Il romanzo della fortuna/XIV
Questo testo è incompleto. |
◄ | XIII | XV | ► |
XIV.
Continuazione del precedente.
La visita al dottore non fu però perduta. In seguito al primo passo, dove la timidezza di Chiarina si era interamente piegata all’impulso del suo cuore generoso, ella ebbe ancora occasione di consultarlo a proposito della piccola martire. Purtroppo il dottore temeva che fosse tardi per salvarla; ma quell’altra che aspettava il suo turno dietro la sorella, quell’altra che apriva gli occhi smarriti nello stesso letto dove la morte già stava incavando gli occhi immensi della tisica, quella, quella!....
Procurando di lenire per quanto stava in lei l’agonia lentissima della Gigia, Chiarina rivolse la maggiore attività all’altra. Valendosi della sua pratica cogli infermi medicò subito la piaga che già aveva tocco il corpicciuolo della bimba e sui suggerimenti del medico si pose a preparare ella stessa i cibi opportuni per le due derelitte.
La madre lasciava fare, un po’ sospettosa in principio, ma vinta dalla dolcezza di Chiarina che prestavasi volontieri a passare per una fanatica. Stando poi fuori tutto il giorno, non sapeva nemmeno tutto ciò che Chiarina facesse per le due bimbe, e vedendo la Gigia che non accennava a migliorare borbottava nel suo bestiale cinismo: — Quante smanie inutili!
Il marito, che non era marito — e forse nemmeno padre — si disinteressava completamente delle bimbe. Tra lui e la sua compagna lavoravano e guadagnavano molto, ma dediti entrambi al bere si abbrutivano soffocando ogni sentimento.
Per accudire alle bimbe Chiarina non si concedeva più nemmeno un istante di riposo, quel riposo pur tanto caro alla sua anima sognante. Si dimenticava di sè, divisa come era tra il negozio e la casa. Nelle lunghe giornate ella trovò anche modo di portar fuori la piccolina che mediante un regolare esercizio potè riprendere l’uso delle gambe. E poichè la madre, frettolosa al mattino di abbandonare le sue creature, lasciava che macerassero nel letto, andava lei a vestirle e a preparare per la piccina una bevanda mista di orzo, di segale e di frumento che poi le lasciava per sostegno durante la giornata. La sua attività amorevole era sempre in cerca. Ella ornava di fiori nelle domeniche estive la finestra della tisica; le ridiceva qualche favola letta o udita quando era ella stessa una fanciulletta dalla bocca della signora, Firmiani. La povera Gigia, scarsa di parole e di sensazioni, aveva però nei grandi occhi un raggio nuovo, il solo dono che la vita doveva largirle nella pietà di Chiarina; e quando i fanciulli del vicinato irrompevano tumultuosi sulle scale e per le ringhiere, il fatto doloroso della sua solitudine e della sua impotenza le veniva ancora dalla compagnia di Chiarina addolcito e confortato.
Nell’agosto sopratutto, l’orribile agosto milanese, su quella ringhiera piena di polvere e di arsura dove nei tramonti afosi giungevano ondate di odori nauseabondi e i muri e le pietre scottavano fino al cader della notte e il bianco dei marmi nel sottoposto cortile accresceva l’impressione di squallore e di aridità, volgevano ben lente e triste le ore. Venisse dalle ortaglie concimate, dai ruscelli stagnanti nelle praterie, dal gazometro non molto lontano, da esalazioni di pellami e di assi delle fabbriche, il tanfo morboso misto all’atmosfera viziata che usciva da ogni camera, da ogni polmone di quel grande alveare umano, mozzava il respiro alla moribonda e riconduceva più che mai vivo nel pensiero di Chiarina il ricordo dei cari pioppi tremolanti nella vasta campagna.
I signori Firmiani — oh! il poco tempo che aveva per pensare ad essi — si trovavano ai monti. Mariuccia era venuta a salutarla in negozio prima di partire e le aveva promesso che al ritorno sarebbe andata a vederla in casa. Se però Chiarina si era lusingata di poter riprendere a Milano le abitudini di una volta, quando faceva vita insieme coi Firmiani doveva convenire che il disinganno non poteva essere più completo. Milano, tanto vagheggiata, le appariva adesso quale un abisso immane dove tutto si perdeva, dove non era possibile incontrarsi, dove la febbre della vita impediva le dolcezze stesse della vita.
