Il vicario di Wakefield/Capitolo ventesimoquinto

Capitolo ventesimoquinto

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ventesimoquinto
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CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.

Non v’è stato, per quanto miserissimo sembri, a cui non sia pur compagna qualche sorta di consolazioni.

Abbandonammo finalmente quel pacifico vicinato, prendendo la nostra via a passi lentissimi. Però la maggiore delle figliuole, illanguidita da una continua febbretta che già da alcuni giorni a poco a poco distruggevale la complessione, fu dall’uno de’ bargelli cortesemente presa in groppa d’un suo cavallo; perchè tal razza di gente non sempre è di ogni senso d’umanità svestita. Il mio figliuolo traeva per mano uno de’ piccini, e l’altro tapinello se lo strascinava dietro la madre: ed io camminava appoggiato alla fanciulla minore che piangeva non de’ suoi, ma dei miei mali.

Come ci fummo dilungati dall’umile nostro casile un [p. 158 modifica]due miglia, ecco a tutta foga correrci dietro con alto strepito e gridori una turba de’ più miseracci parrocchiani miei. Erano quelli un cinquanta o là intorno; e giunti a noi, con orrende imprecazioni poser mano ai due bargelli. Poi, giurando non volere essi, finchè una goccia di sangue scaldava loro le vene, patire mai che il loro curato venisse tratto in prigione, stavano per malmenare severamente i due. E tristo effetto ne sarebbe sortito, se di subito non fossi io entrato di mezzo per liberare a stento dalle mani dell’arrabbiata moltitudine que’ birri. Somma era allora la gioia de’ miei figliuoli; e parendo a que’ poveretti omai certa la mia salvezza, non capivano in sè stessi. Ma furono tostamente cavati d’inganno dall’udirmi così favellare a quella buona gente delusa, accorsa, com’ella credeva, pel mio bene.

“Amici miei, così mi amate voi dunque? In questa guisa obbedite agl’insegnamenti che dal pulpito m’udiste darvi? Così vi opponete alle leggi? E me con voi vorreste tirare in rovina? Qual di voi è capo? Mostratemi chi vi sedusse; e lui niuna cosa sottrarrà dallo sdegno mio. Ahi! tornate, pecorelle smarrite, tornate ai doveri vostri inverso Dio, inverso la patria, vêr me. Forse un giorno in più prospero stato me rivedrete in mezzo di voi; e forse mi sarà dato di farvi felice la vita più che la non è di presente. Ma possa io almanco avere la consolazione del sapere niuna pecorella mancarmi quel dì ch’io, chiamato da Dio, lascerò ad altri il governo dell’ovile.”

A queste parole parvero tutti venire in pentimento; e struggendosi in lagrime, l’un dopo l’altro mi si accostarono per darmi l’addio. Ad ognuno io stringeva la destra teneramente; e benedicendoli, proseguii il viaggio senza ch’altro più ce ne distogliesse. Però poche ore prima di notte pervenimmo alla città, o villaggio piuttosto; chè di sole poche casucce composto, e perduta tutta l’opulenza d’un tempo, non altro quello riteneva dell’antico splendore che la prigione. [p. 159 modifica]

All’entrare ivi, si fece alto ad un’osteria dove, per quanto la fretta lo permise, ordinai che s’apprestasse conveniente rifocillamento: e cenando colla mia famiglia mantenni l’usata piacevolezza ed ilarità. Come ebbi veduto essersi per quella notte provveduta discreta stanza a’ miei, me ne andai col bargello alla carcere. Era un edificio destinato altre volte a servigi di guerra; e consisteva in una vasta sala chiusa con enormi ferriate, lastricata di pietre, e la quale per alcune ore del giorno era comune ad ogni sorta di prigionieri fosse per fellonia o per debiti. Oltre di che, a ciascuno era data una separata cella in cui lo si serrava la notte con chiavistello.

Nel por piede là dentro, stimava io di non dovervi udire che un piangere, un lamentare diverso e miserabilissimo. Ma fu tutt’altro; perocchè i carcerati, come tutti da un solo desiderio animati, parevano seppellire nel far galloria e schiamazzo ogni pensiero. Impaurito io pel modo brusco col quale mi si cercò per loro l’emolumento solito cavarsi dall’ultimo sgraziato che giunga, immediatamente lo pagai, ancorchè avessi quasi dato fondo oramai alla borsellina. Quindi la moneta che mi si smunse fu tosto convertita in acquavite; e tutta la prigione rintronò di sghignazzate, di badalucchi e bestemmie.

Era stupore all’anima mia il vedere come gente cotanto malvagia fosse così gioviale, e tristo io per lo contrario a cui nulla cosa era con essi di comune dalla prigionia in fuori; perchè a me ben più che a loro si addiceva per mille ragioni la contentezza e la pace del cuore. Vinto da così fatti pensieri, io incitava me stesso alla giocondità. Ma per isforzi non si produce mai gioia; chè ogni sforzo è di sua natura medesima penoso. Me ne stava quindi taciturno e seduto in un canto della prigione; quando uno dei miei compagni a me avvicinatosi, si sdraiò al mio lato per conversar meco. Regola costante della mia vita ella era di non fuggire mai la conversazione di [p. 160 modifica]loro che davano a divedere desiderio della mia; perchè se onest’uomo colui, le istruzioni sue m’avrebbero giovato; se cattivo, avrebbe egli potuto profittar delle mie.

