Il sorbetto della regina/Parte seconda/VII

Parte seconda - VII. I progetti

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CAPITOLO VII.


I progetti.


Non bisognava confidare in Bruto, nè in Lena per trovar le tracce del colonnello. L’uno e l’altra perdevano la testa. Don Gabriele sentì che era suo dovere cavarli d’impaccio. La cosa d’altronde si spiegava da sè stessa. Fuina non fece che completare le informazioni. A Napoli il duello era punito coi lavori forzati. La gente, che abitava il cortile ove il marchese ed il colonnello s’eran battuti, aveva parlato.

La polizia aveva seguìto le tracce dei combattenti dalla provocazione in teatro fino allo scioglimento.

Il connotato di un militare monco di un braccio e di una gamba indicava chiaramente il colonnello, già inscritto nei registri della polizia per altre ragioni. La ferita del marchese lo denunziava. Era facile ricostruire la verità sopra queste indicazioni.

Il colonnello fu arrestato.

La polizia arriva dal marchese al momento in cui e’ veniva di spulezzar dal suo nido. [p. 213 modifica]

Tutta Napoli parlava di questo avvenimento, esagerandolo od estraendone i numeri al lotto. Il re ne fu istrutto. Suo fratello don Antonio, principe di Caserta lo seppe anch’egli. Ora, questo principe amava il marchese di Diano, di cui divideva i gusti, il carattere e il genere di avventure. Sapendo che costui era sul punto di essere arrestato, don Antonio gli aveva mandato il suo cavaliere d’onore, il quale sguizzò il ferito in una vettura colla livrea del principe e lo condusse via.

Una lettera del marchese a Lena, ed un’altra a Bruto, svelò loro il sito ove il marchese si nascondeva. E’ li chiamava presso il suo letto per ragioni diverse; l’amante per alleviare, il medico per guarire la ferita. Il marchese non sapeva nulla di Bruto, dei suoi affari, delle sue relazioni. L’aveva visto ed aveva inteso parlare di lui, per la prima volta, al letto dell’ospitale de’ Pellegrini.

Questa spiegazione era necessaria, per ciò che segue.

Il marchese era, dunque, in una casa di campagna — parco di dissolutezze — del principe di Caserta, a Quisisana, vicino a Castellamare. Che la polizia osi, dunque, di andarlo a cercare in quella amabile fortezza!

Lena non disse nulla a Bruto della lettera del marchese, come questi non parlò della sua a Lena.

Questa lettera era per lui un secreto di professione.

Prima di recarsi al ritrovo, assegnatole dal marchese, Lena volle parlarne a don Gabriele, il [p. 214 modifica]quale le sembrava uomo di buon consiglio, poichè Bruto non faceva nulla senza consultarlo.

— Voglia vederlo per l’ultima volta, disse Lena. Il marchese ha dei difetti mostruosi, ma ha pure degli slanci nobili e generosi. Quando gli avrò detto chi sono — e da ieri sono e resterò la figlia del colonnello barone Colini — quando gli avrò appreso ciò che voglio fare per mio padre, il marchese rinunzierà a me. La mia franchezza lo toccherà. Si getterà nelle fiamme onde venirmi in aiuto.

— La partita è pericolosa, mormorò don Gabriele riflettendo; però, checchè ve ne paia, ricordatevi di vostro padre, e rinunziate a lui per sempre.

— Giammai. Io penso, al contrario, alla mia riabilitazione. — Ma avanti di presentarmi, bisogna che io gli faccia dimenticare gli ultimi anni della madre e gli ultimi mesi della figlia. Ho di già il mio progetto.

— Quale?

— Vi ho fatto venire per parlarvene. Il principe di Joinville, che è partito questa mattina, ha promesso a Donizetti che avanti quindici giorni gli avrebbe fatto inviare un contratto di scrittura al Teatro Italiano di Parigi per me. Accetto, qualunque siasi la paga ch’e’ m’offrono.

— Lasciate Napoli, dunque? E vostro padre che è in prigione e che potreste raccomandare?....

— A chi? e come? a qual prezzo lo raccomanderei io in questa infame città, sotto questo infame governo? Voi non riflettete, dunque, più chi son io, e che volendo essere ciò che [p. 215 modifica]sono, non ho alcuna presa sui ministri del re. No, andrò a Parigi. Donizetti mi accompagna. Egli è amato e stimato in Francia. Il principe di Joinville non gli rifiuterà ciò ch’egli gli chiederà in mio ed in suo nome. Arrivati a Parigi otterrò che l’ambasciatore di Francia reclami mio padre come colonnello dell’esercito francese. Poi ritorno portando meco il riconoscimento di mio padre come colonnello di Napoleone e barone dell’Impero, la sua sorte messa in regola dal ministro della guerra del Re Luigi-Filippo, il suo ritiro dal servizio attivo come invalido e la sua pensione come quella degli altri militari dell’Impero.

— Ah, se non fosse un sogno ciò che dite là, signorina! esclamò don Gabriele.

