Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimottavo
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CAPITOLO VENTESIMOTTAVO.
Erano oramai trascorsi quindici giorni di prigionia, nè in tutto quel tempo io aveva mai veduta la mia cara Olivia, ad onta ch’io ne sentissi ardentissima brama. Però manifestato quel mio desiderio alla moglie, il dì vegnente di buon mattino entrò nella mia camera la povera fanciulla appoggiata alle braccia della sorella: e sembrava sì fattamente mutato da quel di prima l’aspetto di lei, ch’io ne fui atterrito. Erano fuggite le grazie innumerevoli che un tempo sedevano sulla persona sua; e la mano di morte pareva che avesse sfigurato quel volto a bella posta per istraziarmi l’anima. Affossati erano gli occhi, tesa la fronte, e d’un mesto squallore ricoperte le guance.
“Oh quanta gioia ho del vederti, o mia Olivia!” diss’io. “Ma perchè sei tu tanta sbattuta? Viscere mie, se m’ami, perchè ti lasci tu dal cordoglio vincere, e consumi sì miseramente una vita a me cara come la mia propria? Datti pace una volta, e spera un più felice avvenire.”
“Padre mio, tu sempre fosti meco pietoso. Ma delle mie pene questa è la maggiore, il non avere io speranza di poter mai con te dividere la felicità che mi prometti. Non v’è più in terra felicità per me; e sospiro il momento in cui sarò liberata da questo mondo ove tutto è sventura per la tua figliuola. In vero, io desidero che tu ti sottometta alla fine al signor Thornbill; e con ciò forse lo indurrai a pietà e il saperti io meno sciagurato, o padre mio, mi farebbe morire consolata.”
“No, carissima, non sarà mai ch’io m’induca a confessare essere la figliuola mia una femmina prostituita; perchè, quantunque abbominevole possa parere al mondo il tuo fallo, io non a cuor perverso, ma a credulità tua troppa l’attribuisco. Nè credere, Olivia mia, ch’io sia infelice in questo luogo per quanto orrendo tu ’l vegga: e sta’ certa che finchè tu, vivendo, farai beati i miei giorni, io non acconsentirò mai che colui ti renda più dolente collo sposarsi ad un’altra donna.”
Partita la mia figliuola, il mio compagno di carcere stato presente a quell’abboccamento, con alquante ragioni biasimò la mia ostinazione nel non volere con poche umili parole guadagnarmi la libertà. Disse non essere da sacrificarsi il restante della famiglia alla pace di un solo individuo, e di quello appunto che mi aveva offeso; e non sapere egli con quanto senno io m’opponessi all’unione dei sessi, rifiutando di prestare il mio assenso ad un matrimonio cui io non poteva in conto veruno impedire, comecchè m’ingegnassi di farlo malauguroso.
“Tu non conosci,” diss’io, “l’uomo che ci opprime. Ma so ben io che qualunque sommessione dal canto mio non mi procaccerebbe nè un’ora di libertà; poichè in questa camera istessa ov’io parlo un suo debitore, siccome a me vien narrato, morì d’inedia l’anno scorso. Ma s’anche il soggettarmi a’ suoi voleri e l’approvar le sue nozze valesse a trarmi di qui e collocarmi nel più bello de’ suoi palagi, io nol farei; perchè una voce mi grida che quello sarebbe un prestar consentimento all’adulterio. Finchè vive la mia figliuola, legittime non parranno mai agli occhi miei altre nozze di lui. Ma, morta ch’ella fosse, sarei vilissimo uomo, se volessi tentare, per segreta ira, di disgiungere chi desidera unirsi. Per quanto infame egli sia, bramerei allora ch’ei si sposasse, onde prevenire le future disonestà sue. Ma non sarei io di presente il più crudele dei padri, sottoscrivendo un contratto che strappando me dalla prigione manderebbe in tomba la mia figliuola? E per evitare io un’angoscia, dovrei di mille punte trafiggere il cuore della misera?”
