Il sigillo d'amore/Cura dell'amore

Cura dell'amore

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Uccelli di nido Un pezzo di carne
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CURA DELL’AMORE.


Con l’arrivo del nuovo medico condotto si sparse nel paese la voce delle sue arditissime teorie scientifiche, alcune delle quali egli intendeva mettere in pratica immediatamente: fra le altre quella del dottore americano Betmann, sull’amore.

L’amore, secondo il Betmann, è una malattia come tutte le altre. Si nota, infatti, in essa, il periodo d’incubazione, l’ascesa, la crisi e la discesa. A volte, non curata in tempo, diventa cronica; e allora prende forme morbose d’idea fissa e di manìa, e può avere conseguenze funeste.

Si sa che il cranio dell’uomo è suddiviso in tanti scompartimenti o bernoccoli, entro ognuno dei quali si annida il seme delle nostre diverse tendenze: uno di questi bernoccoli è riserbato all’idea o tendenza dominante; che può essere l’ambizione, la religione, la criminalità: nelle [p. 86 modifica]donne, invariabilmente, è l’amore: spesso anche negli uomini. E quando questa idea degenera in malattia mentale basta un lieve atto operatorio per sradicarla.


*


Una sera dopo cena si parlava di tutte queste cose in casa del prevosto. E si rideva tanto, sopratutto per i commenti salaci dei gaudenti amici convenuti intorno alla mensa ben fornita, che qualcuno sentiva il bisogno di uscire nella vigna attigua per renderle il suo vino.

La vigna era in fiore, e il suo profumo indefinibile si fondeva col chiaro di luna come fosse questo a succhiarlo dalla vite e spanderlo nell’aria azzurra.

Anche la sorella del prevosto, a un certo punto, sentì bisogno di allontanarsi dall’allegra compagnia, e uscì nella vigna. Aveva riso anche lei, troppo aveva riso: adesso ne provava disgusto, quasi avesse anche lei bevuto come il fratello e i suoi compagnoni.

Non bisogna tradire la verità col dire che anche lei la sua brava parte di lambrusco non se l’era trincata: è necessario bere dopo aver mangiato egregiamente, e per mangiato, questo non è vergogna, avevano mangiato bene tutti. [p. 87 modifica]

Ella sentiva dunque quell'irritazione e quella melanconia feroce che prova anche il lupo quando col corpo gonfio dell’intero agnello divorato gira e non trova la fontana dove dissetarsi. Dov’era questa fontana? La donna ne sentiva la frescura nell’aria, e quel profumo che pareva venire dall’alto come l’odore dell’uva fragola del pergolato nelle sere d’autunno, accresceva la sua sete interna.

Andò fino alla siepe e guardò verso i campi grigi alla luna, tutti tranquilli e inanimati come disegni geometrici; qualche canale scintillava qua e là, ma non era acqua da bere, quella. Anche l’orizzonte si sprofondava vuoto, e su lutto quel paesaggio grasso ed eguale la luna piena guardava con viso materno.

La donna tornò indietro: vedeva la sua ombra rotonda sul viale erboso, e le pareva di essere così, grottesca e ridicola; non tanto di fuori come di dentro, con le sue inquietudini e le inutili fantasie. Ma durante la notte e il giorno dopo il suo malessere aumentò. Era una donna forte, verso i quaranta, che non aveva mai avuto bisogno del medico; anzi si piccava d’intendersi dei mali altrui e curava il fratello nelle sue frequenti indigestioni, e la vecchia serva che viveva con la loro famiglia da oltre mezzo secolo.

Adesso quell’agitazione nervosa, l’insonnia, gli incubi dopo, e la vertigine che la portò via in [p. 88 modifica]un turbine quando si piegò a pettinarsi i lunghi capelli neri, la impensieriscono: è l’età critica, o la minaccia dell’arteriosclerosi che il farmacista di malaugurio, reggente la condotta durante il concorso per il nuovo medico, ha gettato come una corona di spine sul capo del prevosto e dei suoi compagni di tavola?