Mi venne tosto sentito come quegli non fosse persona letterata, ma sì bene fornita di buon senso e d’alcun sapere, pratica di mondo, come si suol dire, o, per meglio parlare, pratica delle umane ribalderie. Domandommi s’io avessi avuta cura di provvedermi di un letto; al che io non avea neppur posto mente.

“Mal per te,” diss’egli; “perchè non ti si appresta qui che poca paglia, e la tua camera per esser vasta è freddissima. Ma mi sembri uomo di nobile condizione, e tale io m’era un tempo ancor io; però lásciati volentieri da me profferire una parte delle mie coperte da letto.”

Io lo ringraziai, manifestandogli quanto strano mi riuscisse quell’atto sì umano tra le miserie d’una prigione. E per dargli a fiutare un pocolino della mia erudizione, gravemente gli dissi che quel savio antico aveva saputo apprezzare da dovero la dolcezza dell’aver compagni nelle afflizioni quando lasciò scritto, Ton kosmon aire, eidos toon etarioon. “E che è mai in fatti,” soggiunsi io, “il mondo, s’ei non presta che solitudine?”

“Tu parli del mondo,” rispose colui; “ma il mondo vaneggia: e la cosmogonia, o vogliam dire il sistema della formazione dell’Universo, ha imbarazzati i filosofi d’ogni secolo. Qual guazzabuglio d’opinioni non hanno eglino disseminate intorno alla creazione del mondo! Sanconiatone, Maneto, Beroso e Ocello Lucano si stillarono su di ciò invanamente il cervello. L’ultimo ha queste parole, anarkon ara kai ateleutaion to pan, le quali significano....”

“Padron mio, perdona,” diss’io, “se t’interrompo tanta dottrina; ma e’ mi pare d’averla già ingozzata un’altra volta. Non ebbi io forse la fortuna d’incontrarti un giorno alla fiera di Welbridge, e non t’appelli tu Efraimo Jenkinson?” Egli mandò un sospiro. “Ti [p. 161 modifica]dovesti pure ricordare d’un dottor Primrose da cui comperasti un cavallo?”

Allora d’improvviso egli mi raffigurò; chè l’oscurità del luogo e la cadente notte gli avevano tolto di potere riconoscere prima i lineamenti del mio volto.

“Pur troppo sì mi sovviene!” esclamò colui. “Comperai da te un cavallo, e mi sdimenticai di pagarlo. L’unico de’ miei accusatori ch’io tema è il tuo vicino Flamborough, perchè egli ha in animo di darmi con giuramento colpa di falsator di monete innanzi ai giudici che terranno per me corte fra pochi dì. Mi sa male d’averti ingannato, e d’avere come te ingannati mill’altri; ed ecco qual frutto ho colto delle mie furfanterie.” Additommi i suoi ceppi.

“Or bene,” risposi, “la cortesia con cui mi offeristi soccorso in tempo da non isperarne da me guiderdone, sarà ricompensata dalle mie cure per mitigare od estinguer del tutto l’accusa di Flamborough. Manderò quanto prima a tale uopo il mio figliuolo; e son certo che quel buon uomo condiscenderà alle mie preghiere. Per conto mio poi non ti dar pena, chè non darotti taccia di nulla.”

“Io ti sarò grato con tutte le forze mie; dividerò teco questa notte le mie coperte da letto, e n’avrai più della metà; ti sarò amico qui in carcere dove e’ mi sembra di poter qualche cosa.”

Gliene resi le dovute grazie, maravigliando altamente del ringiovanito aspetto di lui; perchè la prima volta ch’io l’aveva salutato m’era paruto uomo di sessant’anni almeno. “Eh! male,” diss’egli, “tu conosci il mondo. Erano allora finte le mie chiome; ed io so contraffare ogni età dai diciassette ai settanta. Ah! se delle sollecitudini da me impiegate per diventare consumato briccone io avessi spesa la metà in ammaestrarmi in alcun genere di commercio, sarei a quest’ora ricchissimo. Ma comecchè io sia un vile mascalzone, quando men te l’aspetti, posso ancora esserti utile amico.” [p. 162 modifica]

Ci furono rotte le parole in bocca dai servi del carceriere venuti a far la chiamata dei prigionieri e chiuderli per la notte. Uno di essi, stringendo sotto l’ascella un fastellaccio di paglia pel mio letto, mi trasse per un angusto ed oscuro corridore in una camera lastricata come la prigione comune; ed in un angolo di quella distesa la paglia e recatemi indosso le coperte a me prestate dal compagno mio, mi adagiai. Dopo di che la mia guida cortesemente diemmi la buona notte e se n’andò. Ed io, fatta alquanta meditazione, ed inviate le mie preci a Dio che così mi puniva de’ miei falli, dormii tranquillamente fino all’alba del domani.