Come era lontana via Gesù da quel bastione fra porta Ticinese e porta Genova dove ella conduceva a passeggiare un poco la sorella della Gigia! Volontieri ella sarebbe corsa in quelle lunghe domeniche d’agosto a rivedere il bel giardino prossimo a via Gesù; e se pure i signori Firmiani non c’erano, quale intimo e malinconico diletto ella avrebbe provato nel passare davanti alla piccola casa vecchiotta e signorile colla porta fronteggiata da una ghirlandetta di foglie e di frutti! Ma che avrebbe fatto la Gigia senza di lei per tante ore?
Il quindici del mese — la festa del Ferragosto. consacrata allo spasso fuori delle porte o nelle villeggiature più prossime — quasi nessuno restò in casa. L’alveare vide sciamare fin dal mattino tutte le sue pecchie con un gran frastuono di grida, di usci sbattuti, di ammonimenti, di rincorse su per le ringhiere, di ruzzolamenti giù per le scale, di esclamazioni e di richiami in tutti i dialetti d’Italia.
La famiglia di donne che affittava una camera al giovinotto lungo e magro vestito di nero era veneziana; il giovinotto emiliano; il dottore veniva da Crema; la madre delle due bimbe ammalate parlava coll’accento reciso e secco della region che si stende tra Varese e il lago Maggiore. Dal quarto piano dove più fitte si ammucchiavano le famiglie, una voce canora di napoletana gettò improvvisamente questa esclamazione «Una grande città Milano? ma se non c’è nemmeno la scarola!» — e buono per lei che la portinaia erbivendola (milanese autentica) stando nella botteguccia al basso non la potè udire.
La lavorante in maglie col marito e coi loro quattro diavoli vestili della festa erano partiti all’alba dando la sveglia a tutto il vicinato. La famiglia di un portiere che le stava accanto sulla stessa ringhiera era pure partita colla corsa delle dieci per Monza; quantunque il giorno prima avesse fatto sparire dalle camere gli arredi più vistosi, collocandoli presso un vicino compiacente in attesa della visita domiciliare che dovevano farle le Dame della carità per ottenere un soccorso. Partita, non se ne parla nemmeno, l’operaia in nastri col suo uomo. Partiti due muratori che abitavano una soffitta sotto il tetto. Partito il lavorante in marmi. Vuotata da cima a fondo la scala brulicante al di là del cortile...
— Vedete — disse Chiarina sorridendo alle due bimbe — ci hanno lasciate padrone della casa.
Giovanni che approfittava pure delle ferie per fare una scappata al paese aveva proposto a Chiarina di condurla seco e questa fu davvero una grande tentazione. In qual modo vi resistette non avrebbe potuto dirlo lei stessa tanto le forze della sua anima erano contatenate e ribadite in sottili avvolgimenti di passione e di dedizione. Certo aveva interrogato prima la madre, sperando che non avrebbe abbandonate anche quel giorno le sue creature. una delle quali stava per morire: ma avutone in risposta che anche a fermarsi in casa non mutavasi il destino, Chiarina comprese che Dio voleva affidarle quelle derelitte e accettò rassegnata la sua missione.
— Se non vai in paradiso tu — furono le parole pronunciate da Giovanni nell’accomiatarsi — deve essere un luogo difficile da popolare.
Mentre si curvava sul ballatoio per veder scendere suo fratello scorse di sfuggita una camicetta color di rosa che le parve appartenere alla Virginia e udì poi un gaio scoppiettar di parole che erano veramente di Virginia, ferma sul pianerottolo del secondo piano a discorrere col giovanotto suo vicino.
— Oh! che ridere, signor Walter che cosa dice! Ripeta, ripeta.
Chiarina si ritirò prudentemente, con quella sua costante preoccupazione di non far rumore, di scivolare sulla superficie della terra come se temesse di occuparvi troppo spazio: così ardita nelle grandi decisioni, così timida sempre e così impacciata nelle piccole cose.
— Fai come il baco che se ne sta rintanato a fare la seta per gli altri — le diceva Giovanni.
Rimase alfine sola colle due bambine abituate a considerarla più assai che la loro madre e che ella amava quasi di amor materno: la prima perchè aveva poco tempo da restare nel mondo, la seconda perchè l’aveva lei contesa alla morte e la contendeva ancora, vedendola con gioia rifiorire di giorno in giorno e riprendere forza. La chiamava il suo vaso di basilico: paragonandola con ciò a un vaso di basilico che ella era riuscita un tempo a salvare dalla siccità.
Per tenere allegra la piccina fece le cialde, lasciando che anch’essa si divertisse a manipolare la farina coll'illusione di aiutarla nella importante occupazione. E dopo che le ebbe servite ben cosparse di zucchero sopra un piatto a pagode chinesi bevettero, tutte e due, un dito di vino bianco moscato e si dichiararono soddisfattissime. La Gigia immobile nel lettuccio che non abbandonava più, assistette sorridendo senza prender parte al banchetto ma volle assaggiare una piccola cialda zuccherata e questo minimo fra i piaceri a lei che non ne conosceva alcuno parve grande.