Rimase egli convinto dalle mie parole essere giustissimo il mio rifiuto: poi addolorato mi disse, che la salute della Livia parevagli cotanto distrutta, che ben poco tempo ancora di prigionia mi restava a temere. Indi, proseguendo il suo ragionamento domandommi perch’io, senza chiedere alcuna scusa al nipote, non ricorressi allo zio di lui, a quel sì lodato onest’uomo che per tutta Inghilterra aveva voce di giusto. Suggerimmi d’indirizzare al signor Guglielmo una lettera che lo mettesse a parte di tutti i mali trattamenti usati vêr noi dal nipote, sicuro che in tre giorni n’avrei ottenuta una savia risposta. Però lo ringraziai del buon consiglio; e determinato io di mandarlo tosto ad effetto, non avendo nè carta nè danaro mio per comperarla, egli cortesemente mi provvide d’ogni cosa.
Però, tutti que’ tre giorni l’ansietà di sapere come sarebbe stato accolto il mio scritto, mi travagliava con acerbo batticuore. E a quello si aggiungevano l’importunità con cui mi sollecitava mia moglie a sottopormi ad ogni patto ai voleri di Thornhill piuttosto che rimanere incarcerato, e le tristissime novelle che mi si recavano ogni momento della inferma mia figliuola. Venne il terzo dì, venne il quarto; ma niuna risposta alla mia lettera. I lamenti d’uno sconosciuto uomo contro di un nipote prediletto non era da credere che dovessero trovare fortuna presso uno zio amantissimo; e questa speranza mia, insieme colle precedenti tutte, svaniva. Quantunque però i disagi della prigionia e la malsana aria di quel luogo cominciassero a prostrare le mie forze, e andasse sempre più peggiorando la spalla scottata, la mente tuttavia dignitosa sostenevasi. Sedevano i miei figliuoli intorno a me sdraiato su poca paglia; ed ora a vicenda leggevano, ora udivano attenti le mie ammonizioni e lagrimavano. Ma la salute d’Olivia illanguidiva più assai della mia; e di ciò il cuore mi scoppiava più crudelmente ogn’istante che a me si recavano novelle di lei. La quinta mattina dopo la lettera da me inviata al signor Guglielmo Thornhill, fui spaventato dall’avviso che la misera aveva perduta la favella; e questa fu la prima volta che la prigione m’increscesse davvero. Si struggeva l’anima mia del desiderio d’uscire dall’oscuro carcere, volare al letto della cara figliuola, confortarla, alleggerire con soavi parole gli affanni di lei, incamminarla vêr Dio e raccoglierne l’ultimo sospiro. Corre un altro e mi narra ch’ell’è moribonda. Ahi sciagurato me, privo della meschina consolazione di poter piangere sul capo della fanciulla! Venne finalmente il mio compagno di prigione coll’estremo annunzio: “Abbi pazienza, ella spirò.”
La mattina appresso tornò Jenkinson e trovommi attorniato da’ miei bambini, sola compagnia a me rimasta, li quali, tutte le innocenti lor cure ponevano in opera per consolarmi.
“E non è ora fatta un angelo la sorella?” diceva il maggiore; “di che dunque, o padre, ti affliggi? Vorrei pur io fuor di questo orrendo luogo esser un angelo insieme al mio genitore.” — “Sì davvero,” esclamò il più piccino, “il cielo ov’ora è la Livia, è un luogo assai più bello di questo, e vi son solamente buone genti; ma qui non veggonsi che cattivi.”
Il signor Jenkinson interruppe que’ loro semplici discorsi, per dirmi che, morta essendo la mia figliuola, rivolgessi ogni mio pensiero al restante di mia famiglia, e procurassi di salvare la mia vita che di dì in dì declinava per gli stenti e l’inedia.
Aggiunse egli essere dover mio il rinunziare ad ogni orgoglio, ad ogni privata collera pel bene di loro che da me aspettavano sostentamento; e giustizia e ragione comandare a me ch’io studiassi ogni maniera di rappattumarmi col mio padrone.
