Il sigillo d'amore/Lo spirito dentro la capanna
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LO SPIRITO DENTRO LA CAPANNA.
Spesso, durante le mie lunghe passeggiate estive, mi fermavo a riposare su un rialto dal quale si vedeva quasi tutta la pineta, fino al mare. In cima al rialto sorgeva una capanna di assi rinforzate e fermate da striscie di latta e da chiodi grossi come castagne: il tutto annerito come da un incendio. La capanna era sempre chiusa; anzi pareva non avesse neppure porta nè finestra: e fu appunto per questo che attirò la mia attenzione. Le girai intorno infantilmente, sul breve ripiano erboso che la circondava, e riuscii a scoprire le connessure di due finestrini ai lati, e i cardini della porta quasi invisibile: tesi l’orecchio e mi sembrò di sentire nell’interno un lieve strido, o meglio come un vagito lamentoso di bambino appena nato.
Ma stringendo subito i freni alla fantasia guardai meglio intorno e mi accorsi che il gemito veniva dal ramo di un pino, stroncato dal vento, che lentamente finiva di staccarsi dalla pianta. E sedetti lì accanto, sull’orlo del ripiano erboso, pensando che del resto anche gli alberi hanno i loro drammi, e che quel ramo agonizzante, giovane ancora, ancora carico dei suoi frutti di rame cesellato, soffriva fino a trovare un suono quasi di voce umana per esalare il suo dolore.
*
La pineta era molto frequentata: per le vene dei suoi sentieri come nelle strade di un paese passava continuamente gente. Oltre le comitive in gita di piacere, coi relativi cestini e le macchine fotografiche, passavano donne con carretti a mano colmi di sterpi, operai che lavoravano alle bonifiche di là dalla pineta, e ragazzi, ragazzi, ragazzi. Questi anzi parevano una popolazione fissa del luogo, e certo ne conoscevano tutti i meandri. I loro stridi si confondevano con quelli delle cornacchie grigie, e il tonfo delle pigne e dei sassi che le facevano cadere risonava continuo e regolare.
Fu ad uno di questi ragazzi che domandai che ci stava a fare sull’altura in vista al mare la capanna nera e chiusa come un sepolcro di selvaggi.
— C’era il guardiano, una volta, adesso ci sono gli spiriti, — gridò il ragazzo e corse via con una certa preoccupazione, come se io, con l’andare a riposarmi sull’orlo dell’altura, fossi già in relazione con gli abitanti della capanna.
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Dico la verità, questi spiriti, che abitano facilmente in molti posti, anche nei palazzi delle città e persino nei grandi alberghi, non mi riescono antipatici: quelli della capanna, poi, li ringraziavo di tenermi il luogo libero e pulito per le mie soste. Mi spiegavo adesso perchè i monelli della pineta non davano la scalata al rialto, e le comitive passavano al largo. Solo alcune colonie di formiche mi tenevano poco gradita compagnia; ma per allontanarle bastava buttare qualche pezzetto di pane che per il loro assalto diveniva subito nero come le more intorno. Un giorno però, mentre mi divertivo ad osservarle, vedo una donna con un mazzolino di fiori violetti, stretto stretto come usano farlo le contadine, salire l’altura e inginocchiarsi davanti alla porticina ermeticamente chiusa della capanna.
Lì comincia a farsi segni di croce, a battersi il petto col mazzolino, a pregare e sospirare Aveva una figura strana alta e magrissima, un viso dorato di zingara e pure di zingara due treccioline che le scappavano dal fazzoletto nero, con le cocche del quale ogni tanto ella si asciugava gli occhi: provai quindi nuovamente l’impressione che la capanna racchiudesse la tomba di qualche selvaggio.
Il più strano fu, poi, che la donna, finiti i suoi sospiri e le sue preghiere, deposto il mazzolino davanti alla porta, venne a sedersi poco discosto da me, e tratto da una tasca di sotto la larga sottana un involtino, cominciò a far merenda. E mangiava con gusto, piano piano, rosicchiando golosamente, come fanno i bambini quando non hanno molta fame, la sua pagnottina imbottita di prosciutto: per il piacere del pasto si colorì in viso e divenne bella. Quando ebbe finito scosse le briciole dalla veste, fece un batuffolo della carta dalla quale aveva tolto la merenda e se lo ricacciò in tasca; poi si volse a me, fissandomi coi suoi vivi occhi azzurri, e disse nel dialetto del paese:
— Adesso ci vorrebbe un bel bicchiere di acqua.
