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166 | il vicario di wakefield. |
“Certo che a te darà somma consolazione il vederti attorniato da codesta famigliuola.”
“Ben dici; nè per niuna cosa del mondo patirei d’esserne separato. Per loro la più scura segreta si trasmuta in una reggia. E per far me infelice non v’ha che un mezzo; oltraggiare i miei cari figliuoli.”
“Ahi me misero dunque reo di tal colpa! Veggone uno da me ingiuriato e a cui domando perdono.”
Guardò in faccia a Mosè che riconosciuto tosto quella voce, vide chi egli era; e presolo per mano, con un sorriso gli perdonò. Poi domandògli il figliuolo per quali rozze fattezze fosse egli paruto al signor Jenkinson persona di pel tondo e corriva.
“Amico,” rispose l’altro, “non dal tuo volto, ma dalla calzetta bianca e dal nastro nero che ti annodava i capelli fui io allettato. Ma non perciò avvilirti; chè di più scaltri di te ne uccellai un tempo. Ahi che i donzelloni fur troppi, e ad onta delle mie gherminelle m’hanno alla fine arrivato!”
Parve al mio figliuolo che il racconto della vita di quell’uomo dovesse riuscire dilettevole ed instruttivo; e gliene fece domanda.
“Nè l’una nè l’altra cosa se ne può trarre,” rispose Jenkinson. “Le narrazioni che si aggirano solamente sulle ciurmerie ed i vizi dell’umana razza, ingombrandoci di mille sospetti la mente, ritardano il nostro progresso nell’arte della vita. E quel viandante che d’ogni persona incontrata diffida e torna indietro ogni volta che gli si para innanzi alcun uomo ch’abbia faccia di ladro, rade volte giunge in tempo opportuno alla meta del suo viaggio. Però giudicando per mia esperienza, a me sembra che que’ saccentoni che dan la menda a ognuno siano li più scimuniti uomini della terra. Fino dalla mia infanzia fui creduto sagace; e della età di soli sette anni dicevanmi le donne l’uomicciuolo perfetto. A quattordici anni io sapeva di cose mondane ottimamente, vestiva da cicisbeo e faceva