“Lode a Dio,” risposi, “non è orgoglio più nel mio cuore, e detesterei me medesimo se vi covassi favilla ancor di superbia o d’ira. Per lo contrario, essendo stato già mio parrocchiano colui che m’opprime, io accolgo speranza di potere un dì presentare l’anima di lui monda all’eterno tribunale. Non l’odio io no; e quantunque ei m’abbia tolto ciò ch’io teneva più caro de’ suoi molti tesori, quantunque ei m’abbia lacerato l’animo, e trattomi in infermità gravissima e quasi al sepolcro, ti giuro ch’io non bramo vendetta. Però son pronto ad approvare i suoi sponsali; e se grata può a Thornhill riuscire la mia sommissione, ei sappia ch’io dolgomi d’ogn’ingiuria qualunque, con cui io gli abbia mai fatta offesa.”
Il signor Jenkinson presa la penna e l’inchiostro, scrisse la scusa quasi nelle stesse parole da me proferite; ed io vi sopposi il mio nome. Quindi mandai mio figliuolo a portare lo scritto allo scudiero, il quale allora abitava nel suo castello: e dopo sei ore ritornò Mosè con una risposta verbale. Insolenti i valletti e sospettosi non gli volevano accordare ch’egli venisse innanzi al padrone: ma alla fine, vedutolo per buona fortuna uscir di casa per alcune sue occorrenze, come colui ch’era tutto in faccende pel matrimonio che doveva in tre dì celebrarsi; corsogli egli dietro e con umili modi salutatolo, gli aveva consegnata la lettera. Letta quella, il signor Thornhill gli disse essere tarda oramai e vana ogni sommessione, sapere egli aver noi avuto ricorso a suo zio, dal quale eravamo stati col meritato disprezzo ributtati, e che per altro ogni nostra domanda doveva d’allora innanzi rivolgersi al procuratore e non a lui. Ma non pertanto avvertì, che avendo egli in buon conto la prudenza delle due fanciulle, quelle sarebbero state le più gradite interceditrici.
“Siati argomento questo una volta,” diss’io al compagno “della ribalderia del mio oppressore. Vedilo motteggevole insieme e crudele. Ma, mi malmeni egli pure a sua posta. Libero sarò io quanto prima a dispetto delle sue catene; perocchè mi vo accostando ad una abitazione che più luminosa mi appare quanto più me le avvicino. Questa speranza allevia i miei patimenti; e quantunque a me dolga di lasciare dopo di me una famiglia d’orfanelli priva di soccorso, pure non saranno que’ miseri, io spero, dimenticati da tutti. Avravvi forse un amico che per amore del loro povero padre vorrà assisterli; e forse alcuni per amore del padre universale è celeste porgeranno caritatevolmente aiuto a que’ malarrivati.”
In così dire, ecco entrare mia moglie che io non ancora aveva quel giorno veduta, tutta terrore gli sguardi e l’andamento, e sforzantesi di parlare, ma parlar non potendo. “E perchè, amor mio,” le dissi, “vuoi tu raddoppiare col tuo il cordoglio mio? Se niuna scusa vale a commuovere il severo nostro padrone, s’egli mi ha condannato a morire in questa stanza lugubre, se noi abbiamo perduta una figliuola amatissima, avrai conforto non pertanto dall’amorevolezza degli altri tuoi fanciulli quand’io più non sarò.”
“Ahi sì, perduta un’amatissima figliuola,” gridò ella, “abbiam noi! La cara mia Sofia se n’è ita, strappata dal nostro seno, rapita da scellerati assassini.”
“Come è ciò?” esclamò il mio compagno: “madamigella Sofia da scherani rapita?” Ella non rispondeva che con un affissar d’occhi e un gran fiume di pianto. Ma la sposa d’un prigioniero venuta seco lei più distintamente ci narrò il caso. Andava quella donna in compagnia di mia moglie e della figliuola spasseggiando per la via maestra fuori del villaggio: quando un calesso da posta tirato da due cavalli venne loro dietro; e giunto ov’esse erano, fece alto. Immediatamente un gentiluomo ben vestito, tutt’altri però che Thornhill, scese a terra; ed afferrata la fanciulla attraverso la cintura, strascinolla a viva forza nel calesso quindi ordinato al postiglione che toccasse di sproni, in un batter d’occhio fur lungi.
