Il sorbetto della regina/Parte seconda/VI
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CAPITOLO VI.
Il domani d’un debutto.
Dopo di aver curata la ferita e fatta la legatura dell’arteria, Bruto non volle permettere che in quella notte il marchese fosse trasportato a casa sua. Non temeva un’emorragia, ma credeva opportuno che il ferito restasse tranquillo fino al giorno dopo.
Non una parola del duello fu pronunziata. Bruto dimenticò perfino di chiedere la causa di quell’accidente. Non vedeva che il ferito e non l’uomo che aveva sedotto Cecilia e l’aveva abbandonata incinta, che aveva rapita Lena e l’aveva fatta scomparire. Si riservava, però, appena guarito, di mettere in chiaro questi due fatti.
La febbre si dichiarò durante la notte. Il marchese aveva proibito a’ suoi amici di avvertire i suoi parenti dell’avvenuto, onde non sgomentarli prima di rientrare nella sua abitazione.
Fece forse qualche eccezione a questa raccomandazione, parlando a bassa voce a colui che aveva chiamato col nome di Camillo, il contino di Sala. Perocchè il mattino di quel giorno stesso, una carrozza si fermò davanti la porta dell’ospedale ed una giovane signora dimandò al portinaio dove fosse il ferito della notte precedente.
Il portinaio, che aveva il culto della carrozza e della mancia, si prese il disturbo di accompagnarla fino alla sala d’aspetto del chirurgo di guardia.
Erano precisamente le nove e Bruto aveva lasciato il marchese assopito sotto l’accesso della febbre, che era al punto culminante del suo parossismo. Alla prima parola che disse la dama alzando il suo velo, sclamarono reciprocamente riconoscendosi:
— Il signor Bruto!
— La signora Lena!
Non so se l’ho già detto, in ogni caso lo ripeto, questi due giovani si erano parlati qualche volta da una finestra all’altra, mentre l’uno studiava le malattie di cuore in casa di don Noè e l’altra cuciva e ricamava presso sua madre. Avevano forse scambiato qualche idea che loro passava pel capo; ma essi si erano certamente meglio intesi che non si erano parlati.
La povertà si vede. Le privazioni e la fame non avevano bisogno di grande eloquenza per rendersi note. Ma ciò che Bruto e Lena avevano sottinteso allora, o soppresso come una inutile spiegazione, era la simpatia che la miseria provava per la povertà e l’unica consolazione che si davano a vicenda per uno sguardo.
Quante rivelazioni e quante storie non vi sono in uno sguardo a vent’anni!
Essi si incontravano ora, dopo appena un anno, e in che condizioni?
Lena, in tutti gli addobbi della ricchezza, veniva a visitare il suo amante.
Bruto, medico alla moda, chirurgo dell’ospitale, vegliava sulla vita di questo amante.
Il conte di Sala aveva forzato la porta d’Ondina a sette ore del mattino e le aveva raccontato tutta la storia della notte nei suoi più minuti particolari.
Dopo l’esclamazione di riconoscenza reciproca, involontaria, istintiva, istantanea, tutti e due arrossirono e tutti e due rientrarono immediatamente nella coscienza della loro situazione.
— Scusi, signora: potrei avere l’onore di offrirle i miei servizi in qualche cosa?
— Dio mio, signor Bruto, non vorrei incomodarla per visitare il ferito della scorsa notte.
— Il marchese di Diano dorme, signora. Egli è affranto dalla febbre. Può vederlo ella stessa aprendo un po’ quella porta, se la non mi crede. Ella può entrare a svegliarlo all’improvviso, se non vuole attendere alcuni istanti ch’ei si desti tranquillamente, da sè solo, quando la febbre sarà un po’ calmata.
— Ma codesta febbre si prolungherà forse?
— Comprendo la di lei impazienza, signora....
— Non è questo, dottore; gli è che a mezzogiorno bisogna ch’io sia alla prova a San Carlo.
— Al San Carlo? disse Bruto.
— Voi non sapete, dunque, che l’Ondina che ha esordito ieri sera con così grande successo, ne sia ringraziato Dio! sono io? Non sapete che il duello, che ha avuto luogo fra il marchese e quell’orribile sergente, mutilato e zoppo, gli è a causa di me?...
— Come! Come! un duello, un sergente al quale manca un braccio ed una gamba... signora Lena, e quel sergente è...
