Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimosesto

Capitolo ventesimosesto

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimosesto
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CAPITOLO VENTESIMOSESTO.

Riforma nella carcere. Perchè le leggi fossero perfette, dovrebbero premiare nell’istesso modo che puniscono.

Il giorno che seguì poi venni di buon mattino risvegliato dalla mia famiglia che dirottamente piangeva a’ piè del mio letto; e tanto d’orrore mandava ogni oggetto che mi stava dintorno, che l’animo di lei n’era altamente sgominato. Però dolcemente rimproverai l’ambascia dei carissimi, affermando che mai i miei sonni erano stati più tranquilli: poi chiesi conto della Livia che non era in lor compagnia; e mi fu detto che i travagli e le fatiche della vigilia avevano fatta crescere alla meschina la febbre, sicchè la misera non era in istato d’uscire. Ciò udito, inviai prima d’ogni altra cosa mio figliuolo in cerca d’una o due camere, le più vicine che si potesse alla prigione per albergarvi i miei. Egli obbedì; ma a buon mercato non ne rinvenne che una sola per la madre e le sorelle. Laonde l’umano carceriere si contentò che Moisè e i due bambini dormissero in prigione vicino a me. Fu quindi preparato [p. 163 modifica]un letto per loro che mi parve discretamente pulito. Ma volli investigare io da prima l’animo de’ poveri piccini, e sapere s’eglino avrebbono voluto giacere in un luogo che tanto all’entrarvi avevali spaventati.

“Or via, fanciullini miei, come vi aggrada questo vostro letticciuolo? E’ mi si lascia credere che non vi metterà paura il buio di questa camera.”

“No, padre mio,” rispose Ricciardetto, “che timore degg’io avere ove tu sei?”

“Ed io,” disse Guglielmino che non aveva ancor compiuti i quattro anni, “amo più d’ogni altro quel luogo dove sta il mio caro padre.”

Dopo di ciò a ciascuno della famiglia assegnai il dover suo. E però alla figliuola comandai che prestasse assistenza alla sorella malata, a mia moglie di restar meco, e ai due piccini di leggere; e rivoltomi al figliuolo, così a lui favellai: “Dal lavoro delle tue mani, o Mosè mio, noi tutti speriamo sostentamento. Il tuo salario come giornaliere basterà a fornirci con frugalità d’ogni cosa bisognevole alla vita; perocchè tu hai sedici anni compiuti e sei robusto della persona. Nè Iddio ti diede invano quella vigoria, ma per salvare dalla fame i tuoi miserabili genitori e la tua famiglia. Tu dunque fa’ di trovare questa sera lavorio per domani; e al finire d’ogni giorno riportaci i tuoi guadagni.”

Ciò detto ed accomodato il restante, scesi nella prigione comune, più spaziosa della mia e dove poteasi respirare almeno più alla larga. Ma non vi stetti lunga pezza, chè tosto le oscenità, le bestemmie ed ogni maniera di scurrili modi che m’invadeano d’ogni lato, mi rispinsero alla mia camera. E quivi seduto, per alcun tempo meditai la stravagante cecità di que’ sciagurati che non contenti di vedersi contro in arme tutto il genere umano, un altro nimico tremendo si preparavano a tutto potere nell’eternità.

Ebbi pietà della loro ignoranza; e quella pietà mi [p. 164 modifica]dissipò per allora dalla mente il sentimento delle avversità mie proprie: e parvemi obbligo di tentare ogni via per ridurli sul buon sentiero. Però feci pensiero di scendere di bel nuovo, e ad onta degli scherni di quelle genti compartir loro le mie ammonizioni, e perseverare fino a tanto che io venissi a compimento del mio proposito. Tornato quindi in mezzo di loro, rendei consapevole del mio disegno il signor Jenkinson, che in udirlo scoppiò dalle risa; ma lo partecipò non pertanto agli altri prigionieri. Fu allora accolta con festa la proposta, essendo che ella prometteva somministrare novella materia di spasso a gente, cui era venuta meno oramai ogni fonte di gioia fuorichè la dissolutezza e la buffoneria.

Lessi loro con voce alta, ma non affettata, parte del divino officio; e l’udienza ne ebbe trastullo. Era a vedersi un bisbigliare universale, un gestire impudico, gemiti di pentimento burlescamente spremuti, un tossire, un occhieggiare, un ridere per ogni parte. Proseguiva io nondimeno gravemente la lettura, come quegli che sapeva benissimo potere quell’atto emendare alcuno, ma non dal ludibrio di nessuno uomo ricevere detrimento e contaminazione.

Finito ch’ebbi, di leggere, cominciai una predica più per tenerli a bada ed allegri che non per biasimarli. Dissi che niun’altra cagione m’induceva a parlare, ma solo il desiderio della loro prosperità, che non guadagno io traeva dalle mie prediche, e che non mi dovessero guardare che come compagno di prigionia; ma dolermi l’empietà loro per cui niuno utile e sommo danno era da conseguirsi. “E per verità,” esclamai, “o amici miei, chè amico io vi sono davvero, quantunque a voi volga il mondo le spalle, nè un soldo vi verrà nel borsello, se anco mille volte al dì voi deste in orrende imprecazioni. A che dunque invocare ogni tratto Satanasso e i favori di lui, s’ei vi malmena così miseramente? Egli non v’empie che di giuramenti la bocca, e vuoto vi lascia [p. 165 modifica]il ventre; e se male io non m’appongo, nulla di bene avrete mai da lui da qui innanzi. Nelle umane contrattazioni chiunque riceve ingiuria da alcuno, dall’ingiuriatore si rimuove e ad altr’uomo migliore ricorre. E a voi pure converrebbe pigliar prova di un nuovo Protettore che a sè vi chiama con belle promesse. Nè v’ha certo più stupido uomo del ladro che cerca asilo presso il bargello. E voi al par di lui insensati domandate conforto a chi già v’ingannò, ad un ente del bargello più maligno perchè il birro vi tira a sè con allettamenti, poi vi manda alle forche; ma l’altro vi zimbella, vi strozza, nè vi sprigiona neppure dopo il capestro; e ciò è il danno peggiore.”

