Il treno volante/XIX
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XIX
Altarik all’assalto
La colonna, uscita dalla città tra un frastuono assordante di tam-tam e di chiarine, si era diretta velocemente verso la collina.
Altarik, a cavallo d’un asino, la guidava insieme col sultano, il quale procedeva fieramente, stringendo, con aria feroce, il suo vecchio moschetto.
Dietro veniva la scorta della carovana, composta di trenta zanzibaresi pure armati di fucili e poi duecento negri armati di lance e di archi, i più prodi guerrieri di Kilemba, di un valore però molto dubbio, specialmente contro le armi da fuoco.
I tre aeronauti, accertatisi della direzione della colonna, si erano affrettati a ripiegare verso la cima della collina onde non correre il pericolo di venire tagliati fuori.
L’inglese ed i suoi negri avevano fatto dei miracoli.
Con macigni avevano eretto una specie di muraglia attorno al culmine della collina, gettandovi dinanzi ammassi di spine, ostacoli quasi insuperabili pei piedi dei negri.
L’entrata della caverna era stata compresa in quella cinta, per mettere al sicuro il tesoro, scopo principale della spedizione organizzata da Altarik.
— Dietro quella trincea potremo resistere lungamente — disse l’inglese. — I negri non sono temibili che nei boschi; contro un riparo qualsiasi non valgono assolutamente nulla.
— Vi sono gli zanzibaresi — osservò Matteo.
— Buoni soldati finchè hanno un capo.
— E noi quel capo lo uccideremo — disse Ottone.
— È quello che volevo dirvi — rispose l’inglese.
— E anche il sultano avrà la sua palla.
— No — disse l’inglese. — Risparmiatelo e vedrete che dopo diverrà un umile agnellino dei figli del Sole.
— S’avvicinano — disse Matteo, che dall’alto del muricciuolo guardava attentamente verso la base della collina. — Sono già entrati nella boscaglia.
— Prepariamo i nostri proiettili — disse l’inglese.
— Quali? — chiese Ottone.
— Bombarderemo i boschi con dei macigni. Ne ho fatti trascinare qui una cinquantina, ed essendo i fianchi della collina molto erti, rotoleranno fino al basso. Artiglieri, al vostro posto!
I negri, già istruiti dall’inglese, si dispersero per la cinta e cominciarono a far rotolare in tutte le direzioni dei pezzi di roccia del peso di qualche quintale. Quegli enormi proiettili, precipitando, aprivano dei profondi solchi fra la boscaglia, abbattendo tutte le piante che incontravano. Rotolavano, rimbalzavano, rompevano, fracassavano con mille schianti.
Alcuni, trovando altri massi, li spostavano e li diroccavano, trascinandoli nella loro corsa vertiginosa.
Ben presto in mezzo ai boschi si udirono delle urla di terrore, poi alcuni colpi di fucile.
— I nostri proiettili hanno raggiunto la colonna — disse l’inglese.
— Dubito però che l’arrestino — disse Ottone.
— Ne abbiamo degli altri in serbo.
— E se non riuscissimo a sgominare la gente di quell’indemoniato arabo?
— Opporremo una prima resistenza dietro questo muro: poi ci ritireremo nella caverna.
— Purchè non ci affumichino.
— Ci difenderemo e non li lasceremo accostare — disse l’inglese.
— Si vedono?
— Le piante si muovono a mezza collina — disse Matteo.
— Bombardate! — comandò l’inglese.
I negri stavano per eseguire l’ordine, quando Matteo vide qualche cosa di bianco che si avanzava fra le piante.
— Fermi! — disse. — Altarik ci manda un parlamentario.
Vedo un arabo che ha una banderuola bianca attaccata alla punta di una lancia.
— Che cosa vuole proporci quel furfante? — si domandò Ottone.
— Lasciamolo venire — disse Matteo. — Udremo quale proposta ci farà il suo padrone.
Uno zanzibarese, riconoscibile pel fez rosso che portava in testa, si avanzava con uno straccio bianco, gridando con quanta voce aveva:
— Fermi! Vengo da amico!
— Un amico pericoloso — disse Ottone. — Staremo in guardia, mio caro.
— Io gli manderei già una buona palla nello stomaco — disse l’inglese.
— Rispettiamolo per ora — disse Matteo. — Avremo tempo di ucciderlo più tardi.
— Purchè quel parlamentario non ci faccia qualche brutto giuoco! — osservò El-Kabir.
— E quale? Non ha che una lancia — disse Matteo.
— Non vorrei che gli altri ne approfittassero per accostarsi inosservati a noi.
— Apriremo bene gli occhi.
Lo zanzibarese era giunto sull’orlo del bosco e s’era arrestato agitando la sua banderuola.
— Andiamo a vedere cosa desidera — disse Ottone. — Chi mi accompagna?
— Io — disse l’inglese. — Gli altri rimarranno qui di guardia e si terranno pronti a proteggerci. Non c’è molto da fidarsi di quei negri.
