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capitolo ventesimosesto. | 167 |
all’amore. A venti, sebbene fossi sempre stato di onesti costumi, ognun mi reputava astuto a tale da non volere per nulla commettersi alla mia fede. Venni quindi forzato per mia difesa ad affilare sempre più l’intelletto; e menai dappoi la mia vita fantasticando su trovati strani, avvolgimenti d’ogni specie e baratterie, col cuore sempre balzelloni per tema d’essere scoperto.
Io rideva spesso della semplicità dell’onorato vostro vicino Flamborough; ogni anno, o ad un modo o all’altro, una fiata giuntandolo. Eppure quel buon uomo libero di ogni sospetto tirò innanzi e si fe ricco; mentr’io colle eterne mie trappole, co’miei tanti gabbi, rimasi povero e privo delle consolazioni che somministra il sentimento della propria onestà.
Ma comecchè gli accorgimenti miei non mi abbiano saputo scampare dalla prigione, forse ne potranno liberare i miei amici. Ditemi dunque, di grazia, per qual ragione voi siete qui stati condotti.”
Allora io narrai distesamente tutta la fila de’ casi e de’ viluppi che m’avevano balzato in quella miseria, e come io non sapeva per niun verso levarmi d’intorno quell’impaccio. Com’ebbe egli udita la mia istoria, stette sovra pensieri per più minuti; poi, percossasi la fronte quasi alcun rimedio gli sovvenisse a’miei mali, prese da me licenza, assicurandomi volere egli tentare ogni partito per giovarmi.
CAPITOLO VENTESIMOSETTIMO.
Continua lo stesso soggetto.
Il giorno appresso partecipai a mia moglie ed ai figliuoli com’io intendeva di convertire i prigionieri; dal che vollero sconfortarmi. E disapprovando intieramente quella impresa quasi vana la fosse ed impossibile, dissero ch’ogni