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Così senz’altro si fece conoscenza; e a me parve cosa gentile far sapere alla donna che poco distante dall’altura c’era una fontana.
Ella guardò subito verso il sentiero che conduceva alla fontana e il suo viso si rifece giallo e floscio: anche gli occhi ridenti si circondarono di rughe e parvero appassirsi come due fiori di genziana.
— Quante volte l’ho fatta, quella strada, — disse, e nascose il viso sul braccio per togliersi alla vista del sentiero e del luogo intorno.
Io m’alzai e mi avvicinai a lei: sentivo odore di dramma.
— Che cosa è successo in questa capanna? E perchè è chiusa? È vero che ci sono gli spiriti? E perchè....
La donna si rianimò subito; fece un gesto, sollevando e scuotendo lo mani, come per dirmi: troppe cose vuol sapere in una volta; ma poichè non domandava di meglio che di chiacchierare e sfogarsi, senza tanti preamboli cominciò:
— Qui, vede, ci ha lasciato la vita il mio povero marito. Sono poche parole, a dirle, queste; e sembrano niente; invece è una storia lunga che a raccontarla tutta ci vorrebbe un libro.
— Meglio, meglio, — l’incoraggio io, — raccontate pure.
— Allora le dirò proprio tutto. Forse la colpa è stata mia, ma l’ho scontata davvero come un debito. Dunque io a sedici anni avevo già marito: Giuliano, si chiamava, Giuliano il lungo, perchè era alto come quel pino lì, e per distinguerlo dal cugino Giuliano il corto. Questo Giuliano il corto era un ragazzo non troppo alto ma bello, svelto e bruno come uno scoiattolo. Faceva molti mestieri, persino l’orologiaio, ed era incaricato della sorveglianza della pineta. Siccome però lui di notte non poteva lasciare il paese, a sua volta aveva nominato guardiano mio marito. Gli fece costrurre questa capanna, e gli fissò un mensile buono. Questo ci faceva comodo, perchè Giuliano mio, il lungo, guadagnava poco. Ho dimenticato di dire che era stagnaio. Gira di qua, gira di là, ma le padelle di rame e i coperchi da stagnare erano pochi, e la gente usava già quelle brutte robe di ferro smaltato. Qualcuna anche di queste si bucava, ma non c’era da far nulla perchè sul ferro lo stagno non attacca. E così Giuliano veniva ogni notte qui: d’estate ci venivo anch’io, ma, dico la verità, avevo paura. Specialmente nelle notti di luna mi sembrava di sentire i ladri a segare i pini e trascinarne i rami. Ecco, pensavo, adesso Giuliano si alza, prende il fucile e se quelli non la smettono, li uccide. E rattenevo il fiato per non svegliarlo: poichè non volevo che egli si dannasse l’anima per un pino abbattuto. Meno male che egli dormiva.
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— Egli dormiva, — riprese la donna dopo un momento di silenzio durante il quale s’era di nuovo nascosta il viso sul braccio, — ma faceva brutti sogni, sospirava, s’agitava e parlava. Una notte si sollevò, anche, come uno spiritato: e diceva: sì, li sorprendo e li ammazzo tutti e due. Poi si svegliò e cominciò a stringermi. Tremava e batteva i denti come ci avesse la febbre. E finalmente mi disse che un male davvero ce l’aveva, e da molto tempo. Era geloso, ecco; geloso del cugino Giuliano; e credeva che questi venisse la notte a trovarmi. D’altra parte mi voleva così bene ed era tanto bonaccione che non aveva mai osato parlarmi dei suoi sospetti. Ebbene, dico io, allora verrò tutte le notti qui, e tu così sarai tranquillo. E per qualche tempo le cose andarono bene, ma col sopraggiungere del freddo lui stesso, il povero Giulianone, che sembrava guarito del suo male, mi pregò di restare a casa.
La mattina, però, lo vedevo tornare stravolto; girava qua e là per la stanza e pareva fiutasse le cose come un cane sospettoso. Brutto male la gelosia! Mi faceva pena, il povero Giuliano, ed io stessa gli consigliai di lasciar andare il suo mestiere notturno; egli però era puntiglioso anche con sè stesso e non mi diede retta.