“Ecco,” gridai com’ebbi ciò udito, “ecco posto il colmo alle mie miserie: nè v’ha cosa del mondo che possa accrescere un’altra sciagura alle mie tante. Oh non una mi resta delle mie figliuole! Non una me ne lascia quello spietato! Ella era nel cuor mio, bella come un angelo, e al par quasi d’un angelo savia. Ed ei me l’ha tolta!”
Per lo dolore mia moglie sarebbe al suolo caduta, se i circostanti da me pregati non le avessero prestato sostegno. Ripigliato ella allora animo alcun poco, a me si rivolse con queste parole: “Più di me, o caro, hai d’uopo tu di conforto. Sono grandi le nostre sventure; ma, e queste sopporterei e maggiori, s’io almeno te vedessi in più tranquillo stato. Tolganmi pure e figliuoli e tutto, purchè te non mi tolgano.”
Procurava Mosè di calmare la nostra angoscia, e ci pregava di non iscorarci interamente, volgendo la speranza a più lieto avvenire. “O figliuolo mio,” gli risposi, “gira lo sguardo per tutto l’universo, e cerca se vi rimanga una felicità per me. Non è egli spento ogni raggio di speranza? O s’uno ne vedi, non è egli oltre la tomba?”
“Buon padre, un momento di consolazione forse ancora ti resta, e ne sarà forse cagione una lettera or ora giunta dal mio fratello Giorgio.”
“Che di’ tu mai? Sa egli quel poveretto le nostre tante traversie? Deh ch’ei non le abbia a dividere con esso noi!”
“Sì, sì, o padre, egli è contento, allegro, felice. Non leggi che buone novelle nella lettera di lui. Egli è il favorito del suo colonnello il quale gli promette la prima luogotenenza che vacherà.”
“Ma lo sai tu di certo?” esclamò mia moglie: “sei tu sicuro che niun guaio l’ha colto?”
“No, o madre, nessun guaio per verità. Vedrai tu stessa la lettera, e n’avrai gran gioia, la consolazione maggiore che in tali frangenti ottenere si possa.”
“Ma sarà scritta proprio da lui la lettera? Sei certo ch’egli sia felice davvero?”
“Qual dubbio, mamma mia, aver puossi di ciò? Egli è felice ora; e sarà un dì sostegno onorato della famiglia.”
“Grazie sieno,” diss’ella, “alla Providenza per avere essa mandata a male l’ultima lettera ch’io gli scrissi. Debbo pur confessare, o marito mio, che quantunque la mano di Dio sia grave sopra di noi per mille versi, in ciò propizia ci è stata. Nell’amarezza dell’ira io aveva scritto al mio figliuolo l’istoria di nostre sventure, scongiurandolo per le benedizioni d’una madre a vendicare suo padre, a vendicar la sorella, a non patire l’onta nostra, se umano cuore egli avesse in petto. Ma grazie sieno di nuovo a lui che governa ogni cosa; la lettera non è capitata alle mani di Giorgio, e tranquilla perciò ritorna l’anima mia.”
“Donna,” diss’io, “mal facesti; s’altri tempi fossero, a te me ne richiamerei con più severe rampogne. Ahi da che tremendo precipizio se’ tu scappata! Quello bastava a spingere te e ’l tuo figliuolo in eterna rovina. E per verità la Providenza ci fu in ciò più benigna che nol siamo noi a noi stessi, serbando quel giovinetto affinchè rimanga egli sovvenitore e padre de’ figliuoli miei quand’io sarò sotterra. Però, moglie mia cara, ingiustamente e contro ogni dovere mi dolgo io dell’essermi tolta qualsisia maniera di consolazione; quando ancora mi resta la conoscenza che ’l mio Giorgio è felice nè sa i nostri tanti travagli, e sussidio egli rimane alla vedova madre, ai fratelli, alle sorelle. Oh che dico io mai! A lui quali sorelle avanzano? Ei non ne ha più una; perdute son tutte, rubate a me tapino, a me tratto in estrema sciagura.”
