Il vicario di Wakefield/Capitolo decimottavo

Capitolo decimottavo

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Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo decimottavo
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CAPITOLO DECIMOTTAVO.

Un padre in traccia della smarrita figliuola per richiamarla a virtù.

Il mio bambino non sapeva descrivermi la persona che aveva menata per la mano la sorella al calesso; di altri però io non sospettava che del giovane nostro padrone, essendo a tutti palese quant’egli fosse uomo per sì fatte tresche espertissimo. Quindi rivolsi i miei passi verso il castello Thornhill con animo di scagliare a colui mille rampogne e ricondurre a casa mia la figliuola. Ma prima di giungervi incontrai uno de’ miei parrocchiani il quale mi narrò d’aver veduta una gentildonna somigliante alla mia fanciulla in un calesso da posta con un signore, che se ne andavano a scavezzacollo. Da quanto seppe dirmi quell’uomo, conghietturar si poteva essere ella non altrimenti che col signor Burchell; ma io non andai pago gran fatto di tale avviso. Per la qual cosa diritto m’avviai allo scudiero; e quantunque fosse ancora di buon mattino, insistetti nel chiedere di parlargli tostamente. Poco stante egli uscì fuori con volto sommamente familiare e sereno, e parve oltre ogni dire stupefatto per [p. 107 modifica]la fuga della Olivia, protestando sull’onor suo di non entrarvi per nulla. Allora maledissi i miei primi sospetti, e non li rivolsi che sopra del signor Burchell, ricordandomi ch’egli aveva avute con esso lei, non ha guari, alcune private conferenze. Sopraggiunse un altro testimonio a dileguarmi ogni dubbio che ancora mi rimanesse, ed asseverò che colui si era colla mia figliuola diretto alla volta di Wells, di trenta miglia o poco più lontano, dove vi aveva gran numero di gente. Essendo tutta agitata la mente mia ed in quello stato in cui è più facile precipitare che governare i giudizi, non mi volsi neppure a discutere fra me e me se queste notizie fossero vere, o se venissero piuttosto da gente disposta appuntatamente per isviarmi e mandare a male le mie ricerche; ma volli ad ogni patto inseguire fino colà la mia fanciulla e l’immaginato traditore di lei. Me ne andava affrettato pel mio cammino interrogando chiunque mi veniva incontrato; ma nessuno mi dava ragguaglio della mia Olivia. All’entrare finalmente nella città mi abbattei ad un uomo a cavallo che mi sovveniva d’aver veduto altre volte a casa Thornhill. Feci anche a lui domanda; ed egli mi rispose, che se io avessi continuato il viaggio non più di trenta altre miglia fin dove correvasi il pallio, gli avrei di certo sorpresi, avendoli veduti ivi egli stesso la notte passata ballare con sommo diletto di tutti i circostanti ammiratori delle leggiadrie della fanciulla. La mattina del domane m’avviai dunque di buon’ora verso quel luogo, e intorno a quattr’ore del dopo pranzo arrivai nel circo.

Gli spettatori tutti apparivano gai e festosi; perchè a null’altro intenti che a darsi buon tempo ed a cercare sollazzo. Quanto in ciò diversi da me, misero, in traccia d’una perduta figliuola, e solo bramoso di ricondurla alla virtù! Mi parve di raffigurare in alcuna distanza il signor Burchell; ma quasi egli temesse mio scontro, all’accostarmigli si frammischiò alla turba, nè più lo vidi. Io però posi mente all’inutilità delle mie indagini; e vedendo [p. 108 modifica]quanto vano sarebbe stato lo spingerle più oltre, deliberai di ritornare all’innocente mia famiglia a cui era la mia assistenza necessaria. Ma lo scompiglio dell’animo e le sostenute fatiche mi cagionarono una febbre della quale prima d’uscire dal circo mi vennero sentiti tutti i sintomi; e non fu poca sventura questa piombatami addosso per la non pensata, essendo che io era lungi di casa mia più di settanta miglia. Mi ritrassi in una piccola osteria posta sulla strada; e in quel meschino tugurio, usato ricovero della frugale povertà, mi posi in letto pazientemente aspettando la fine della mia malattia, ed ivi languii per quasi tre settimane: ma in ultimo prevalse la mia complessione alquanto robusta. Il non aver in meco danari per pagare l’oste dopo tanti giorni di dimora, mi tormentava d’angoscia; e quella era forse bastevole a ritardare la mia guarigione, e mi avrebbe anche procacciata una ricaduta, se non fosse capitato in mio soccorso un viandante fermatosi all’osteria per prendere poco rinfrescamento. Costui era quel libraio pieno di filantropia il quale abita a Londra nel sagrato di San Paolo, e che scrisse tanti opuscoli pe’ fanciulli intitolandosi il loro amico, ma mostrandosi in fatti poi l’amico di tutto il genere umano. Pochi minuti dopo essere smontato, ei volea ripartire in fretta in fretta, come quegli che avea sempre per le mani faccende di somma importanza, e il quale allora appunto era occupatissimo in compilare materiali per la storia di un certo Tommaso Trip. Riconobbi tosto la faccia rossa e bitorzolata di quell’onest’uomo, perchè aveva io per mezzo di lui pubblicate le mie operette contro la deuterogamia del secolo: però a lui mi volsi, e mi feci prestare alcune lire che io gli avrei restituite appena tornato a casa mia.

