Il tesoro del presidente del Paraguay/17. Il figlio della luna
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XVII.
Il figlio della luna.
Sull’orizzonte, a un miglio di distanza, era improvvisamente apparso un globo di dimensioni enormi per quegli ingenui figli delle praterie, che non avevano mai visto nell’aria un astro più grande della luna e del sole. S’avanzava con notevole velocità in direzione del loro accampamento, con un dondolamento marcato, mantenendosi a soli due o trecento metri sopra la prateria, ma tendendo ad abbassarsi di mano in mano che si avvicinava. Cosa poteva mai essere quell’astro di nuovo genere che appariva così grosso, con una macchia nerastra su di un fianco, che la distanza non permetteva ancora di ben discernere? Ecco quello che si domandava il capo, il quale era rimasto in piedi, cogli occhi stravolti e i lineamenti alterati dal più profondo stupore, che non mancava di una certa dose di superstizioso terrore. Quello stupore fu però di breve durata. Il bravo patagone di repente si scosse, si rianimò e, alzando le braccia, gridò con voce tonante:
— Figli di Tehuels, non isgomentatevi: la luna si degna di visitare i figli prediletti di Vitamentru. A cavallo! A cavallo!
Udendo la voce del capo, i guerrieri balzarono in piedi, mandando assordanti clamori, staccarono i cavalli, salirono in arcione, impugnarono le lance, e si slanciarono dietro al capo, che galoppava intrepidamente attraverso la prateria per accogliere degnamente l’astro che si degnava visitare i figli delle pampas.
La supposta luna era lontana pochi tiri di fucile e scendeva lentamente. Aggrappato al suo fianco si vedeva un uomo, il quale pareva che osservasse con viva attenzione i cavalieri che gli correvano incontro.
Il capo, giunto proprio sotto la luna, o, meglio, sotto al pallone, come già il lettore avrà indovinato, alzò le mani verso quell’uomo, gridando: — O sciasciè!1
Il figlio della luna, che non comprendeva forse la lingua patagone, non rispose e continuò a guardare i cavalieri, che seguivano il pallone al piccolo trotto, agitando festosamente le lance. Il capo ripetè la parola in lingua spagnola, pregando che lo sciasciè si degnasse di scendere fra i prediletti figli di Vitamentru.
Il figlio della luna questa volta si degnò di rispondere con un gesto affermativo; ma il pover’uomo, che pareva non disponesse di alcun mezzo per effettuare la discesa, non abbandonò la rete, a cui si teneva solidamente aggrappato.
Il pallone però, che doveva essere quasi vuoto, a giudicare dalle innumerevoli pieghe che cadevano lungo i suoi fianchi, scendeva sempre con dei dondolamenti fortissimi e pareva che fosse, in certi momenti, lì lì per rovesciarsi a causa senza dubbio di quell’uomo, che si teneva come incrostato alla rete. Ben presto ondeggiò a soli quattro metri di altezza, sfiorando coll’estremità inferiore le cime di alcuni cespugli di huignal, carichi di grosse bacche. Il figlio della luna, che ormai si trovava nell’impossibilità di sfuggire all’inseguimento dei patagoni, liberò le gambe, che teneva dentro le maglie della rete, e si lasciò cadere a terra, sprofondando fra i cespugli.
Il pallone, liberatosi da quel peso ragguardevole, fece un immenso salto nell’aria e, trovata una corrente contraria, fuggì verso il nord, inseguito dalla maggior parte dei cavalieri, che non volevano perdere la luna.
Il capo patagone, balzato rapidamente d’arcione, si slanciò in mezzo ai cespugli, esclamando:
— O padre! O gran padre!
Il preteso figlio della luna, dopo quel magnifico capitombolo, si era lestamente rialzato, impugnando un paio di pistole, che tosto diresse contro il capo, dicendo con voce secca e minacciosa:
— Vieni da amico, o da nemico?
Il capo, che non si aspettava certamente quella accoglienza da un uomo che scendeva dal cielo, si fermò stupefatto, guardando con occhio triste e quasi indignato lo straniero.
— Perchè minacciare il capo dei buoni Tehulls, che chiedono la tua amicizia, o figlio della luna? — chiese il capo con dolore. — Forse che tu hai da temere qualche pericolo da noi?
— È vero, — rispose lo straniero con un sorriso strano: — io sono il figlio della luna, che visita i buoni figli della prateria.
Poi il signor Calderon, l’agente del Governo, l’uomo che aveva accompagnato il mastro e Cardozo nella pericolosa spedizione, poichè era lui in carne ed in ossa, si passò tranquillamente le pistole nella cintura e incrociò le braccia, guardando fissamente il capo patagone, come se volesse leggergli in fondo all’anima.
— Il figlio della luna si degna di accettare l’ospitalità che gli offre il capo dei Tehulls? — chiese il patagone dopo un breve silenzio.
