Il sigillo d'amore/Il figlio del toro
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IL FIGLIO DEL TORO.
Il toro aveva due anni e mezzo, e doveva essere venduto perchè, come a tutti quelli della sua razza, già la forza virile gli scoppiava in ferocia. Alto, ossuto, pareva scolpito a colpi di scure nel legno di qualche favoloso tronco di sandalo, e che sotto la pelle lucente gli scorresse fuoco: anche gli occhi erano velati di sangue e la coda si agitava come una cometa di malaugurio.
Solo il bifolco della masseria e la giovane moglie di lui, lo potevano avvicinare: la donna spiegava questa lusinghiera preferenza col dire che lo aveva curato lei, di una indisposizione, facendogli bere caffè caldo amaro; il padrone galante replicava però che lei era tanto bella da affascinare anche i tori andati in ferocia.
*
Per ordine del padrone, il bifolco partì dunque un giorno, per condurre il toro nella stalla di un mercante di bestie da macello. Ed era triste, l’uomo, perchè voleva bene al grande animale che lo seguiva docile come un cane al guinzaglio. Per non spaventare le donne e i bambini, percorrevano di buon passo le strade meno frequentate; ma quando in una di queste, che pareva una gola di montagna, tanto era incassata fra due siepi scure alte e fitte, con gli sfondi lontani azzurrini, apparve un piccolo tabernacolo ricoperto d’edera, l’uomo vi si fermò davanti, facendosi il segno della croce, e parve incantarsi come un bambino a guardare attraverso le sbarre del cancello. Vi si vedeva solo un piccolo altare e, sopra, sulla parete verdastra ed umida, tra fiori di carta che parevano strane farfalle morte, un quadro sbiadito dove un avanzo di San Cristoforo dava da mangiare ad un avanzo di cervo; eppure il bifolco aveva l’impressione di trovarsi davanti ad un bosco incantato, con le fontanelle d’oro dei lumicini accesi ai piedi dell’altare: poichè i migliori ricordi della sua vita svolazzavano là dentro come gli uccelli fra la siepe sovrastante.
Là era venuto la prima volta, bambino, con la nonna che lungo la strada gl’insegnava le preghiere in versi, dolci come ninne nanne; là aveva assistito lui la messa in suffragio del padre morto, là davanti aveva avuto il primo convegno d’amore con la moglie. Questa moglie era allora la più bella ragazza della contrada, e aveva preferito lui a tutti gli spasimanti che la corteggiavano nell’osteria campestre tenuta dal padre, dove i grossi mercanti di saggina e di frumentone venivano apposta per vedere lei, e vi sostavano bevendo fino ad ubbriacarsi in omaggio alla sua graziosa bellezza.
Ella aveva preferito a tutti il semplice bifolco della masseria accanto, brutto e anziano; e lui non se ne meravigliava. Sapeva di possedere una forza miracolosa che lo faceva amare anche dai malvagi e dai cani di guardia: quella di voler bene a tutti.
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Ed ecco, mentre egli sta incantato a guardare il suo San Cristoforo mutilato dal tempo, ed a chiacchierare con lui delle cose passate, il toro dà uno scossone alla catena e muggisce annoiato.
— Sì, è tempo di andare: e tu, piccolone, non sai dove vai.
Si rimise a camminare: ma un profondo peso dietro di lui lo fermò subito. Era l’animale che non voleva più muoversi: solo scuoteva la testa, come cercando di liberarsi dal collare che lo infastidiva. Un po’ di bava gli colava dalla bocca digrignante.
L’uomo lo guardò negli occhi e non tentò di trascinarlo oltre. Quegli occhi spaventati gli dicevano che la bestia si sentiva male.
Fu un male che si manifestò subito con violenza. Il toro muggì, con un lamento cupo che risonò nel grande silenzio del tramonto come il ruggito del leone nel deserto; poi vomitò; infine si piegò sulle zampe anteriori e parve inginocchiarsi davanti alla cappella.
L’uomo non si spaurì. — È una colica — pensava. La pietà per la bestia, e la sua impotenza ad aiutarla, cominciarono a turbarlo quando il toro invece di risollevarsi si abbattè del tutto e giacque pesante come morto.