Il prevosto si ride di questa minaccia, e lo dimostra sfidando il farmacista a bere e mangiare più di lui: fra i due è una gara pantagruelica, innocente del resto, che può condurre a una morte onorata. La donna però ha un vago senso di paura e si confida con la serva.

— Perchè non chiami il nuovo dottore? — dice la serva. — Dicono che l’è bravo come un Solone.


*


Il nuovo dottore è venuto. È un giovanottone alto, calvo, con un viso d’affamato, ma i suoi occhi sono belli, azzurri, un po’ tristi un po’ maliziosi. Ha sempre con sè una busta nera misteriosa, che attira la curiosità delle donne.

Nella sala da pranzo della parrocchia, che dà sulla vigna quieta, sta seduta rigida sul canapè di giunco la sorella del prevosto. Il suo viso, che ricorda quello di Minerva, è un po’ [p. 89 modifica]pallido sotto la corona delle trecce di bronzo: ma dal resto dell’aspetto florido non si giustificherebbe la visita medica. I suoi occhi sfuggono quelli del dottore, i quali occhi d’altronde, mentre egli le tasta il polso, sembrano occupati a spiare solo qualche dettaglio della persona di lei, come per esempio i piedi stranamente piccoli per una donna così formosa.

Il polso è normale; solo, al contatto di quelle dita d'uomo, il sangue si agita un poco, nel ramo della vena, come le foglie sul ramo dell'albero al passare del vento.

È un attimo. Ma basta perchè l’uomo della scienza senta di trovarsi davanti a una malata immaginaria, e lei di essersi già confessata.

— Mi dica cosa si sente — egli domanda, sedendosi davanti al canapè; in modo che i suoi lunghi piedi vanno a raggiungere quelli di lei che si ritraggono smarriti.

Ella abbassa la testa, ma sente lo sguardo di lui fastidioso come un riverbero che le danzi sul viso.

— Sono vertigini; e la notte o non dormo o faccio tali sogni che ho terrore di riaddormentarmi: e a volte mi sveglio con la parte destra del corpo come paralizzata.

— È da molto che sente questi fenomeni?

— Sì, da qualche tempo: questa notte, poi, peggio che mai.

Egli le rivolse alcune domande intime, alle [p. 90 modifica]quali ella rispose arrossendo: cosa che stabili già un senso di familiarità fra loro: e quello che doveva accadere accadde. Ella era una bella donna, con una pelle meravigliosa sotto la quale il sangue, nutrito di buoni cibi e di buon vino, scorreva troppo denso e quindi a volle si fermava come una folla festiva nelle vie strette. E il dottore la desiderò: spinto quindi da un senso più personale che professionale, le domandò se non aveva mai pensato a sposarsi.

Allora lei sollevò la testa, piano piano, e lo guardò in viso trascolorata, con due occhi d’animale preso al laccio.

— Il male è questo, — disse con voce rauca e lagrimosa. — Anni fa sono stata fidanzala, poi egli mi ha lasciato e non pensa più a me. Io invece non ho cessato un momento di pensare a lui, un giorno come l’altro, un anno come l’altro. Ho fatto di tutto, per dimenticare: mi dissero che bastava ingrassare e viver bene per scacciar via questa debolezza; invece è peggio, più si sta bene di corpo, più l’anima soffre. Non sono una stupida, e, creda, faccio di tutto per togliermi da quel pensiero; ma è come una mala radice sottoterra, che soffoca ogni al altra cosa. È infine un’idea fissa che a volte mi conduce fino alla riva del canale. Lei mi capisce: lei, dicono....

Si fermò accorgendosi ch’egli si scostava e arrossiva come sfiorato da una vampa. Capì [p. 91 modifica]confusamente di averlo offeso e tornò a reclinare la testa, disperatamente. Non c’era più scampo.


*


— C’è, c’è, lo scampo, — egli le disse un giorno, dopo che anche lui fu diventato un assiduo frequentatore della mensa parrocchiale, e seduti soli sul canapè di giunco aspettavano che sopraggiungesse il prevosto coi suoi amiconi. — Il farmacista ha sparso quelle voci sul conto mio perchè non voleva concorrenti: e voi donne guardate la mia busta nera come se dentro ci fossero davvero i ferri capaci di estrarre dalle vostre teste i pensieri d’amore. E, almeno riguardo a lei, dentro la mia busta c’è davvero un ferro buono a guarirla.