Così tornò la bella stagione; e con la bella stagione il male della gelosia crebbe nel cuore di mio marito. Egli non aveva pace neppure nelle notti in cui io venivo a dormire qui con lui nella capanna. Io gli dicevo: sono le streghe della pineta, che ti hanno fatto qualche brutto incantesimo. E lui ci credeva; e pregava Dio come un bambino perchè lo liberasse dalla fattura. Una notte, poi, avvenne una cosa terribile. Era una notte di luglio, con la luna grande, ma faceva tanto caldo che a star dentro la capanna si soffocava. Io avevo una gran sete e chiesi a Giuliano, che già s’era coricato, se potevo andare a bere alla fontana: lui non rispose, non dimostrò alcun sospetto. Io vado, dunque: ci si vedeva come di giorno. E la disgrazia non mi fa incontrare alla fontana proprio Giuliano, il corto, il cugino di mio marito? Che male c’era in questo incontro? Lui, Giuliano il cugino, era il vero sorvegliante della pineta, e aveva il diritto e il dovere di venirci sempre che voleva. Ad ogni modo io lo scongiurai di andarsene: di andarsene subito. Avevamo finito appena di scambiare qualche parola quando un’ombra grande e nera apparve sotto i pini: io vedo ancora brillare come un occhio di fuoco, sento ancora un rimbombo come se mi spaccassero la testa con una scure, e vedo il piccolo Giuliano cadere lungo davanti a me con le braccia aperte come un ragazzo che corre stordito e inciampa e cade. Pazza di paura mi metto a correre ed a gridare:
— Hai ammazzato un cristiano: hai ammazzato il tuo fratello. — Perchè sapevo bene ch’era stato lui, mio marito, a sparare. Era stato lui, sì; l’ombra nera sotto il pino era lui. Quando mi sentì gridare parve ritornare in sè: non mi disse una parola, e neppure rispose alle invettive che io, rassicurata per conto mio, gli rivolsi piangendo. — Che hai fatto, gli dicevo, sciagurato che altro non sei? Adesso non ti resta che trascinare il cadavere fino al mare e buttarvelo con un macigno legato al collo. Altrimenti andrai in galera, per tutta la tua vita, come andrai all’inferno nell’altra.
Egli taceva; anzi chinava la testa e trascinava il fucile per terra come non avesse più neppure la forza di reggerlo: tornati quassù io mi buttai a sedere in questo punto preciso e continuai a piangere e lamentarmi. L’hai fatta la bevuta, stanotte, dicevo a me stessa; va là che l’hai fatta buona la bevuta, stanotte,
Giuliano non apre bocca; rientra nella capanna, chiude la porta, ed io non faccio a tempo ad alzarmi che sento di nuovo il rimbombo di uno sparo.
Egli si era ucciso.
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La donna tremava ancora, nel ricordare: io partecipavo alla sua pena, ma sentivo che la storia non era ancora finita. Ella infatti riprese:
— L’altro non era morto: neppure ferito. Nel sentire il rumore della fucilata, indovinando di che si trattava, s’era buttato per terra fingendo d’essere colpito. Ed io avevo contribuito a salvarlo con le mie grida. Due anni dopo ci siamo sposati: ed abbiamo avuto anche tre figli: ma il Signore, che tutto vedo e sa, ci ha castigato. I figli sono morti; uno dopo l’altro sono morti, quando già cominciavano a parlare. E lui, Giuliano il piccolo, ha un’artrite alle gambe che non gli permette di muoversi. Lavora ancora da orologiaio: e fra tanti orologi che accomoda, che camminano, che egli guarda e smonta e avvicina all’orecchio, ogni tanto non fa che dirmi:
— Rosa, guarda che ora è.
*
Così la storia pare finita davvero: io però non mi contento:
— Rosa, — dico alla donna, chiamandola anch’io per nome come una vecchia conoscenza; — ditemi tutta la verità. La gelosia del vostro povero primo marito aveva ragione d’essere, non è vero?
Ella tornò un’ultima volta a nascondersi il viso sul braccio, senza rispondere. E nel religioso silenzio del tramonto, in mezzo ai pini che ardevano sul ciclo rosso come grandi lorde festive, il gemito dell’albero stroncato pareva uscire dalla capanna; ed era forse davvero il lamento di uno spirito non ancora placato.