— Un maledetto spadaccino, un uomo sitibondo di sangue, un furioso: e non è stato neppur ferito. Dio! dormiva, dunque, a mezzanotte?
— Dio mio, te ne ringrazio, esclamò Bruto fuori di sè.
Lena ripetè a Bruto tutta la storia, che il conte di Sala le aveva raccontato due ore prima; Bruto aveva riconosciuto il colonnello alla prima parola.
— Come tutto s’intreccia sotto il soffio del destino! Se tu sapessi, Lena.... Ma, no, non qui, non qui.... Raccontarlo qui è impossibile. Pronunziare il suo nome alla porta di questo ferito, che è il tuo damo, sarebbe un sacrilegio.
— Tu mi allarmi e m’impaurisci, Bruto. Cosa è dunque? Vieni da me allora....
— Da Ondina?
— No, no, da Lena. Qualunque sia la mia sorte, qualunque sia la tua, permettimi di non essere mai sempre per te che la povera affamata e pezzente, che hai conosciuta onesta, per tanti mesi.
— Sì, bisogna ch’io ti parli e che tu sappi tutto.
— T’aspetto. Da tre ore in poi, la mia porta chiusa per tutti, anche per Donizetti, anche pel mio vecchio maestro Coralto. Ho anch’io tante cose da dirti.
Bruto si precipitò per la scala e partì. Ei non voleva esser presente ai colloquio fra Ondina ed il marchese.
A tre ore precise, però, batteva alla porta della cantante all’albergo di Nuova York, a Chiaja, accompagnato da don Gabriele. Bruto aveva forse paura di trovarsi faccia a faccia, solo, colla prima donzella che avesse amato e che forse amava ancora.
Lena, vestita molto semplicemente, lo aspettava.
Appena Bruto apparve sulla soglia, Lena corse verso di lui ed e’ verso lei per una attrazione irresistibile. I loro sguardi si abbracciarono, mentre le mani si stringevano. Tutti e due parlavano ad un tempo e con precisione. Bisognò che don Gabriele, presentato in regola, assumesse la presidenza di quella riunione.
Passo sui preliminari, in cui Lena e Bruto schermirono a chi parlasse primo, tanto l’uno era ansioso di conoscere le rivelazioni dell’altra. Ma la parola restò, come era da aspettarsi, a Lena.
Fatto è però che ella divagava e si perdeva nei ricordi e negli episodi, poichè Bruto fu forzato a ricondurla alla questione, perchè gli ardeva sapere: le sue relazioni col marchese e la sua prima recita al San Carlo.
— Non ho nulla a rimproverarmi, esclamò Lena e voi potete credermi tanto più che non accuserei mia madre ora che la è morta. Non conobbi la mia disgrazia che quando era già irreparabile. Aveva però lottato, lottavo da quattro anni, tutti i giorni, a tutte le ore del giorno e della notte. La mia perdita era divenuta per la povera donna una idea fissa, quasi un sentimento del suo dover di madre, la risposta che doveva dare alla Provvidenza ed alla società, un atto di giustizia, una religione di famiglia, un’abnegazione e, sopratutto, il segreto pel pane quotidiano. Le sue sventure l’avevano inspirata e non le avevano nulla insegnato.
— Le sventure hanno sempre questo risultato, osservò don Gabriele. Ma, infine, come codesta catastrofe fu consumata?
— Nella maniera la più semplice e forse la più comune. Era la sera della seconda rappresentazione del Violinista di Cremona. Mia madre era felice. “Faremo una piccola festa fra noi due, mi disse rientrando. Ho comperato delle sfogliatelle e una bottiglia di malaga. Che baldoria, piccina!„ Trovai, infatti, tutto ciò preparato su una tavola quando tornammo a casa. Mia madre accese due candele. Mangiammo. Prestai poca attenzione a ciò che faceva mia madre sempre in piedi ed affaccendata. Bevvi due piccoli bicchieri di quel vino dolce, ma di un singolare sapore. Poi, siccome le emozioni mi avevano stancata e mi pesavano più sul cervello che sul cuore, andai a coricarmi, dopo aver chiusa io stessa la porta della nostra camera. Dormii di un sonno pesante, doloroso, agitato, pieno di incubi e di orribili sogni. Mi svegliai tardi il mattino. Aprendo gli occhi, vidi mia madre che preparava tre tazze di caffè al latte. Volgendomi dall’altra parte.... gettai un grido e svenni.
— Come! gridò Bruto orribilmente pallido.