Interrompendomi Mosè, pregò che io stessi attento alla lettura, ch’egli intendeva di fare della lettera, come di cosa gratissima. Mi vi lasciai piegare finalmente, ed egli così lesse:
- «Onoratissimo signore,
»Per pochi momenti rimuovo la mia immaginazione dai piaceri che mi circondano ad oggetti più soavi per me, al caro focolare della mia paterna casetta. Parmi vederla cogli occhi miei l’innocente famiglia stare a crocchio e sorbire avidamente la lettura di ogni linea di questo scritto; parmi vedere con mio sommo diletto que’ volti nè dall’ambizione sfigurati nè dalla sventura. Ma qual ch’ella sia la vostra felicità, son certo che n’avrete ancora una maggiore in udire come io sia contentissimo della mia presente condizione e fortunato per ogni verso.
»Il mio reggimento ebbe un contrammandato, e non uscirà del Regno. Il colonnello che mi ama quale amico, mi conduce seco in tutte le adunanze da lui frequentate; e dopo la prima visita mi vi si accoglie ogni dì con sempre maggiore benivolenza e rispetto. Ier sera ballai colla dama G***, ed avrei fatta facilmente fortuna con esso lei, se fosse ch’io potessi dimenticare quella persona che voi sapete. Ma egli è sempre mio destino il conservare io memoria degli altri, mentre il più de’ miei amici si scorda affatto di me. E fra questi temo di dovere annoverare anche voi, o signore; perchè egli è già gran tempo ch’io aspetto invano vostre lettere. Olivia e Sofia mi avevano promesso di scrivermi; ma e’ pare che non si ricordino più di me. Dite loro per nome mio ch’elle sono due vere sgualdrinelle, e che mi hanno fatto andare in gran collera. Ma quantunque io abbia voglia di farmi burbero, non so perchè il mio cuore non voglia obbedirmi, non essendo agitato io che da soavissime palpitazioni. Dite loro dunque che ad onta di ogni cosa io le amo teneramente; e siate voi certo ch’io sarò sempre
Il vostro devolissimo figliuolo.»
“In mezzo alle nostre miserie,” esclamai allora, “quanto gradevol cosa non è ella il sapere che uno almeno della famiglia sia esente dalle pene che noi soffriamo! Iddio voglia custodirlo, e mantenere così felice il mio figliuolo, perchè egli possa sovvenire alla sua vedova madre, ed assistere con paterno amore questi due bambini, li quali sono l’unico patrimonio ch’ei dovrà da me ottenere. Difenda egli la loro innocenza dalle istigazioni del bisogno, e siane guida sul sentiero dell’onore.”
Non aveva io ancor finito di dire, quando un frastuono come di tumulto s’udì venire dalla sottoposta prigione. Tacque poco dappoi il trambustio; e uno stridere di catene rimbombò per la volta del lungo corridoio che capitava alla mia camera. Ed ecco il carceriere trarsi dietro un uomo tutto insanguinato, piagato e di gran ferri grave. Ad ogni passo che quel ferito infelice stampava vêr me, mi si destava nell’anima la compassione con più veemenza. Ma ella subitamente si convertì in orrore, ravvisandolo io pel mio figliuolo. “Ahi! Giorgio, figliuol mio, così dunque io ti veggio? Sanguinoso per le ferite e tutto carco di ceppi! E questa adunque è la tua felicità? In così orrida guisa al tuo padre tu ritorni? Oh vista che il cuore mi sbrana! Morire io bramo; non altro prego che di morire.”
“E dov’è, o padre, la vigoria dell’anima tua?” rispose con intrepida voce il figliuolo. “Non v’è più vita per me e me la tolgano pure. Sosterrò con fermo animo la morte; perchè, quantunque fuor d’ogni speranza di perdono, la coscienza non mi rimorde d’alcun omicidio.”