— Non è un sogno. Io non ho detto che si trattava del mio proprio padre; ma ho costrutta una storia su questo subbietto. Donizetti ha promesso di aiutarmi e mi diede buone speranze. Nè ciò è ancor tutto.

— Cos’altro allora?

— Manderò a mio padre, in una scatola d’oro, il dispaccio del ministro della guerra francese, senza dirgli ancora chi sono. No. Non voglio presentarmigli nè sotto il nome di Lena, nè sotto quello di Ondina, che devono ricordargli tristi memorie e ridestare dolori che non possono esser lenti. Voglio darmi a conoscere a lui sotto il nome di mio marito.

— Come, disse don Gabriele, avete già un marito in aspettativa?

— E da molto tempo. Ma, ahimè! L’è forse un mio vaneggiamento. Mi vorrà desso? Ascol[p. 216 modifica]tate, voglio svelarvi il mio secreto. Amo Bruto. L’ho amato da quel giorno in cui, dalla finestra di rincontro alla mia, il primo suo sguardo col mio s’incrociò.

— Ciò data da lontano allora.

— Ma, dal giorno del suo arrivo a Napoli. Da quel giorno, io non ho avuto che lui dinanzi agli occhi. Per lui, avrei voluto restare onesta fanciulla. Se ho tanto combattuto, gli è a causa di ciò. Egli era la stella che mi guidava. Quando avevo fame pensavo a lui. Lo sposai all’altare della miseria. Credetti che anch’egli mi amasse. Una donna indovina codesto. L’aria che la circonda chiacchiera e canta. L’ho ritrovato triste, serio, direi quasi schiacciato da qualche cosa che pesa su lui. Ho creduto per un momento che amasse altrove.

— Ah! voi avete creduto ciò?

— Sì, ma se ciò fosse stato, mi sono poi detta, e’ non sarebbe venuto a me, alla Lena.... si sarebbe forse recato da Ondina, tutt’al più. Ha avuto degli slanci che lo hanno tradito. Ma e’ mi sembra gemere sotto il peso di qualche fatalità occulta. Quale? Don Gabriele vi ho chiamato per questo. Io ve lo chiedo.

Don Gabriele, che era divenuto pensieroso, grave, serbò il silenzio.

— Don Gabriele, continuò Lena dopo aver aspettato per alcuni istanti una risposta, se è un secreto non voglio conoscerlo. meglio, non voglio sapere che una cosa: Ama egli un’altra donna? È maritato? Mi crede desso troppo indegna di lui, anche dopo il mio pentimento e le promesse, che gli ho fatte e che manterrò? [p. 217 modifica]

— Io vorrei con tutto il cuore, signorina, darvi una risposta precisa a ciò che domandate; ma in verità non ne so nulla. Bruto è cangiato. Egli soffre certamente di qualche cosa che rassomiglia ad un cordoglio, ad un rimorso, ad una disperazione, qualche cosa di fatale insomma. Ma che è mai? Io l’ignoro. E’ mi ha detto nulla. Quando l’ho interrogato, ha evitato di rispondermi.

— Ma avete mai sospettato che codesta tristezza potesse essere un amore contrariato?

— Per taluni indizi, oggi sì; domani no, per altri indizi contrari.

— Farei bene a parlargli io stessa di tutto codesto?

— No. Non ancora, almeno. Lasciatemi scandagliarlo. Ho un sospetto. È mestieri che io lo chiarisca.

— Ascoltatemi, don Gabriele, perocchè occorre che voi mi conosciate altresì. Se ho il gorgheggio dell’usignuolo, come mi dicono, e le apparenze d’una colomba — ciò che non ammetto — io ho pure gli artigli dell’aquila ed il rostro ricurvo come il pugnale dei sultani di Granata. Se Bruto ha un’agonia di amore in cui si delizia, che Dio gli venga in aiuto. Non sarò certo io che andrò a turbarlo con un intervento mal abile. Ma se egli soccombe sotto codesto dolore! Oh!.... allora, per liberarnelo, oserò tutto, perfino il delitto. Procurate, dunque, di sapere e siate pronto ad aiutarmi quando l’ora sarà suonata.

— Voi avete la tempra di qualcuno che sa tenere un secreto, rispose don Gabriele. Fino a [p. 218 modifica]questo momento, io ho esitato a svelarlo, codesto secreto, perocchè io mi dicevo: E poi? quando l’avrai conosciuto? Cosa puoi fare, tu solo, se e’ rifiuta di sottrarsi al suo malore? Ma ora che siamo in due, intraprendo l’esplorazione e vi terrò a giorno del risultato. Ciò non durerà guari. Infrattanto, andate a trovare il marchese a Castellamare!

— Non vi andrò sola, replicò Lena. A cominciar da oggidì, io sono la figlia del colonnello.

— Ebbene! riprese don Gabriele, v’accompagnerò io e, se occorre far perdere le orme alla polizia, contate su me.

— Accetto, disse Lena. A domani, dunque.