Per fortuna passò in quel momento un ragazzo in bicicletta, diretto verso il paese dove risiedeva il veterinario.
— Se tu mi fai venir subito il veterinario ti regalo due scudi — gli gridò il bifolco, senza permettergli di fermarsi: e il ragazzo corse via come una lepre.
Ma le ore passavano e nessuno arrivava. Dopo il tramonto pallido scendeva una sera fresca e scura: in quel mistero, nel cerchio di funebre chiarore che usciva dalla cappella, col grande animale che ogni tanto si sollevava per muggire come invocando aiuto e poi ricadeva contorcendosi, il bifolco credeva di aver la febbre o di essere sotto l’opera di un cattivo incantesimo. Guardava di qua, guardava di là, verso gli sfondi della strada, e gli occhi nebbiosi dell’orizzonte gli sembravano quelli del toro morente.
— San Cristoforo caro — disse infine, parlando verso il tabernacolo con accento di rancore — da voi questo non l’aspettavo.
Subito brillò un lume volante, ed un grande ventaglio di splendore violetto parve sollevare di terra l’uomo e il toro. Anche l’interno della cappella rifulse fantastico come quello di una grotta marina.
Era l’automobile del veterinario.
— Questa bestia è stata avvelenata — disse l’uomo della scienza, appena ebbe guardato la bava del toro.
— Da chi? E perchè? — domandò il bifolco.
Ma il veterinario non era uomo di parole: tutt’al più rivolgeva qualche improperio alle bestie riottose che rifiutavano il medicamento. Questa però si mostrava docile: trangugiò la miscela che le fu versata per le fauci aperte, e si sottopose senza lamenti alle lavande posteriori.
Poi si alzò, col ventre gonfio, enorme, e quando cominciò a scaricarsi, davanti e di dietro, parve il monumento di una fontana mostruosa.
— Dio sia lodato, Dio sia lodato — mormorava il bifolco; e fra di sè pregava, ringraziando il Signore perchè la bestia era salva.
Ma quando il pericolo fu scongiurato, l’eco della sua domanda da chi e perchè era stato avvelenato il toro, gli risonò dentro con un muggito implorante, simile a quello della bestia straziata.
— Solo mia moglie poteva avvicinarsi alla mangiatoia — disse al veterinario, con un istinto di terrore.
Il veterinario disprezzava gli uomini, e sopratutto gli uomini semplici: quello lì, poi, lo irritava perchè gli pareva un campione deteriorato della razza umana.
— E sarà stata tua moglie, per farti passare la notte fuori di casa — disse, ripulendo e rimettendo a posto i suoi strumenti. E neppure cercò di stendere sulle sue parole il velo pietoso dell’ironia.
*
Ritornato nell’ombra, il bifolco palpò il toro tutto umido e freddo, e si sentì umido e freddo anche lui.
— E va bene, — esclamò. — E adesso dove andiamo?
Aveva in mente di tornare a casa e sorprendere la moglie infedele e ribalda; ma forse era già tardi e tutta la masseria avrebbe riso di lui vedendolo ritornare col toro in quello stato.
Andò dunque avanti, senza neppure salutare il suo San Cristoforo, che tuttavia, dal fondo del suo bosco notturno, lo seguiva col suo sguardo sbiadito. Andò avanti: la strada era molle di polvere e i passi suoi e quelli del toro vi destavano appena un fruscìo; per un grande tratto a lui parve però di trottare pesantemente, in un luogo aspro, roccioso: e aveva l’impressione di essere tutta una cosa con la bestia, destinati tutti e due a fermarsi nella stalla del macellaio per esservi massacrati.
*
La vita nella masseria continuò eguale, e della faccenda del toro non si sarebbe saputo niente senza la nota salata che il veterinario mandò al padrone. Il padrone pagò senza fare osservazioni; le coliche sono frequenti nel bestiame in viaggio, e quella del toro non doveva essere stata che una colica. Cominciava a crederlo anche il bifolco, quando la moglie gli annunziò che era incinta. Neppure questa sarebbe stata una cosa straordinaria, poichè la donna aveva già avuto un bambino, senza i fenomeni dolorosi che accompagnavano la gravidanza.