— Ti seguo, — rispose il signor Calderon.
Il gigante indiano uscì dalla macchia, seguìto a breve distanza dall’agente del Governo, che non aveva perduto una briciola della sua consueta calma, quantunque la sua situazione potesse da un momento all’altro diventare pericolosa, e si diressero verso l’accampamento, mentre i guerrieri che non si erano lanciati dietro al pallone lo precedevano, gettando assordanti grida e facendo volteggiare in segno di giubilo le lance e i bolas.
Le donne e i fanciulli della tribù, che avevano assistito a quella caduta straordinaria del preteso figlio della luna, mossero tutti incontro al corteo urlando e danzando; ma il capo con un gesto energico intimò a tutti il silenzio, e condusse l’ospite in una vasta tenda, che era la più bella di tutte quelle esistenti nel campo.
Il signor Calderon, che pareva ormai rassicurato circa la sua sorte, lo seguì senza esitare, limitandosi per ora a guardare attentamente il capo indiano e tutti quelli che lo circondavano. Quando si vide sotto la tenda in presenza del solo capo, un leggero pallore si diffuse sul suo viso già abbastanza pallido, e aggrottò la fronte.
— Capo, — disse bruscamente, — cosa desideri da me? Quali intenzioni hai tu?
L’indiano lo guardò con sorpresa, come se non comprendesse il senso di quelle interrogazioni, poi rispose:
— È la tenda tua: sei l’ospite gradito del capo dei Tehulls.
Poi fece atto di uscire; ma il signor Calderon con un gesto lo trattenne.
— Parliamo, — disse.
— Il figlio della luna non ha fame adunque? — chiese il patagone.
— Hai ragione: sono a digiuno da due giorni.
— La luna non dà viveri ai suoi figli?
— Aveva troppa fretta di scendere, — disse l’agente del Governo con un lieve sorriso.
— Hauka però non ha fretta e darà da mangiare al figlio del cielo.
Il bravo capo uscì, dopo di aver lasciato cadere la tenda di pelle che chiudeva il toldo, onde gli sguardi dei curiosi non disturbassero il signor Calderon.
Questi, rimasto solo, si mise a osservare con vivo interesse la tenda, che poteva diventare anche la sua prigione.
Era di forma quadrilunga, come sono per lo più le toldos dei patagoni, lunga oltre quattro metri, larga tre e alta due e mezzo sul dinanzi e solamente due sul di dietro, onde lasciar scorrere la pioggia. L’ossatura era composta di piccoli bastoni lunghi nove o dieci centimetri, sostenuti da pertiche più lunghe, il rimanente era di pelli di guanaco cucite e dipinte con una miscela di grasso e di terra rossa. Tutto il mobilio consisteva in qualche cuscino sdruscito, in alcune coperte araucane, in qualche ponchos, in uno spiedo, una pentola di ferro ed alcuni gusci di armadillos,2 che servivano di recipienti.
— Per Bacco! — mormorò il signor Calderon. — Non mancava che quest’avventura. Eccomi diventato anche il figlio della luna! Mi lasciassero almeno, questi stupidi selvaggi, andare in cerca di quei due dannati marinai! Oh! Ma il tesoro non andrà perduto!
Si sedette su di un mucchio di coperte e parve s’immergesse in profondi pensieri.
La ricomparsa del capo lo strappò bruscamente dalle sue riflessioni.
— Eccomi, o figlio della luna! — disse il capo, entrando. — Hauka porta dei viveri eccellenti.
— Sei tu che porti questo nome? — chiese l’agente del Governo.
— L’hai detto.
Prese dalle mani di un indiano un voluminoso sacco e lo vuotò dinanzi al signor Calderon. Conteneva gran copia di vegetali, radici, bulbi, patate selvatiche, certi spinaci e dei pezzi di gomma del bolax glebaria, di cui i patagoni sono molto ghiotti e che dicesi mantenga i denti bianchi.
Quindi depose a terra parecchi gusci di armadillo, contenenti alcuni del sangue ancora caldo, altri della midolla di ossa di guanaco sciolta nel grasso e infine una specie di piatto di ferro contenente un cuore di guanaco crudo, un vero manicaretto pei palati patagoni.
Da ultimo mostrò una bottiglia piena di aguardiente, una specie di acquavite di provenienza spagnola, trovata forse nella dispensa di qualche nave naufragata su quelle coste e serbata con grande cura per le occasioni eccezionali.
Il signor Calderon, che moriva di fame, poichè da due giorni non toccava cibo, si gettò avidamente sui bulbi, sulle radici e sulle patate selvatiche e bevette un buon litro di sangue caldo, malgrado fosse orribilmente salato.
Un abbondante sorso di aguardiente, che gli restituì prontamente le forze, pose fine a quello strano pranzo.
