cambio di que’ popoli.
Però i nostri tarèni non furon di peso e di bontà uguali alle monete greche, siccome uguali lo erano per la forma piana. Ed è degno di osservazione che dieci secoli fa gli Amalfitani prestaron l’uso di questa unità monetaria a buona parte della Francia e specialmente alla Provenza ed alla Linguadocca.
Nelle Ducee di Napoli, di Gaeta e di Sorrento spesso facevasi pagamento di tarèni amalfitani ne’ contratti pubblici di compera, di vendita, di mutuo ecc.; e principalmente in Napoli, dove non eravi allora altro miglior numerario1. Questi stessi tarèni circolavano ed erano altresì in voga negli Stati de’ principi longobardi di Benevento, di Salerno e di Capua2, malgrado la poca simpatia ch’avevano que’ dinasti verso la Ducea di Amalfi.
Avvegnaché questa moneta fosse conteggiata ed accettata per patto ne’ contratti pubblici o privati, tutta volta lasciossi da principio alla volontà altrui il fare de’ pagamenti con qualsivoglia altra corrente. Di fatto, in una pergamena amalfitana dell’anno 860 si dà per esazione la moneta beneventana del tremisse di Arechi3; ed in due altre scritture degli anni 940 e 984 vedesi riscossa per pagamento la moneta de’ mancosi d’oro4. Vero è che in ogni contratto la pena di contravvenzione veniva comunemente imposta con moneta di bizanti5.
Chi poi domandasse, in quale anno o epoca determinata sia stato battuto il tarèno d’ argento che da noi si possiede? La risposta non sarebbe facile; dappoiché diuturna fu appo gli Amalfitani la coniazione di essi tarèni e principalmente di quelli d’argento. E ben si dimostra da alcuni antichi documenti che negli anni 1142, 1165 e 1221, erano stati ivi coniati de’ nuovi tarì tareni novi6.
Caduta la Repubblica di Amalfi (1131), dopo dugentonovantadue anni di esistenza, sotto lo scettro di re Ruggiero, ei per benemerenza speciale confermò agli abitanti le antiche loro leggi e consuetudini municipali, non che il privilegio di coniare la propria moneta siccome per l’addietro, conservando altresì a quest’antica Signoria l’onore e ’l titolo di Ducato.
Tale concessione di continuar a monetare data da Ruggiero agli Amalfitani fu certamente del tutto larga e peculiare; ed ei seppe poi mantenerla, non ostante che nell’Assemblea da lui tenuta in Ariano (1140) avesse sotto severe pene proibito di spendere nel regno le monete appellate romesine, ed in vece ivi introdotti i nuovi ducati e le monete erose7. Certo è che fin allora nessuna legge avea obbligato i particolari a conteggiare, come dicemmo dinanzi, con una o con un’altra moneta nazionale o straniera. Sotto la dominazione sveva di Sicilia, i tarì di Amalfi seguitarono ad esser battuti sino all’anno 1221 in cui il sincrono cronista di S. Germano scrivea: Tarèni novi cuduntur Amalfiae. Imperciocché lo stesso cronista nell’anno seguente soggiunse che l’imperator Federico II (allor regnando) aboliti i tarì di Amalfi, prescrisse ciascuna merce vendersi coi nuovi denari di Brindisi secondo l’arbitrio di sei probi uomini8. Ma quali fossero per avventura queste nuove monete di Brindisi è malagevole il chiarire. Né tampoco riesce facile il conoscere quale fosse stato il valore de’ tarì amalfitani sotto la signoria dello stesso Federico II, per difetto di acconci documenti. Impertanto, comechè questo imperatore avesse prescritto di non più monetarsi i tarì di Amalfi, pure non poteron cessare di aver corso quelli ch’egli ed i suoi predecessori avean coniati: e però addivenne che in tutto od in gran parte i medesimi ebbero pieno corso anche sotto i re Angioini, come raccogliesi da molteplici scritture9.