Al finire di queste parole, gli uditori mi onorarono per complimenti; ed alcuni di essi stringendomi la mano, giurarono essere io buon compagno, la di cui amicizia bramavano di continuare. Però, detto loro che domani avrei fatto altrettanto, una speranza io accoglieva di riformare i costumi: perocchè fu sempre mio avviso non essere mai disperata l’emenda in qualsivoglia cuore, purchè colui che ha in animo d’emendarlo indirizzi accortamente le sue rampogne e ben colga. Contentata così l’anima mia, ritornai alla camera dove mia moglie aveva preparato un desinare sobrio, a cui chiese Jenkinson di unire anche il suo, onde, com’ei diceva, godere della mia conversazione. Egli non aveva mai veduta la mia famiglia; perchè venendo ella a me introdotta per una porta segreta del corridoio già descritto, non era a lei uopo passar per mezzo alla prigione comune. Maravigliò quindi altamente della bellezza della mia figliuola minore a cui una cert’aria pensierosa aggiungeva grazia, ed accarezzò cordialmente i miei due bambini.

“Ahi! dottor mio,” diss’egli, “non è luogo questo che si convenga a così belli figliuoli.”

“Grazie a Dio,” risposi, “ch’eglino siano d’onesti costumi; poco importa del resto.” [p. 166 modifica]

“Certo che a te darà somma consolazione il vederti attorniato da codesta famigliuola.”

“Ben dici; nè per niuna cosa del mondo patirei d’esserne separato. Per loro la più scura segreta si trasmuta in una reggia. E per far me infelice non v’ha che un mezzo; oltraggiare i miei cari figliuoli.”

“Ahi me misero dunque reo di tal colpa! Veggone uno da me ingiuriato e a cui domando perdono.”

Guardò in faccia a Mosè che riconosciuto tosto quella voce, vide chi egli era; e presolo per mano, con un sorriso gli perdonò. Poi domandògli il figliuolo per quali rozze fattezze fosse egli paruto al signor Jenkinson persona di pel tondo e corriva.

“Amico,” rispose l’altro, “non dal tuo volto, ma dalla calzetta bianca e dal nastro nero che ti annodava i capelli fui io allettato. Ma non perciò avvilirti; chè di più scaltri di te ne uccellai un tempo. Ahi che i donzelloni fur troppi, e ad onta delle mie gherminelle m’hanno alla fine arrivato!”

Parve al mio figliuolo che il racconto della vita di quell’uomo dovesse riuscire dilettevole ed instruttivo; e gliene fece domanda.

“Nè l’una nè l’altra cosa se ne può trarre,” rispose Jenkinson. “Le narrazioni che si aggirano solamente sulle ciurmerie ed i vizi dell’umana razza, ingombrandoci di mille sospetti la mente, ritardano il nostro progresso nell’arte della vita. E quel viandante che d’ogni persona incontrata diffida e torna indietro ogni volta che gli si para innanzi alcun uomo ch’abbia faccia di ladro, rade volte giunge in tempo opportuno alla meta del suo viaggio. Però giudicando per mia esperienza, a me sembra che que’ saccentoni che dan la menda a ognuno siano li più scimuniti uomini della terra. Fino dalla mia infanzia fui creduto sagace; e della età di soli sette anni dicevanmi le donne l’uomicciuolo perfetto. A quattordici anni io sapeva di cose mondane ottimamente, vestiva da cicisbeo e faceva [p. 167 modifica]all’amore. A venti, sebbene fossi sempre stato di onesti costumi, ognun mi reputava astuto a tale da non volere per nulla commettersi alla mia fede. Venni quindi forzato per mia difesa ad affilare sempre più l’intelletto; e menai dappoi la mia vita fantasticando su trovati strani, avvolgimenti d’ogni specie e baratterie, col cuore sempre balzelloni per tema d’essere scoperto.

Io rideva spesso della semplicità dell’onorato vostro vicino Flamborough; ogni anno, o ad un modo o all’altro, una fiata giuntandolo. Eppure quel buon uomo libero di ogni sospetto tirò innanzi e si fe ricco; mentr’io colle eterne mie trappole, co’miei tanti gabbi, rimasi povero e privo delle consolazioni che somministra il sentimento della propria onestà.

Ma comecchè gli accorgimenti miei non mi abbiano saputo scampare dalla prigione, forse ne potranno liberare i miei amici. Ditemi dunque, di grazia, per qual ragione voi siete qui stati condotti.”

Allora io narrai distesamente tutta la fila de’ casi e de’ viluppi che m’avevano balzato in quella miseria, e come io non sapeva per niun verso levarmi d’intorno quell’impaccio. Com’ebbe egli udita la mia istoria, stette sovra pensieri per più minuti; poi, percossasi la fronte quasi alcun rimedio gli sovvenisse a’miei mali, prese da me licenza, assicurandomi volere egli tentare ogni partito per giovarmi.