Il bifolco vedeva la moglie deperire e farsi brutta, piena di macchie livide in viso, col ventre sempre più gonfio come s’ella dovesse da un momento all’altro partorire. Infatti cominciò presto ad accusare forti dolori, e una notte si svegliò mugolando, con la bava alla bocca.
Il marito provò un senso di terrore e di pietà; gli pareva, nel dormiveglia, di trovarsi ancora davanti alla cappella campestre, col toro che domandava soccorso. Tutta la notte la donna spasimò, pronunziando nel delirio del patimento strane parole: supplicava il marito di ucciderla, e fissandolo con gli occhi spaventati e torbidi diceva:
— È giusto, è giusto: non intendi che è giusto?
Mezzo nudo, tremante di freddo e di angoscia, egli si stringeva al petto il bambino assonnato e piangente, e per soggezione e tenerezza di questo, non interrogava la donna; anzi aveva paura ch’ella parlasse troppo, e per confortarla e confortarsi diceva, anche lui come vaneggiando:
— Ce ne andremo, Cata, porta pazienza: per San Michele ce ne andremo.
Ella infatti spalancava gli occhi come un bambino malato al quale si promette un giocattolo nuovo; si assopiva un momento, poi ricominciava.
All’alba, quando le tacchine unirono i loro gridi esasperati a quelli di lei, venne la padrona vecchia. Al contrario del figlio, che dimostrava una grande preferenza per il bifolco e la moglie, e forse anche per la gelosia e il sospetto destati da questa preferenza, ella non amava troppo i suoi dipendenti: nascondeva però la sua antipatia, come del resto nascondeva ogni altro suo sentimento; e quando vide la donna accovacciata sul letto, con un viso di Medusa, le dita contratte dal dolore, non disse che poche parole:
— La creatura non è sola.
— Non ci mancherebbe che questo — mormorò allora il bifolco, amaro e disperato: poi per riguardo alla padrona e a sè stesso, aggiunse: — sia fatta la volontà di Dio.
Poichè le parole della vecchia massaia significavano che la donna doveva partorire due o forse anche tre gemelli.
— Non importa — diceva a sè stesso il bifolco, rassegnato e triste. — Saranno due, saranno tre, li alleveremo e insegneremo loro a lavorare. Basta andarsene. E tu, moglie, filerai dritta.
Oh, ella filava già dritta, tormentata giorno e notte dai suoi dolori terribili; una notte volle confessarsi, convinta che doveva morire.
La levatrice diceva ch’era finzione, o per lo meno suggestione.
— Tu devi aver sentito, forse anche in sogno, qualcuno urlare così e lo fai per vezzo. Siete tutte canaglia, voi donne incinte.
Ma quando nacque la creatura, anche lei si sentì presa in quel cerchio tragico di angoscia inumana, che stringeva la famiglia del bifolco.
Questi aspettava di fuori, con ansia dignitosa: aveva fatto preparare una grande cesta, nella previsione di un’abbondante raccolta di nascituri; quando sentì ch’era uno solo, si fece il segno della croce:
— Dio sia lodato. E aspettò che gli presentassero il bambino. Ma la levatrice e la padrona vecchia, che aveva voluto assistere al parto, non si facevano vedere. Egli tentò di spingere l’uscio e sentì la levatrice confortare la moglie che piangeva.
— Dopotutto è morto, e non lo diremo dal pulpito, che era così.
— Anche la Barbera, del resto, mia nipote Barbera, non ha fatto una bambina negra, perchè fissava sempre il quadro con la Regina Taitù? Per fortuna è morta anche quella. Muoiono sempre, per fortuna.
Questa era la voce, accompagnata da sospiri di sollievo, della padrona vecchia.
Il bifolco allora entrò con violenza, e senza parlare scoprì il corpo del bambino: e quando vide quel viso rossastro camuso e peloso, con due piccole corna sulla fronte, gli parve che non il peccato degli altri, ma il dolore suo e quello del toro, in quella notte indimenticabile, avessero generato il mostro.