— Il marchese tenevasi vicino al mio letto.... mia madre m’aveva venduta.
— Oh! l’infame! l’infame!
— Bruto, ella è morta di tifo, all’ospitale, miseramente, pentita forse, in delirio, credendosi inseguita dalla polizia. Non insultiamo alle ceneri d’una tomba.
Seguì un istante di silenzio.
— Dopo questo esordio si comprende il resto, osservò don Gabriele.
— Il resto non fu senza lotta, nè senza nuove astuzie. Io resisteva sempre, quantunque il malore fosse oramai irreparabile. Le promesse non mi seducevano punto. Il marchese mi faceva orrore altrettanto che paura. Non volli più uscire di casa. Non cedetti neppur alla violenza. Mia madre era una tempesta. Il marchese invece, dopo le prime collere, si raddolcì e sembrava non aspettare più nulla che dalla mia volontà.
— Scellerato e ipocrita!
— Un giorno mia madre mi portò una lettera, che diceva essere della Tessari, colla quale quella eccellente donna mi invitava a passare la sera da lei alla Barra, alle porte di Napoli. Accettai. La lettera era falsa. Il marchese e mia madre avevano combinato insieme che andremmo tutti e tre a passare un mese nella sua casa di campagna ai piedi del Vesuvio. Partimmo, infatti, la sera.
— Era un tranello!
— Arrivati alla porta del palazzo Serignano, mia madre discese, sotto pretesto di andar a cercare non so che involto per la Tessari. Andava ad avvisare il marchese che io era nella carrozza. Io non sapeva neppure che costui abitasse colà! Mia madre salì da lui. Egli aveva data l’imbeccata al domestico. Mentre questi agiva lentamente, facendo passeggiare mia madre nell’appartamento in cerca del suo padrone, questi scendeva, dava un ordine al cocchiere, apriva lo sportello della carrozza e mi si sedeva vicino dicendo: che mia madre, dopo matura riflessione, si trovava troppo mal vestita per accompagnarmi ad un ricevimento di sera dalla prima attrice dei Fiorentini e che avendolo incontrato per caso ella l’aveva pregato di accompagnarmi fino alla porta di quella signora. Ciò mi parve equivoco. Volli discendere. La corrozza, partita, andava già di carriera. Il marchese mi rattenne. Io volli aprir la finestra e gridare. Egli vi si oppose colla forza. Andavamo dalla parte di Chiaia. Vidi la villa ed il mare. Lottai ancora perchè compresi tutto. Il marchese mi spaventò allora, prendendo un’aria terribile.
— Miserabile! gridò Bruto.
— Ascoltate insomma. Il marchese mi condusse in una casa di campagna, in cima alla collina di Posilipo.
— Infame! infame! continuava a gridare Bruto.
— Là, però, egli si mostrò tutt’altro uomo. Egli mi preparava una sorpresa. Quella bella casetta di campagna era abitata dal maestro di cappella Antonio Coralto, dalla sua vecchia moglie e da un servitore. Il marchese mi presentò come sua sposa.
— Come sua sposa! sclamarono don Bruto e don Gabriele.
— Il maestro Coralto era un vecchio amico di casa. Aveva dato delle lezioni di musica alla madre del marchese; forse era stato uno dei più intimi amici della Principessa di Noto, che ai suoi tempi passava per esser molto galante. Il maestro aveva tenuto sulle ginocchia il marchese quando era fanciullo. L’amava. E il marchese l’amava pure al modo che egli sapeva amare. Aveva, dunque, detto al maestro che mi aveva sposata, contro la volontà di suo padre, in segreto e che desiderava restar nascosto. Questa delicatezza dalla parte d’un brigante mi toccò un poco.
— Che generosità, infatti! disse Bruto.
— Dal giorno dopo, soggiunse Lena, io divenni l’allieva del dotto ed abile professore. Il marchese voleva farsi perdonare l’infamia del presente, preparando il mio avvenire.
— Comprendo ora il tuo debutto, disse Bruto.