Presero i fucili e mossero incontro al parlamentario, mentre Matteo e l’arabo, saliti sul muricciuolo, tenevano puntate le armi, pronti a far fuoco sullo zanzibarese alla prima mossa sospetta,
— Cosa vuoi? — chiese l’inglese, quando fu vicino al parlamentario.
— Io vengo a trattare con gli uomini bianchi in nome del mio padrone.
— Chi è innanzi tutto il tuo padrone?
— L’arabo Altarik, il più ricco trafficante dell’Africa equatoriale.
— E che cosa vuole da noi?
— Che restituiate a lui il prigioniero del Sultano, unitamente alla polvere d’oro.
— E se questo prigioniero non desiderasse affatto di andare col tuo padrone?
— Chi ve lo dice?
— Te lo dico io.
— E chi siete voi?
— Il prigioniero inglese.
Lo zanzibarese fece un gesto di stupore, accompagnato da una smorfia di malcontento.
— Voi non volete venire con noi? — chiese. — Il mio padrone è venuto qui appositamente per liberarvi e ricondurvi alla costa.
— È venuto per me o pel tesoro? — chiese l’inglese ironicamente.
— Per l’uno e per l’altro.
— Allora tornerai dal tuo padrone e gli dirai che io gli sono riconoscente della sua premura, ma che preferisco rimanere fra gli uomini bianchi giunti qui prima di lui, e che preferisco anche tenermi il tesoro e portarlo da me alla costa.
Lo zanzibarese fece un moto di rabbia.
— Vi opponete ai voleri del mio padrone?
— Io non ho padroni — rispose l’inglese. — Faccio quello che voglio io, essendo uomo libero.
— Il mio padrone vi avrà con la forza.
— Si provi ad assalirmi.
— Lo farà e subito.
— Ed io ti rompo la testa col calcio del fucile se non ci volgi subito le spalle, briccone insolente! — gridò Ottone.
Lo zanzibarese, vedendo il tedesco alzare il fucile, lasciò cadere la bandiera e fuggì a tutte gambe, urlando a squarciagola:
— All’armi! All’armi!
— Ritorniamo — disse l’inglese.
Avevano appena voltate le spalle, quando alcuni colpi di fucile partirono fra le macchie. Delle palle sibilarono agli orecchi dei due europei.
— Di corsa — disse l’inglese.
Raggiunsero rapidamente la cima della collina, e si ripararono dietro il muricciuolo, mentre gli schiavi ricominciavano a bombardare i boschi facendo rotolare enormi massi.
Gli arabi ed i guerrieri di Kilemba nondimeno continuavano a salire, riparandosi dietro i tronchi degli alberi. Di quando in quando facevano delle scariche colpendo la cinta.
I tre europei ed El-Kabir, inginocchiati dietro il muricciuolo, facevano fuoco sopra coloro che si mostravano e le loro palle non andavano tutte perdute.
Tuttavia non riuscivano a tenere indietro gli assalitori che, protetti dagli alberi, si avanzavano strisciando come serpenti e rispondendo vigorosamente.
Ad un tratto, comparvero presso il margine della boscaglia.
Con una scarica fulminarono quattro schiavi che stavano spingendo una grossa pietra, poi si slanciarono arditamente all’assalto, urlando come belve feroci.
Ma i tre europei e l’arabo li accolsero con fuoco così accelerato, da arrestarne la marcia: arabi e negri ripiegarono disordinatamente verso la foresta, lasciando sul suolo quattro morti e tre feriti.
— Non tarderanno a tornare alla carica — disse Ottone, lieto di quel primo successo.
— Pare che si siano perduti d’animo — rispose l’inglese. — Se potessi vedere questo Altarik! Ucciso il capo, gli altri non ardirebbero più farsi innanzi.
— Rimarrebbe il sultano.
— Quel poltrone non si metterebbe alla testa della colonna. Ha paura dei fucili.
— Io cerco Altarik senza riuscire a scoprirlo — disse l’arabo. — Si tiene ben nascosto.
— Non c’era fra gli assalitori? — chiese Matteo. — Ho veduto uno che gli rassomigliava.
— Era il suo luogotenente — rispose El-Kabir. — Se l’avessi veduto, a quest’ora non sarebbe ancora vivo.
— Cosa fanno quei bricconi? — chiese Ottone. — Non osano più avanzare.
— Si sono dedicati ad un lavoro misterioso -— disse l’inglese. — Non vedete tagliare degli alberi?
— Vedo cadere anche dei rami.
— Che abbiano intenzione di affumicarci? — chiese Matteo.
— Perderebbero inutilmente il loro tempo — disse l’inglese. — Abbiamo la caverna per ripararci.
— Attenti! — gridò El-Kabir. — Vengono.
— E noi siamo pronti a riceverli — rispose Ottone.
Gli zanzibaresi ed i negri erano usciti dal bosco, riparandosi ciascuno dietro un grosso fastello di rami.
Scaricarono le loro armi, poi si slanciarono verso il fortino, urlando ferocemente.
I tre europei e l’arabo riaprirono il fuoco, bruciando cartucce rapidamente.