Tentai di frenare per pochi momenti il mio dolore col silenzio; ma quello sforzo mi uccideva. Però dovetti così esclamare: “O figliuol mio, il cuore mi si sbarra dal petto in vederti così sciagurato, nè poterti soccorrere dell’opera mia. Misero me! che nè giovarti io possa! Ahi crepacuore di padre! Riposare tranquillo nella credenza che tu fossi felice, pregare Iddio che te conservasse, e nello stesso tratto mirarti in tale orrido stato, tutto sangue e catene! Pure la morte del giovane è felice. Ma io vecchio, io pieno d’anni, son vissuto fino a questo giorno per dover mirare i miei figliuoli cadere di cruda morte l’un sovra l’altro al mio fianco e nel fior di giovinezza. Ed io vivere in tanta rovina, io solo! Tutte le maledizioni che valgono a sterminare una creatura piombino addosso all’assassinatore de’ miei figliuoli. Abbia egli tanto di vita com’io, per vedere....”
“Pon’ modo, o padre, ai lamenti,” replicò il mio figliuolo; “o ch’io per te sarò costretto ad arrossire. Come puoi tu dimenticare la tua età, il tuo sacro ministerio, ed arrogarti d’avere in poter tuo que’ fulmini che spettano alla giustizia di Dio, e scagliar maledizioni che ricaderebbero tosto sul tuo capo canuto per ischiacciarlo spaventevolmente? Rivolgi piuttosto ogni cura a disporre me a quella morte ignominiosa a cui sarò tratto in breve: avvalora le mie speranze e la fermezza del cuor mio; e mi presta coraggio per bevere l’amarissimo calice che mi sta preparato.”
“Non morrai no, figliuol mio; chè certo di tal colpa non sei reo a cui si convenga punimento infame cotanto. Come può egli essere mai che il mio Giorgio commetta delitto sì nero che valga a svergognare gli antenati suoi?”
“Eppure imperdonabile è il mio fallo. Appena ricevuta la lettera di mia madre, corsi a questa volta determinato a punire il traditore dell’onor nostro; e immantinente gl’inviai la disfida, alla quale egli non in persona rispose, ma col dare ordine a quattro de’ suoi servi di venire a me e pormi addosso le mani e legarmi prigione. Il primo che mi assalì fu da me rimandato ferito, e di ferita, io temo, mortale. Ma soverchiato poscia dagli altri e stretto di lacci, venni qui tratto da que’ manigoldi. Il codardo si è posto nell’animo di rivolgere a mio danno tutto il rigore della legge. Però le prove sono evidenti. L’ho chiamato io a duello; ed essendo io il primo trasgressore dello statuto, non v’ha speranza di grazia. Ma tu soventi volte mi dilettasti colle tue lezioni di magnanimità; fa’ dunque d’inspirarmela ora col tuo esempio, ora ch’ella mi è d’uopo.”
“L’avrai, figliuolo mio, l’avrai, te ne assicuro. Sento ora sollevarmi al di sopra di questo mondo e di ogni umana gioia: spezzo del tutto i legami che per lo addietro m’avvinghiavano alla terra; e pongo opera nell’apparecchiare e te e me per l’eternità. Io ti mostrerò la via e l’anima mia sarà guida alla tua; perchè entrambe spiegheranno di compagnia il loro volo. Veggo pur troppo che non ti resta perdono a sperare guaggiù; e solo posso esortarti a cercarlo a quel giudice altissimo innanzi a cui quanto prima verremo. Ma abbiano parte alle nostre preci anche gli altri meschini che con noi stanno in questa prigione, onde quelle a Dio riescano, quanto più numerose, più accette.” E rivoltomi al buon carceriere, scongiurai ch’ei li guidasse tutti al mio letto, perch’eglino traessero da tale vista alcuna emenda ai loro costumi. Poi m’ingegnai di sorgere dalla paglia. Ma infievolito oltre modo, appena ebbi forza d’appoggiarmi alla muraglia. Ragunaronsi allora i prigionieri desiderosi d’udire i miei consigli; mi ressero d’ambo i lati la moglie mia e ’l mio figliuolo; e veduto io niuna persona mancare tra gli uditori, diedi principio al mio ragionamento colle seguenti parole.