— Il mio debutto è l’opera del caso. Appena il maestro Coralto ebbe udita la mia voce, si entusiasmò. Se avesse potuto trasfondere nel mio capo, con un fiat, tutto quello ch’egli sapeva, l’avrebbe fatto. Io era, diceva egli, la gloria della sua vecchiezza, l’ultima emozione. Aveva poco da fare in quanto alla mia voce, ma le diede il brillante e m’insegnò a servirmene con riserbo, come si serve degli ornamenti, a proposito, con gusto e con moderazione. Ma egli doveva insegnarmi altresì la parte materiale della musica. Il maestro Coralto era, come e’ diceva, uomo da sintesi e procedeva dalla sintesi all’analisi. Egli mi fece adunque cominciare dove gli altri finiscono, dal più difficile. In quella solitudine alle porte di Napoli, passavamo tutte le giornate insieme, al cembalo. Ebbi bisogno di stordirmi dapprima, poi la passione dell’arte s’impadronì di me, come avrebbe potuto fare l’amore. Io non camminava più, volava. Raddoppiammo le tappe. Il maestro, egli stesso, non aveva più fiato a seguirmi.
— È dunque vero, disse don Gabriele, che spesse volte le disgrazie stesse sono in fondo fortuna?
— Io aveva inoltre una memoria prodigiosa. Mi bastava leggere uno spartito una o due volte per ricordarmelo nei suoi più minimi particolari o di supplirvi con gusto, se qualche passo mi sfuggiva. Imparai così, opera sur opera, Donizetti, Bellini, Mercadante, Rossini, Ricci e Pacini. Il marchese mi portava dei carichi di musica ogni volta che riveniva da Napoli; dopo esser restato quattro mesi sulla collina senza ritornarvi. E’ diceva di esser perseguitato dall’amor geloso di non so che principessa.
— Che? sclamò Bruto, sarebbe ancor egli che è passato per di là? Come la chiamava codesta dama?
— La principessa di Kherson.
— È proprio lei, mormorò Bruto di aria abbattuta.
— Cos’è codesta nuova storia? chiese Lena.
— Continua, continua, rispose Bruto.
— Un giorno il marchese rivenne a Posilipo con delle notizie della città. Il principe di Joinville era giunto colla sua nave e doveva lasciar Napoli nella settimana. Egli aveva letto nei giornali che la Linda di Chamounix era uno dei più belli spartiti di Donizetti. Si rappresentava appunto allora al San Carlo; egli quindi si era fermato nella rada alcuni giorni per udirlo. Figuratevi il dolore del maestro Donizetti! La Frezzolini era ammalata e l’opera era stata ritirata dalla scena. Malanno! dissi io, gli è proprio un peccato? La Linda è un gioiello del gran maestro ed è l’opera che io canto meglio fra le sue. Il maestro Coralto non aprì bocca in tutta la sera e cantammo la Linda da un capo all’altro. Al domani all’alba egli era partito per Napoli. A undici ore ritornò, seguito da uno sconosciuto — un grande e bell’uomo, con un gran naso e dei grossi mustacchi neri. — Il discorso cadde sul disappunto del povero Donizetti. Linda era ancora sul cembalo. Non so come ciò avvenisse: vi sono delle attrazioni invincibili. Un quarto dopo ci trovammo al cembalo a suonare la Linda che io cantai dalla prima all’ultima nota. Quando fu finito, lo sconosciuto mi saltò al collo come un pazzo e mi abbracciò coll’entusiasmo d’una forza di mille cavalli. E mi disse il suo nome. Era Donizetti in persona. Fui scritturata per cantare la Linda, due sere dopo, in luogo della Frezzolini.... Voi sapete il resto.
— No, disse Bruto.
— Ebbene, il marchese interpellò un sergente che gli sedeva vicino e gli chiese perchè non applaudisse come gli altri. E’ non aveva osservato forse che gli mancava una mano. La questione si riscalda; escono; il sergente via; il marchese lo insegue; lo raggiunge in piazza dei Fiorentini, sotto un lampione, si fa cerchio, si obbliga il sergente a battersi e quello orrendo monco....
— Taci, taci, gridò Bruto, non dire una parola di più contro quell’uomo.
— Lo ripeto, quell’orrido....
— Taci, Lena, tu offendi Dio. Sai tu chi è quel sergente, quell’uomo che insulti?
— Un mal accorto, ad ogni modo, disse Lena ridendo, poichè poteva uccidere il marchese e l’ha risparmiato?
— Quel sergente è il colonnello Colini, amico mio, barone dell’impero. È commendator della Legion d’onore. Napoleone lo nominò conte e generale sul campo di battaglia a Waterloo, ove il colonnello ebbe una gamba portata via da una palla di cannone! Ora, mentre egli languiva in un ospedale del Belgio, il duca di Berry lo qualificava avventuriere italiano e rinviava a Napoli il colonnello mutilato. Ed ora sai tu chi è questo colonnello?