Sentendomi tuttavia infievolito d’alquanto, nell’abbandonare l’osteria formai pensiero di compiere il mio viaggio a piccole giornate di dieci miglia cadauna. Ricuperata quasi la mia salute e la solita pace dell’anima, io [p. 109 modifica]biasimava in me l’orgoglio che mi aveva rènduto disobbediente alla correzione. L’uomo non sa fino a qual segno egli possa sopportare le calamità, s’ei non le prova. E in quella guisa che l’ambizioso quanto più sale, più impensate difficoltà e oscuri intrighi incontra, colà dove, mirando dal basso in alto, non aveva da prima veduto che agevolezza e splendore; così nel discendere dalla sommità del piacere, per orribile e cupa che possa parere a prima giunta la valle della miseria, la mente accorta non pertanto che da ogni cosa sa trarre diletto, anche nel precipizio a poco a poco lusinghe e consolazioni ritrova. A misura che noi loro ci accostiamo, gli oggetti foschi si fanno più sereni; e gli occhi dell’anima alla tenebria di sua condizione si accomodano.

Poi ch’ebbi camminato per in circa due ore, mi si offerse da lontano alla veduta alcuna cosa che avea sembianza d’un carro; ed affrettato il passo per raggiugnerlo, trovai non essere che una carretta d’una vagabonda compagnia di commedianti sulla quale trasportavano le loro scene ed altri arredi teatrali ad un villaggio vicino, ove doveano recitare. La carretta era solamente seguita da chi la guidava e da uno de’ comici, perchè gli altri avrebbero tenuto dietro il giorno appresso. Buon compagno per cammino, dice il proverbio, ci serve per ronzino; onde io introdussi conversazione col povero commediante e siccome un tempo sapeva ancor io qualche cosa di teatro, coll’usata libertà spacciai su quell’argomento le mie dissertazioni. Ma ignorando interamente in che stato si ritrovasse allora la scena, domandai chi fossero gli scrittori di cose teatrali in voga in quel tempo, quali i Drydens e gli Otways della giornata. “Io credo, o signore,” rispose il commediante, che pochi de’ moderni autori drammatici si reputerebbero onorati dal paragone che voi ne fate cogli scrittori che nominaste. La maniera di Rowe e di Dryden non si usa più; e il nostro gusto è ritornato indietro un buon secolo; Fletcher, Ben Jonson [p. 110 modifica]e tutti i drammi di Shakespeare sono oggi le sole cose gradite.”

“E fia vero che l’età nostra si compiaccia in quel dialetto antiquato, quelle facezie e que’ riboboli vieti, in que’ caratteri fuori del naturale che riboccano a bizzeffe nelle opere da voi nominate?”

“Il pubblico, o signore, non s’impaccia di lingua, di bizzarie e di caratteri, perchè a lui non importa, nè punto nè poco di codeste cose: egli va in teatro per ispassarsi, e gli par d’essere beato quando può godere del gesteggiare d’un istrione sotto la custodia de’ nomi venerandi di Shakespeare e di Ben Jonson.”

“E per questo io suppongo che gli scrittori moderni siano piuttosto imitatori di Shakespeare che della natura.”

“Per dire la verità non imitano nè l’uno nè l’altra nè cosa veruna ch’io mi sappia; nè il pubblico ciò da loro richiede. Non l’invenzione o lo stile del dramma riscuote gli applausi, ma sì bene il maggior numero de’ salti e degli atteggiamenti che vi si ammettono. Ho veduta una rappresentazione vuota affatto di piacevolezze diventare la benvoluta del popolazzo per li contorcimenti degli attori; ed un’altra scampare da una totale stramazzata per un’accessione di dolori colici introdottavi dal poeta. Signor mio, le opere di Congreve e Farquhar sono troppo studiate pel gusto presente; e il nostro dialogo moderno è assai più naturale.”

Intanto che tenevansi per noi questi parlari, giunse la carretta dei commedianti al villaggio; e i terrazzani, probabilmente informati della nostra venuta, erano usciti tutti, nè si saziavano di guardarci; per lo che il mio compagno mi trasse a considerare come i commedianti di villaggio abbiano più spettatori fuori del teatro che dentro. A me non venne sospetto alcuno della cattiva figura di mia persona in mezzo di quella gente, prima ch’io non mi vedessi d’ogni banda attorniato dalla ciurmaglia. [p. 111 modifica]Però tosto scappai nella prima osteria che mi si affacciò; ed ivi introdotto nella camera comune, fui salutato da un gentiluomo assai ben vestito, il quale mi domandò s’io fossi proprio il cappellano della compagnia de’ commedianti, o se l’abito ch’io aveva indosso non fosse che quello con cui io dovessi recitare la mia parte in palco.

Narratagli distesamente la verità, e come io non aveva per nulla che fare con essi comici, egli cortesemente invitò me e ’l recitante a partecipare d’un bacino di punch; e intanto che lo si beveva, egli ragionò di moderna politica con somma veemenza come di cosa che assai gli premesse. “Qualche gran fatto perdinci debb’esser costui, io diceva in mio cuore; che sì che almeno almeno egli è un membro del parlamento!” E queste mie congetture furono avvalorate, allora che cercando io che mi darebbe di cena l’oste, egli voleva assolutamente che noi due cenassimo seco lui a casa sua; e fu tanto poi ripetuto quell’invito che l’accettarlo ne fu forza.