Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimosettimo

Capitolo ventesimosettimo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimosettimo
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CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.

Continua lo stesso soggetto.

Il giorno appresso partecipai a mia moglie ed ai figliuoli com’io intendeva di convertire i prigionieri; dal che vollero sconfortarmi. E disapprovando intieramente quella impresa quasi vana la fosse ed impossibile, dissero ch’ogni [p. 168 modifica]mia opera sarebbe tornata in detrimento soltanto del mio ministerio.

“Non è vero,” risposi, “ciò che voi dite. Codeste misere genti, sebbene cadute, sono uomini tuttavia: e basta perch’io rivolga loro il mio amore. I buoni consigli ributtati ritornano ad abbellire il cuore di chi li diede; e se le ammonizioni da me compartite non emenderanno coloro, io ne trarrò fuor d’ogni dubbio l’emenda di me medesimo. Se codesti infelici fossero in alta fortuna, mille persone accorrerebbero ad esibersi al servigio loro. Ma io reputo tanto preziosa l’anima di chi è seppellito in orrenda carcere, quanto quella di lui che siede in trono. Però voglio correggerli, se posso, e forse di essi non tutti mi faranno beffe; forse uno ne strapperò dall’abisso, e ciò sarà gran guadagno; perchè non v’ha gemma al mondo che pareggi l’anima di un uomo.”

Dopo queste parole abbandonando i miei figliuoli, scesi nella prigione comune ove i compagni in grande allegria aspettavanmi, ognuno meditando di corbellarmi a sua posta, e prendersi giuoco del buon dottore. Quindi sul bel principio l’uno torsemi a sghimbescio la parrucca; e fingendo d’averlo fatto inavvertitamente, me ne chiese perdono: l’altro in lontananza sapeva si destramente per mezzo i denti sputare cotali farfalloni che piovendo sul mio libro tutto inondavanlo; il terzo si pose a cantare amen con sì soverchia santità, che tutti scompisciaronsi dalle risa ed era al quarto riuscito di ghermirmi bellamente fuor delle tasche gli occhiali. Ma la burla d’un altro ebbe accoglimento più universale ed urli di gioia; perchè colui, veduto come io aveva disposti i miei libri sul tavoliere innanzi a me, pian piano ne tolse via uno, ed in luogo di quello vi sostituì un suo libro zeppo d’oscenità. Io non pertanto feci sembiante di non accorgermi de’ malvagi scherzi di que’ miserabili; ma proseguii tranquillamente; tenendo per fermo, che per una o due volte al più avrebbero fatte eglino le risa grasse; ma svanite quelle, la [p. 169 modifica]serietà de’ miei discorsi sarebbe rimasta. Così in fatti avvenne; e in meno di sei giorni alcuni furono penitenti, attentissimi tutti.

Lieto io medesimo della mia perseveranza e dell’accortezza colla quale io aveva saputo destare alcuna sensibilità in que’ sciagurati sprovveduti d’ogni sentimento morale, me ne lodava; e di poi volsi l’animo all’utilità temporale di loro, procurando di renderne meno trista la condizione.

Fino a quel tempo la loro vita non era stata che un patir fame, poi un crapulare, un tumultuar licenzioso seguíto da amarissimo pentimento. Lasciati in preda all’ozio, gli avresti veduti ogni tratto arrissarsi, giocare a cricca e tagliar turaccioletti pel tabacco. Però da quest’ultima loro industria, vana per sè stessa, mi venne destato il pensiero di proporre a chi ’l volesse un piccolo commercio; questo cioè di fare fuscelli aguzzi pei tabaccai e pei calzolari. Comperavasi quindi a spese comuni il legno; e lavoratolo, vendeansi per cura mia i piuoli: e da questi ogni giorno ciascuno traeva qualche guadagno, che sebbene scarso bastava per sostentarlo.

Nè qui ristette l’opera mia; ma stabilii inoltre de’ gastighi pe’ depravati costumi e delle ricompense per chi mostrava più industria. Di maniera che in meno di quindici dì gli ebbi ad una specie d’umana società ridotti; legislatore me stesso con compiacenza reputando, il quale dalla nativa ferocia aveva menati quegli uomini alla obbedienza, all’amicizia.