Ma di qual valore fosse stato il tarèno o tarì amalfitano ne’ tempi di Repubblica o de’ primi duchi Normanni, affatto s’ignora; imperocché nessun documento vi ha, il quale potesse almeno con qualche probabilità chiarirlo. La stessa oscurità di ragguaglio intorno al medesimo troviamo nelle carte pubblicate durante la dominazione de’ re Svevi di Sicilia. Apprendiamo per altro dalle carte degli Angioini successori loro immediati, che il tarì amalfitano di argento, equivalente a grana 12 ½, ed ora a grana 13 ed un terzo, ragguagliavasi per il passato a tre denari, e ciascun di essi contavasi per quattro grana. Nondimeno variando sempre il valore del tarì amalfitano, giunse talvolta ad essere ragguagliato fino a grana 20, siccome scorgesi da’ registri del regio Archivio10. Non v’ha certamente chi ignori che il valore dell’argento a que’ tempi era del quadruplo almeno più elevato di quel che fu dopo la scoperta del nuovo mondo11. Regnando Giovanna I. i tarì amalfitani vennero ridotti a tarì comuni di 30 per oncia, ed a 2 carlini per tarì12.
Avvegnaché non sembri doversi tenere che l’oncia (partita in trenta tarì) di fatto fosse stata battuta; tuttavia è di sicuro che più d’un secolo dinanzi alla fondazione della Monarchia di Puglia e di Sicilia, già tra noi contrattavasi sovente per once. Probabilmente dobbiam intendere per l’oncia battuta e non di peso; perocché troviam di frequente nelle pergamene di quel tempo l’espressione uncias auri monete ..... bonas et juste ponderatas. La qualificativa di once buone alla sola oncia moneta è applicabile. L’oncia amalfitana di peso e non battuta ragguagliavasi a 22 tarì e mezzo, sotto il governo di Giovanna II.; trovandosene fatta menzione nel testamento di Linella de Campulo di Amalfi, moglie del maestro Nicola de Marco, in cui lo istituì per erede suo nel 142613.
Co’ tarì di Amalfi alcune multe vennero determinate ed alcune retribuzioni, non solo ne’ tempi angioini14, ma durante altresì la dinastia aragonese: ne’ quali ultimi tempi, ciascuno di essi non oltrepassava il valore di un carlino, o al massimo quindici tornesi15. I medesimi nostri tarì venivano per lo più specificati ne’ contratti con tale formola: Tareni boni de Amalfia diricti et pesanti de uncia quinque de auro et quinque de argento, ana tareni quatuor per solidum. E ciò serviva facilmente per assicurare la perfetta lor qualità e giusto peso.
Ed ora cessando di parlare del tarì, ci resta a dire alcuna cosa de’ soldi d’oro di Amalfi, già creduti non reali ma immaginarî — Ben sappiamo che il soldo legale longobardo era quello di argento, ed importava quattro silique, ciascuna delle quali valeva tre danari16. Su tale argomento il Muratori ebbe a spendere non poche parole, che nè punto nè poco riguardano i nostri soldi amalfitani17. Le carte de’ tempi longobardi e normanni ci porgono continuati esempi di pagamenti e donazioni fatti di soldi d’oro di Amalfi, i quali venivano per convenzione ragguagliati per quattro tarì amalfitani, quorum (solidorum) quisque habeat de tari boni pesanti de moneta Amalfiae ana tari quatuor per solidum; espressione frequentissima che incontrasi nella lettura de’ contratti qui celebrati in quell’età.
Leggiamo pure nella cronica di Montecassino, che il normanno principe Roberto Guiscardo tra le ampie largizioni fatte a quella basilica, donolle pure mille solidos Amalfitanos, ed in un’altra volta quadrigentos solidos Amalfitanos18. E questi stessi vengon rammentati nelle Consuetudini Amalfitane, sotto il titolo de dandis dotibus.
