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capitolo ventesimosesto. 163

un letto per loro che mi parve discretamente pulito. Ma volli investigare io da prima l’animo de’ poveri piccini, e sapere s’eglino avrebbono voluto giacere in un luogo che tanto all’entrarvi avevali spaventati.

“Or via, fanciullini miei, come vi aggrada questo vostro letticciuolo? E’ mi si lascia credere che non vi metterà paura il buio di questa camera.”

“No, padre mio,” rispose Ricciardetto, “che timore degg’io avere ove tu sei?”

“Ed io,” disse Guglielmino che non aveva ancor compiuti i quattro anni, “amo più d’ogni altro quel luogo dove sta il mio caro padre.”

Dopo di ciò a ciascuno della famiglia assegnai il dover suo. E però alla figliuola comandai che prestasse assistenza alla sorella malata, a mia moglie di restar meco, e ai due piccini di leggere; e rivoltomi al figliuolo, così a lui favellai: “Dal lavoro delle tue mani, o Mosè mio, noi tutti speriamo sostentamento. Il tuo salario come giornaliere basterà a fornirci con frugalità d’ogni cosa bisognevole alla vita; perocchè tu hai sedici anni compiuti e sei robusto della persona. Nè Iddio ti diede invano quella vigoria, ma per salvare dalla fame i tuoi miserabili genitori e la tua famiglia. Tu dunque fa’ di trovare questa sera lavorio per domani; e al finire d’ogni giorno riportaci i tuoi guadagni.”

Ciò detto ed accomodato il restante, scesi nella prigione comune, più spaziosa della mia e dove poteasi respirare almeno più alla larga. Ma non vi stetti lunga pezza, chè tosto le oscenità, le bestemmie ed ogni maniera di scurrili modi che m’invadeano d’ogni lato, mi rispinsero alla mia camera. E quivi seduto, per alcun tempo meditai la stravagante cecità di que’ sciagurati che non contenti di vedersi contro in arme tutto il genere umano, un altro nimico tremendo si preparavano a tutto potere nell’eternità.

Ebbi pietà della loro ignoranza; e quella pietà mi