Parecchi negri e qualche zanzibarese caddero, tuttavia gli altri non si arrestarono e giunsero in breve dietro la cinta gettando i fastelli sopra gli ammassi di spine.
Gli schiavi, spaventati, si erano rifugiati nella caverna, lasciando soli i tre europei e l’arabo.
— Stiamo per venir presi — disse l’inglese freddando con una fucilata uno zanzibarese che era già saltato sui fastelli.
— Nella caverna! — gridò Ottone.
I negri e gli zanzibaresi salivano da tutte le parti agitando le armi e urlando.
I tre europei e l’arabo fecero un’ultima scarica, poi ripiegarono verso la caverna, inoltrandosi nel corridoio.
Alcuni negri imbaldanziti dalla vittoria si provarono ad inseguirli e caddero morti o feriti presso l’entrata della galleria.
Gli altri, diventati prudenti, si arrestarono fuori, urlando ferocemente.
— Venite avanti se osate! — gridò Ottone.
Una voce stentorea rispose subito: — Che gli uomini bianchi mi ascoltino!
— Altarik! — esclamò El-Kabir, puntando il fucile.
— Cerchiamo di ucciderlo — disse Matteo.
— Non è così sciocco da mostrarsi — disse l’inglese. — Si tiene nascosto dietro l’angolo della roccia.
— Che gli uomini bianchi mi ascoltino! — ripetè l’arabo.
— Parla — rispose Ottone con voce tuonante.
— Voi siete ormai nelle mie mani.
— Non ancora — rispose il tedesco. — Abbiamo delle munizioni da consumare.
— Vi avrò fra poco.
— E che cosa vuoi conchiudere?
— Voglio proporvi delle condizioni.
— Parla.
— Io vi accordo la vita purchè mi lasciate la polvere d’oro ed il vostro pallone.
— Non avrai nè l’una nè l’altro.
— Allora aspetterò la vostra morte! — gridò l’arabo con voce minacciosa.
— Non la temiamo — disse l’inglese.
— Fra poco me lo saprai dire — gridò l’arabo, allontanandosi.
— Che costui speri di farci morire di fame? — disse Matteo — Noi non abbiamo nemmeno un boccone di pane.
— Purtroppo! — esclamò Ottone.
— E siamo in venti — disse l’inglese.
— Cosa faremo se questi negri ci assediano?
— Tenteremo una sortita — rispose l’inglese. — Sì. Questa notte ci proveremo a forzare l’uscita.
— Tacete! — disse El-Kabir, il quale da qualche minuto ascoltava attentamente. — Mi pare che battano una roccia.
— Quali intenzioni avranno quei birbanti? — chiese Ottone.
— Io sono tutt’altro che tranquillo.
In quel momento si udì Altarik gridare:
— Fuoco!
Un istante dopo una formidabile detonazione rintronava e la luce che entrava nella galleria scompariva di colpo.
I tre europei e l’arabo erano caduti l’uno sull’altro, mentre schegge di roccia si staccavano dall’alto con gran rumore.
— Cosa hanno fatto saltare? — chiese Ottone, balzando in piedi.
— Un pezzo di roccia — rispose l’arabo.
— E questa oscurità?
— Non avete capito il piano di quel cane d’Altarik? — disse l’inglese.
— Spiegatevi.
— È presto detto: ci hanno seppelliti vivi nella caverna.
— Seppelliti! — esclamarono Ottone e Matteo con terrore.
— Un’enorme roccia è stata fatta cadere dinanzi all’uscita della galleria.
— E siamo rinchiusi? — chiese Ottone.
— E nessuna forza umana ci trarrà di qui senza un aiuto che venga di fuori.
— Allora siamo condannati a morire di fame?
— Lo temo, signore, a meno che... non rinunciate al tesoro ed al vostro pallone.
— Pel tesoro sia, ma per il nostro Germania, no, mai! — gridò Ottone. — Se poi...
Una voce che pareva lontana, si fece udire in quel momento. Altarik parlava attraverso una piccolissima fessura lasciata dalla roccia.
— Che gli uomini bianchi muoiano di fame! — gridava il miserabile. — Quando sarete morti avrò il vostro pallone ed il vostro oro.
— Altarik — gridò El-Kabir, — se tu non ci liberi, io ti ucciderò, lo giuro sul Profeta!
— Provati a uscire, se lo puoi, El-Kabir. Buona colazione!
— Altarik, io sono tuo correligionario ed il Profeta punisce i malvagi.
L’arabo non rispose. Si era allontanato senza più occuparsi dei prigionieri.
— Tentiamo qualche mezzo di liberazione — disse Ottone, con accento energico.
— Cosa vuoi fare? — chiese Matteo.
— Proviamo innanzi tutto a smuovere la roccia. Siamo in venti uomini, e gli schiavi sono robustissimi. Forse con una spinta poderosa riusciremo.
— Andiamo a esaminare la roccia — disse l’inglese. — Può essere meno grossa di quanto crediamo; tutto è possibile e nulla può essere ancora perduto.