Da principio i soldi d’ oro si ragguagliavano a quattro tarì di Amalfi, come dinanzi ricordammo, e ciascuno di quelli equivaleva circa grana 48 (ossia lire 2,04); ma poi aumentatosi il valore di essi tarì, conseguentemente si accrebbe anche quello del soldo a grana 54 (lire 2,29) — Ecco adunque bene spiegato il valore del soldo e del tarì amalfitano, troppo tenebrosamente finora trattato — Né qui ci restiamo poi dall’osservare, che un notabile rovescio dovette patire la vecchia moneta d’oro a’ tempi di re Carlo I, e precisamente nel 1279, allorché questo sovrano ordinò a Guglielmo Brunello, quod emanare faciat bannum de mandato regio prohibendo omnem monetam auream, florenos, et duplas aureas, vel aliam cuiuscumque speciei, quae expendantur pro auro rupto, sed tantum expendantur caroleni, augustales, et tareni aurei boni et recti, quos de puro et electo auro cudi fecimus in siclis Nostris; et in qualibet Terra eligantur duo probi divites et sufficientes viri, qui observantiam dicti mandati Regij continue inquirant, et penas exigant, ac monetae interceptae mittantur ad Cameram Regiam castri Salvatoris ad mare de Neapoli quod dicitur Castrum ovi19. Cessando oramai di spendere più tempo e parola intorno al tarì di Amalfi, passiamo ora a discorrere della moneta sua di rame, egualmente rara.
Note
- ↑ Veggasi in appendice il Documento num. I.
- ↑ In centonovantaquattro pergamene dell’archivio metropolitano di Capua (delle quali ne abbiamo un epitome antico) troviamo essersi ne’ contratti quivi fatto continuo pagamento in tarì amalfitani sino all’anno 1294.
- ↑ Vedi Docum. num. II.
- ↑ I mancosi specie di antica moneta d’oro ed anco di argento, che si vuol così denominata, perchè manu cusi, ossia coniati a mano. Di essi fan parola il Du-Cange nel Glossar., il Muratori Dissertaz. sopra le Antichità Italiane, tom. 2, pag. 363. seg., e nelle Antiquit. medii aevi dissert. 28, tom. 2, pag. 792, 801, Guido Zanetti Raccolta delle monete, tom. 2, pag. 373 ecc. — Erano i mancosi del valore di un zecchino veneto: Mancosen, eine Münze, die eben so viel betrug, als jetzo ein zecchin.
- ↑ Il valore del soldo bizanto o bisante di oro, moneta costantinopolitana, sebbene dai trattatisti di numismatica non sia stato precisamente definito, può considerarsi di due parti d’un fiorino d’oro, o di circa ventisei paoli romani (Vedi Zannetti, tom 2, pag. 379. Bologna 1779).
- ↑ Chartolarium Amalphit, ms. apud me fol. 69, 86, ecc.
- ↑ Falcon. Benevent. Chronic, ad an. 1140.
- ↑ Riccard. de S. Germano Chronic. ad an. 1221, 1222.
- ↑ V. Docum. num. III.
- ↑ V. Docum. num. IV.
- ↑ Genovesi, Lezioni di commercio, Tom. 2, cap. 23.
- ↑ V. Docum. num. V.
- ↑ Protocollo di notar Francesco de Campulo di Amalfi, an. 1426-1427, fol. 20, 73.
- ↑ V. Docum. num. VI.
- ↑ V. Docum. num. VII.
- ↑ Lindebrog. in Glossar, vide solidum et siliqua
- ↑ Muratori sulle Antichità Italiane, dissert. 28.
- ↑ Chronic. Cassinens. lib. 3, cap. 57.
- ↑ R. Archiv. in an. 1279. Arca I, maz. 70, num. 1, 2. Precedentemente al suddetto editto, re Carlo avea dato commissione ad Angelo de Vito di Ravello maestro della R.a Zecca d’argento di Castel Capuano di Napoli, quod quilibet carolensis vel duae medaliae ponderent tari 3, gran. 15. Ita quod singuli octo carolenses, vel sexdecim medaliae ponderent unciam auri unam — Ex regest. Carol. I, in an. 1278, lit. C. fol. 13, v.