— Cos’è? — domanda lei, un po’ intimidita, un po’ accesa dal contatto premente di lui.

— È un chiodo, — egli le soffia all’orecchio; e scoppiano entrambi a ridere, con dentro gli occhi il riflesso delle stoviglie e delle coppe di cristallo della tavola apparecchiata. Poi fu silenzio. [p. 92 modifica]


*


Quella sera egli fu il più allegro compagnone della mensa: ci si sentiva oramai padrone; e il suo viso macerato dai mezzi digiuni di una giovinezza famelica, pareva quello di un Cristo risorto.

Anche il prevosto era allegro, di una sua muta allegria che ravvivava quella dei commensali come la luce delle lampade la letizia della mensa. La presenza alla sua tavola del giovine dottore lo rassicurava contro le sinistre profezie dell’altro: la corona di spine tornava ad essere di rose.

E in fondo alla sua gioia c'era qualche cosa di religioso; tanto che, quando l’allegria un po’ corrusca dei commensali minacciava di scoppiare malamente come le bottiglie a quei primi calori estivi, egli sollevava la coppa, la mostrava agli uni, la mostrava agli altri, con un segno di benedizione, poi la tracannava mormorando:

Pax vobiscum!

Tutti ridevano. E fra le discussioni e gli scherzi, e l’inchinarsi delle bottiglie, e il gioco dei piatti e il fantastico sparire delle vivande, gli sguardi del dottore e della donna s’incrociavano a volo, si prendevano e si lasciavano, come passeri sopra un albero carico di frutti. [p. 93 modifica]

Ma il punto massimo di quel miracolo che si chiama felicità fu raggiunto quando, per spegnere un’ultima discussione stridente fra due grossi mercanti di scope che per nascoste ragioni di concorrenza si sfogavano a distinguere i veri dai falsi lavoratori, il dottore disse:

— Siamo tutti lavoratori, tutti operai: solo i morti non lavorano.

— E non bevono, — disse qualcuno.

— Ma neppure passano male la notte, — disse qualche altro.

Allora il dottore prese la sua busta nera, e fra la curiosità di tutti ne trasse un fascicoletto che sfogliò leggendo fra sè e sè parole misteriose che v’erano scritte. Amore fanciullo. Notte. A Francesca. Il chiodo (sollevò rapido e malizioso le sopracciglia). L’aratro, ah, ecco, Canto di lavoratori ubbriaconi. D’improvviso la sua voce si alzò, come quella di un ragazzo che declama la sua lezione.

canto di lavoratori ubbriaconi.

A stento, navigando,
S’è attraversato il fiume nero della notte,
Con isole di sonno, zone agitate d’insonnia,
Scogli mostruosi di cattivi sogni:
E all’alba siamo approdati
Alle bianche rive del giorno,
Stanchi, sfiniti, ma pronti
A vivere, a lavorare, a trincare ancora.

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Tutti risero e applaudirono, sebbene non tutti avessero capito bene.

Il prevosto ordinò alla sorella di portare altre bottiglie per festeggiare il poeta: e pregato da tutti il poeta lesse altre poesie: alcune, come Amore fanciullo e L’aratro commossero l’uditorio fino alle lagrime.

Il prevosto ordinò altre bottiglie.

— Legga Il chiodo — pregò finalmente la donna sulle cui guance ardeva il riflesso delle ciliegie che rallegravano la tavola.

— Quella no: è un segreto professionale — egli disse: ma il suo sguardo iridescente promise alla donna di leggerle i versi quando sarebbero di nuovo soli.

E senza che il fratello glielo ordinasse ella portò a tavola altre bottiglie.

Ma durante la notte il prevosto si sentì male, e invece che alle «bianche rive del giorno» approdò al nero lido della morte.

E la donna pensò d’interrompere immediatamente la sua cura.