L’indomani mattina, alle otto ore, con una giornata magnifica, ed un sole, che riempiva l’aria di pagliuzze dorate, un signore singolarmente azzimato si presentava all’albergo di Nuova-York.

Un cappello ad alto cucuzzolo e larghe falde copriva un capo ornato di capelli rossi, che finivano in coda dietro la nuca e scendevano a ricci sopra le orecchie. Un paio di occhiali d’oro servivano di paravento agli occhi e di sella ad un naso corto ed aperto, delicatamente spolverato di tabacco. La statura di questo personaggio sarebbe stata mezzana, se la forma de’ suoi abiti non gli avesse dato il miraggio di una grande persona.

Portava brache di nankin, attillate alle forme, piuttosto corte, tese da staffe della stessa stoffa, le quali staffe attaccavano egualmente ai piedi scarpini di pelle verniciata. Ciò non impediva ad un bel paio di calze scozzesi di far bella [p. 219 modifica]forma delle loro righe e dei loro colori. Un abito a coda di rondine, color verde, bottoni dorati, vita corta, aperto davanti, permetteva agli ammiratori dell’eleganza di contemplare un giustacuore di pel di capra color giallo canario, dalle tasche del quale pendeva un cespuglio di ciondoli, composto a proposito per tentare la virtù dei tagliaborse.

I bottoni, gli anelli, gli scheggiati, completavano la chincaglieria del personaggio ed una larga cravatta rossa metteva tutto in rilievo. Portava guanti gialli, bastone a borchia d’oro cesellata ed un lungo paio di manichetti facevano riscontro al merletto della camicia. Il suo andare era grave e leggero nel medesimo tempo, ciò che annunziava l’agilità del corpo e la maturità dello spirito. La sua testa alta un po’ piegata sulla spalla dritta, indicava un uomo sicuro di sè stesso, che voleva esser obbedito, faceva a sua voglia ed imponeva altrui la sua volontà. Il sorriso regnava sulle labbra. Egli era contento di sè.

Parlava italiano, ma il suo accento tradiva diabolicamente la sua provenienza britannica. Gli si sarebbero dati quarant’anni, se la sua pancia che si rotondava senza cerimonie sopra delle cosce corte e delle gambe lunghe e stecchite, non avessero modificato la prima impressione e aggiunto una decina d’anni all’insieme della sua persona.

Questo gentiluomo si fece annunziare a Lena, o meglio ad Ondina, sotto il nome di lord Adam Tugmutton.

— Non conosco l’animale che risponde a [p. 220 modifica]questo nome, disse Lena, senza lasciare il gabinetto, ove la s’acconciava.

Il cameriere dell’albergo riportò questa risposta, corretta del sostantivo animale, tradotto in quello di milord.

— Ah! ah! ah! rispose milord Adam; capisco. Dite alla signora Ondina che lord Adam ha bisogno di parlarle.

— Rispondete a codesto Adamo, replicò Lena, che Eva non ha ancora messo il suo grembiale di foglie di fico e, che se egli ha da parlarmi, e’ può deporre il suo discorso dal portinaio.

Il cameriere riportò la risposta, senza farla, questa volta, passar per la censura.

— Ah! ah! ah! obbiettò milord ridendo; dite alla signorina che il mio discorso ha la podagra e non può discendere dal portinaio.

— Rispondete a milord, replicò Lena, che milady si mette in viaggio fra mezz’ora e che gli permette di attendere fino al suo ritorno.

— Ah! ah! ah! rispondete a milady, che milord preferisce di accompagnarla nel suo viaggio, lasciando nel salone, per attendere milady, il suo discorso e la sua gotta.

— In questo caso, che vadi al diavolo, gridò Lena.

— Ah! ah! ah! concluse milord, in questo caso, prego milady di presentarmi milord il diavolo, cui non ho l’onore di conoscere, se costui deve essermi compagno di viaggio.

L’ostinazione di quest’uomo esasperò Lena, la quale aspettava a nove ore don Gabriele ed aveva ordinato la vettura, che doveva condurli a Castellamare. [p. 221 modifica]

Non c’erano ancora le strade ferrate nel felice regno di Napoli.

— Fatelo entrare, allora, sclamò dessa, e che la vettura aspetti alla porta.

Lena non s’era presa la briga di pettinarsi. Aveva arrotolate in una reticola le sue trecce, che le scendevano sulle spalle. Un denso velo verde coprivale il viso. Il resto dell’abbigliamento era alla grazia di Dio; ricoperta da un burnus algerino a righe bianche, nere ed oro.

Il cameriere introdusse lord Adam Tugmutton, chiuse la porta e si allontanò lentamente sorridendo e scuotendo il capo. Ma non aveva fatto dieci passi che udì un grande scoppio di riso della signorina Ondina, e cinque minuti dopo milord e madamigella braccio a braccio sempre ridendo e conversando a bassa voce discendevano la scala, montavano in vettura e milord diceva al cocchiere:

— Andate.

— Dove, eccellenza?

— Al diavolo.... a Castellamare.