— Poco m’importa. In ogni caso non è mica di lui che tu devi parlarmi. Vieni alle rivelazioni che m’hai promesse.
— Ah! le conoscerai queste rivelazioni; sì, Lena, ti dirò tutto. Poichè questo povero colonnello di Napoleone, cui i Borboni di Napoli non hanno voluto riconoscere che come un sergente del loro general Mack, questo povero barone, di ritorno a Napoli, uscito di prigione, rinviato nel suo villaggio in Basilicata, è alla ricerca, dal 1815 in poi, della disgraziata donna che aveva amata. Comprendi? Dal 1815, senza posa, senza disperare, senza stancarsi; con tutti i mezzi che ha potuto adoperare, egli l’ha chiesta a Dio, agli uomini, alla polizia, al clero, alla città, alla notte, ai suoi amici, ai suoi sogni, alle strade infami, ai conventi, dappertutto, sempre, egli la cercò quella Giuseppina che era la madre della sua figlia.... Tu non sai che questo colonnello, che ha tanto amato, è la creatura la più nobile di Napoli.
La probità, l’onore, la generosità di carattere, la fierezza, la rassegnazione, nulla gli manca; null’altro che quella donna che era infame e che è morta; e quella figlia che è disonorata.
— Che vuol tu dire? gridò Lena.
— Codesto sergente di Mack e di Ferdinando Borbone, continuò Bruto, codesto colonnello barone Colini era l’amante di tua madre, Giuseppina allora, Serafina poi, quando volle sottrarsi alle ricerche della polizia; e codesta figlia del colonnello, questa figlia ch’egli cerca da tanto tempo, sei tu, Lena.
— Bruto, Bruto! urlò Lena, alzandosi d’un balzo come una tigre, la voce soffocata, gli occhi scintillanti....
— Noi te l’abbiamo condotto, Lena, e’ venne con noi nella soffitta ove tu stavi, io gli preparava un compenso all’orribile dolore, alla vergogna ch’ei doveva provare vedendo tua madre; io gli preparava una gioia nella figlia.... Madre e figlia erano sparite! la madre per espiare colla morte, la figlia per continuare la vergogna e l’infamia della madre....
— Bruto, Bruto, abbi compassione di me! sospirò Lena gettandosi nelle braccia del giovane e singhiozzando sul suo petto.
— Ed ora giudica tu stessa, Lena! Posso io presentarti a quest’uomo pieno d’onore? Posso presentarti al barone Colini, colonnello della grande armata e dirgli: Ecco tua figlia, l’è Ondina: ella è la ganza del marchese di Diano.
— Giammai!, oh! giammai, sclamò l’infelice creatura. Meglio sarebbe restar orfana. Ma io voglio vederlo. Trova una scusa per presentarmi a lui, per condurlo da.... No, no, qui no; da Ondina, giammai. Andiamo da lui. Vado a ringraziarlo d’essersi battuto per me.... Io non sono obbligata a conoscere la verità. In fine, inventa, cerca, io sono una tua sorella, tua madre, la tua amante; no, no, questo, tua cugina. Ma andiamo, andiamo presto.
E in pari tempo suonava e domandava una vettura. Bruto e don Gabriele non ebbero il tempo di collocare un’osservazione, di prendere una determinazione. Lena s’impadronì del braccio di Bruto, lo trascinò e lo spinse nella vettura che attendeva sotto il vestibolo.
— Andate, disse Lena al cocchiere.
— Dove? dimandò costui.
Don Gabriele diede l’indirizzo e montò in predella.
Un quarto d’ora dopo scendevano alla porta della casa di Bruto. Non una parola durante il tragitto. Lena saltò giù per la prima senza dare neppur tempo al cocchiere di aprire lo sportello. Afferra Bruto pel braccio e sale, corre, vola su per la scala. Bruto si fermò alla porta, che trovò aperta. Tartaruga nell’anticamera pregava e piangeva.
— Cosa è dunque avvenuto?
— Vergine Immacolata! Santa Trinità! sangue puro del nostro Signore Gesù Cristo! sclamava Tartaruga terrorizzata, fuori di sè; la polizia è venuta poco fa e l’ha arrestato!
— Chi? chi? gridarono Lena, Bruto e don Gabriele.
— Il colonnello.
Lena cade svenuta sopra una sedia.