Sarebbe desiderabilissima cosa che di tal fatta il legislatore ordinasse le leggi più alla correzione degli abusi che alla severità; e ch’egli di ciò si convincesse, estirparsi i delitti col rendere le pene non familiari, ma formidabili. In vece delle presenti nostre prigioni che o accolgono o fanno elleno stesse rei gli uomini, e nelle quali entrano gli sgraziati colpevoli d’un delitto, e n’escono, se pur vivi, coll’attitudine a commetterne mille; [p. 170 modifica]dovrebbero come in diverse altre parti d’Europa vedersi qui pure de’ luoghi di penitenza e solitari, nei quali l’accusato trovasse tali persone che a pentimento lo riducessero, se e a nuova virtù l’infiammassero, se innocente. Questa, e non la gravezza de’gastighi, è la via per cui in uno stato si emendano i costumi. Nè io direi interamente legittimo il diritto che le umane società si sono arrogate di punire capitalmente colpe leggiere. Chiaro appare avere esse codesto diritto ne’ casi d’omicidio; dover nostro essendo il conservare e difendere noi medesimi, e togliere quindi la vita a chiunque l’altrui vita non rispettò: e contro l’omicida la natura tutta in armi si solleva. Ma non così contro del ladro: perocchè la legge naturale non dà a me diritto d’uccidere chi mi ruba il cavallo; perchè proprietà mia ella non dice essere il cavallo che colui mi toglie, ma tanto mio quanto del ladro. Se vi ha dunque diritto d’ucciderlo, questo non può derivare che da un contratto sociale per cui sia stabilito che chi priva altrui di un cavallo debba morire. Ma tale contratto è nullo; perchè niun uomo ha diritto di vendere la propria vita o di comperare l’altrui, conciossiachè nessuno ne sia egli il padrone: ed è sproporzionato; perchè assegna gravissima pena a scarso fallo; meglio essendo che vivano due uomini, di quel che non sia che l’uno cavalchi. Nè giudice alcuno ne’ moderni tribunali vorrebbe approvare un contratto di tal sorta tra due cittadini. Ora quel contratto che è invalido tra due uomini, perchè nol sarà tra cento, tra cento mila? In quella guisa che dieci milioni di cerchi non faranno mai un quadrato; tutte insieme le voci di cento e cento milioni di uomini non potranno mai dare il menomo fondamento alla falsità. Tale è la voce della ragione; e a lei fa eco con libero grido la natura. Però i selvaggi dalla sola legge naturale governati rispettano teneramente l’un dell’altro la vita, e rade volte e solo il sangue vendicano col sangue.

I nostri antichi padri, i Sassoni, feroci com’eglino [p. 171 modifica]erano in guerra, in pace poche morti tolleravano. E in tutti i governi nascenti ne’ quali è impresso ancora profondamente il marchio dello stato naturale da cui sortono, quasi nessun delitto è reputato capitale.

Ma solo nel mezzo de’ cittadini di una società soverchiamente incivilita, le leggi penali, poste in mano del ricco, gravitano sul poverello. Come gli uomini così i governi invecchiando, bisbetici diventano e rabbiosi. E quasi come se le ricchezze coll’accrescersi più stimabili e care si rendessero, e i maggiori tesori più timori partorissero; ogni giorno con nuove leggi vengono da noi protette le cose nostre, e muniti, per così dire, i nostri averi d’una palificata di forche onde atterrirne ogni assalitore.

Io non so dire se più pel troppo numero delle leggi penali, o per la licenza popolare accada che nella mia patria veggansi ogni anno più rei di quel che non ne abbia mezza l’Europa tutta unita: e forse è da ascriversi ad entrambe del pari quelle cagioni, perchè madri entrambe di delitti. Allorchè una nazione punisce con uguali pene alla rinfusa differenti gradi di colpe, il popolo non iscorgendo distinzione ne’ gastighi, non distingue neppure i misfatti: e nulladimeno codesta distinzione è l’antemurale della pubblica moralità. Di qui la moltitudine delle leggi produce nuovi vizi; e i nuovi vizi sempre la necessità di nuove leggi.

Però ottimo provvedimento sarebbe se i magistrati, anzi che inventar nuove pene pel vizio, anzi che ristringere i legami della società con tal veemenza fino a rischio di produrre una convulsione che poi schiantili del tutto, anzi che spingere a morte i rei come inutili enti prima di provarne l’utilità, anzi che rivolgere a vendetta la correzione; tentassero, dico, i magistrati di prevenire con sagaci arti i delitti; e fosse protettrice la legge, non tiranna del popolo. Vedrebbesi allora che all’anima di tali creature, spregiata come vilissima scoria, non mancava che la [p. 172 modifica]mano esperta d’un affinatore. Vedrebbesi che tanti meschini, spinti a lunghi supplicii dall’altrui fasto orgoglioso il quale d’ogni menoma offesa si sdegna, potrebbero, se convenientemente trattati, in difficili tempi servire di propugnacolo allo Stato. Vedrebbesi come i volti così anche i cuori loro somigliare ai nostri; e non v’essere sì trista mente cui ad emendare non valga la perseveranza. E vedrebbesi da ultimo che l’uomo può metter fine ai delitti senza bisogno della mannaia; e che ad assodare la nostra sicurezza poco sangue fa d’uopo.