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se con la vibrazione dell’eco. Melchiorre sospirò e spronò il cavallo.

E il cavallo riprese a salire, a salire, con ritmico ondeggiar della groppa, con lento sbatter della coda sui fianchi ossuti: su per le chine rocciose, dalle quali il vento aveva spazzato le foglie e denudato le grandi radici degli elci, rossastre contorte e avviluppate come serpenti, il suo passo risuonava metallico e il suo ferro lucente traeva scintille dal granito.

Dopo le chine s’aprirono silenziose radure, circondate d’alberi che si slanciavano sui limpidi sfondi. Qua e là le roccie accavalcate parevano enormi sfingi; alcuni blocchi servivano da piedestalli a strani colossi, a statue mostruose appena abbozzate da artisti giganti; altri davano l’idea di are, di idoli immani, di simulacri di tombe dove la fantasia popolare racchiude appunto quei ciclopi che in epoche ignote sovrapposero forse le roccie dell’Orthobene, traforandole nelle cime con nicchie ed occhi, attraverso cui ride il cielo.

Dopo le radure, di nuovo il bosco: sentieri umidi, piccoli corsi d’acqua, profumo di giunco, erbe calpestate da greggie ed armenti; e sempre ombra, tremuli