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capitolo ventesimosettimo. | 169 |
serietà de’ miei discorsi sarebbe rimasta. Così in fatti avvenne; e in meno di sei giorni alcuni furono penitenti, attentissimi tutti.
Lieto io medesimo della mia perseveranza e dell’accortezza colla quale io aveva saputo destare alcuna sensibilità in que’ sciagurati sprovveduti d’ogni sentimento morale, me ne lodava; e di poi volsi l’animo all’utilità temporale di loro, procurando di renderne meno trista la condizione.
Fino a quel tempo la loro vita non era stata che un patir fame, poi un crapulare, un tumultuar licenzioso seguíto da amarissimo pentimento. Lasciati in preda all’ozio, gli avresti veduti ogni tratto arrissarsi, giocare a cricca e tagliar turaccioletti pel tabacco. Però da quest’ultima loro industria, vana per sè stessa, mi venne destato il pensiero di proporre a chi ’l volesse un piccolo commercio; questo cioè di fare fuscelli aguzzi pei tabaccai e pei calzolari. Comperavasi quindi a spese comuni il legno; e lavoratolo, vendeansi per cura mia i piuoli: e da questi ogni giorno ciascuno traeva qualche guadagno, che sebbene scarso bastava per sostentarlo.
Nè qui ristette l’opera mia; ma stabilii inoltre de’ gastighi pe’ depravati costumi e delle ricompense per chi mostrava più industria. Di maniera che in meno di quindici dì gli ebbi ad una specie d’umana società ridotti; legislatore me stesso con compiacenza reputando, il quale dalla nativa ferocia aveva menati quegli uomini alla obbedienza, all’amicizia.
Sarebbe desiderabilissima cosa che di tal fatta il legislatore ordinasse le leggi più alla correzione degli abusi che alla severità; e ch’egli di ciò si convincesse, estirparsi i delitti col rendere le pene non familiari, ma formidabili. In vece delle presenti nostre prigioni che o accolgono o fanno elleno stesse rei gli uomini, e nelle quali entrano gli sgraziati colpevoli d’un delitto, e n’escono, se pur vivi, coll’attitudine a commetterne mille; dovreb-