non sapevano trovar modo come meglio ringraziarcene bastantemente. Per quanto la nostra presenza potesse riuscire inopinata a que’ signori, certo che a noi non piombò addosso meno all’improvviso la loro; ed io in pensando alla mia balorderia mi rodeva dentro me stesso, nè mi veniva aperta la bocca per la vergogna. Quand’ecco subitamente entrare in camera una donna: volgomi tosto, e oh fortuna! ravviso la mia cara Arabella Wilmot, quella che doveva un tempo sposarsi a Giorgio, il mio figliuolo, e le cui nozze furono, come s’è detto, stornate. Nè prima m’ebbe ella veduto che tosto corse festosa nelle mie braccia esclamando: “O signor mio, qual ventura mai a noi ti conduce? Oh quale sarà la gioia di mio zio e della zia nello scoprire in te il buon dottor Primrose alloggiato nella lor casa!” All’udire il mio nome quel vecchio gentiluomo e la sua moglie si rizzarono cortesemente sulla persona, dicendomi con cordialissima ospitalità il ben venuto: e narrando io poscia la strana maniera colla quale il caso mi avea piantato sotto del loro tetto, non potevano tenersi di ghignare; ma voleano pure cacciar di casa su due piedi quel malarrivato del canovaio; nondimeno tanto io dissi, che ad intercession mia gli perdonarono poscia. Il signor Arnold e la donna sua, a cui apparteneva davvero la villa, pregarono strettamente ch’io mi fermassi presso di loro alcuni giorni; ed aggiuntisi ai loro inviti anche quelli della vezzosa nipote alla quale io poneva affetto quasi come ad una mia pupilla, poichè avevano le mie instruzioni contribuito a sviluppar la sua mente, di buona voglia mi vi arresi. Fui quella notte menato in una camera ricchissimamente apparecchiata; e la mattina appresso madamigella Wilmot volle che io seco lei passeggiassi nel giardino ch’era con fino e modernissimo gusto disposto. Dopochè s’ebbe vagato alcun tempo ammirando le bellezze di quel luogo, ella mi domandò con apparente indifferenza s’egli era gran tempo da che io non avessi novelle del mio figliuolo Giorgio.