Il capo, che aveva assistito a quella scorpacciata con visibile soddisfazione, quando vide che il figlio della luna aveva terminato, gli offrì una pipa di legno colla cannuccia d’argento, carica d’un eccellente tabacco, detto golk, che il signor Calderon si affrettò ad accendere, servendosi del suo acciarino, quantunque il previdente patagone gli avesse presentato il suo unitamente ad un certo fungo che si raccoglie ai piedi delle Ande e che, ben seccato, serve di esca.
— Siedi, capo, — disse il figlio della luna, dopo di aver aspirato alcune boccate, — e se vuoi, discorriamo un poco.
Il patagone ubbidì, sedendosi colle gambe incrociate, alla moda dei turchi.
— Dove sono disceso? — chiese l’agente del Governo.
— Presso il Rio Negro.
— Dove vai?
— Dove vorrà il figlio della luna.
— Credi che io rimanga con te?
— Giacchè sei venuto da me, vi resterai: così vuole la mia tribù.
Il signor Calderon non potè rattenere un gesto d’impazienza e di dispetto.
— E se io volessi andarmene? — chiese.
— Te lo proibirei.
— Anche se tornasse la luna a prendermi?
— Terrei con me anche la luna e la farei vedere ai miei compatrioti del Sud.
— Ma cosa intendi di fare di me?
— Lo stregone della mia tribù, giacchè l’altro è morto. Tu discendi dal cielo e ci proteggerai come lo stesso Vitamentru, ci darai selvaggina in abbondanza, curerai i nostri guerrieri e le nostre donne, e noi saremo tutti felici.
— Bella prospettiva in verità! — mormorò il signor Calderon coi denti stretti. — Bah! Durerà fin che durerà.
Poi, volgendosi bruscamente verso il capo, gli chiese:
— Hai incontrato degli uomini bianchi?
— Vengo dal sud, e non vidi che uomini rossi.
— Questi uomini mi abbisognano, capo.
— Chi sono?
— Figli della luna come me.
— Dove si trovano?
— Sono discesi verso il nord.
— Sono potenti?
— Come e forse più di me.
— Auh! — fe’ il capo. — La mia tribù sarà la più potente e la più felice della terra dei Tehulls. Questi uomini si cercheranno appena i miei cavalieri saranno di ritorno colla luna.
— La luna non si lascerà prendere, capo.
— Perchè?
— Perchè risalirà in cielo ad illuminare le terre dei Tehulls.
— Ben detto! Ora che ti sei riposato, bisogna che tu venga con me.
— Dove mi conduci?
— Lo saprai più tardi.
Il capo si alzò e battè le mani. La coperta che chiudeva la tenda si alzò, e il signor Calderon potè vedere un bellissimo cavallo, che scalpitava a pochi passi di distanza, trattenuto a gran fatica da un guerriero di statura gigantesca.
— Vieni, o figlio della luna, — disse il capo.
Il signor Calderon, quantunque desiderasse di fare una bella dormita, si alzò e uscì, non dimenticando di portare con sè le pistole, sulle quali molto calcolava in caso di disgrazia.
Benchè fino allora il capo patagone si fosse mostrato verso di lui pieno di attenzioni, egli ricominciava a ridiventare inquieto, ignorando il motivo di quella gita misteriosa; pure, ben sapendo che una resistenza sarebbe stata del tutto vana, anzi assai compromettente, finse di far buon viso alla cattiva fortuna.
Hauka osservò il cavallo con profonda attenzione di uomo che se ne intende, poi gli gettò sulla groppa una grossa coperta araucana, sovrapponendovi la tusk, che è una grande sella, ben fatta, di legno ricoperto di pelle, e passò in bocca al destriero il morso, che è di legno, fornito di solide briglie di pelle intrecciata.
Afferrò poscia il signor Calderon e, senza sforzo alcuno, lo mise in sella, legandogli ai piedi due strani speroni, detti watercu, composti di due cilindri di legno, forniti di un chiodo molto acuto.
Appese alla sella le staffe, che sono di legno ben pulito, coll’arco di pelle, poi balzò su di un altro cavallo che era stato già bardato. Ad un suo fischio tutti i guerrieri che erano nel campo inforcarono i loro cavalli e si misero dietro al figlio della luna in maniera da impedirgli ogni tentativo di fuga.
— Andiamo, — disse il capo.
— Ma dove mi conduci? — chiese ancora il signor Calderon, le cui inquietudini crescevano.
— Lo saprai ben presto.
— Ricordati che io sono il figlio della luna, e che con un solo cenno ti posso far morire.
— Hauka è buono, — si accontentò di dire il capo. — Partiamo, chè il tragitto è lungo.
I cavalli, spronati vigorosamente, partirono di carriera, scomparendo verso le grandi praterie del sud.