Quando il calore intenso del meriggio venne scemando e che sul muro di fronte il riverbero del sole allontanandosi permise alla vista di spaziare oltre i tetti, Chiarina spalancò i vetri dell’inferma e si pose a giuocare colla piccina sulla ringhiera dalla quale si scorgevano le finestre chiuse, la scala deserta, il cortile abbandonato. Il dottore però non era partito come tutti gli altri: i suoi ammalati non glie lo avevano permesso, e per questo reduce dalle visite veniva al pari di Chiarina a cercare un po’ di fresco sulla ringhiera del secondo piano. Chiarina lo vedeva col giornale in mano e il sigaro in bocca a fare anche lui «il signore per un’ora».
— Come, dottore, lei pure in galera? Credevo di esserci io solo.
Il dottore volgendosi al giovinotto alto, magro, vestito di nero che gli aveva rivolta la parola, disse sorridendo:
— Invece ecco il socio. Non si è mai soli, creda, a fare quello che non si desidera.
— Se il mondo camminasse meglio e la società fosse meglio costituita, senza oppressori... — disse il giovanotto con accento cupo.
— ...E senza prepotenti — interruppe, bonario, il dottore.
— Senza tante leggi...
— ...E un po’ meno di vizi. Già, già, sarebbe un bel mondo! — concluse il dottore, schiacciando la punta del suo sigaro fra il pollice e l’indice. — Io per me dico sempre: beati i tempi barbari! Allora i tiranni avevano una testa sola e non era poi molto difficile farla cadere: ma quando il tiranno ne ha centomila, come si fa? Leggevo appunto gli ultimi dispacci che narrano lo sciopero di Torino. Non ci si capisce nulla. Il socialismo sarebbe forse una buona cosa senza i socialisti. Che ne dice!
— Nihil! Nihil! Nihil! — gridò l’altro.
Curvandosi sulla ringhiera Chiarina osservò per la prima volta il giovinotto vestito di nero. Aveva una faccia di un pallore terreo, la fronte larga solcata da rughe sottili e illuminata da due occhi cavernosi e ardenti, cinti di bistro. Le sue mani lunghe e magre disegnavano nel gestire scatti e fremiti di pantera. In fondo alla sua voce leggermente velata tremavano bramosie acute. Dopo di avere pronunciato con veemenza quelle tre parole che riuscirono incomprensibili a Chiarina si ritirò e il dottore fece lo stesso.
Per un paio d’ore il silenzio non fu interrotto che dalla tosse sottile della tisica; la piccina si era addormentata e Chiarina libera finalmente co’ suoi pensieri gustava la nota voluttà dei ricordi.
A poco a poco scendendo la notte i casigliani rientravano, riempiendo l’aria di grida, di risa, di qualche bestemmia, quasi tutti alticci, tranne i fanciulli che o dormivano in braccio alle madri o si facevano trascinare piagnuccolando. Chiarina stava per coricarsi quando si vide capitare in casa la Virginia disperata, colle vesti in disordine, la faccia contusa, una ferita alla tempia dalla quale colava il sangue a goccie a goccie sulla camicetta color di rosa. Ella aveva picchiato all’uscio di Chiarina supplicandola di aprire mentre un uomo la inseguiva su per le scale e per questo non voleva entrare nelle sue stanze.
— Solamente qualche minuto, tanto che se ne vada! — gemeva la ragazza.
Chiarina sbigottita per l’apparizione e per quel sangue fece sedere la sua antica compagna. tentando di calmarla e di recarle quel sollievo che stava in lei; timorosa d’altra parte del ritorno di Giovanni non riusciva a nascondere del tutto la sua inquietudine e andava ripetendo:
— Ma che cosa hai fatto? Di dove vieni?
Parole che ella pronunciava senza convinzione, intuendo che Virginia non le avrebbe mai detto nè di dove veniva nè perchè si era ridotta in quello stato. Virginia infatti taceva, comprimendo sulla ferita la pezzuola intrisa d’acqua applicatale da Chiarina e fissando la parete con occhio torvo.
— O Virginia — esclamò a un tratto Chiarina col cuore gonfio di compassione — perchè fai questa vita?
Siccome l’altra continuava a tacere, Chiarina le si fece da presso e cominciò ad accarezzarla lieve lieve sui ricci della fronte.
— Se continui in tal modo, Virginia, cadrai nell’infima delle miserie.
— La miseria — disse Virginia scattando in piedi — è il non avere abiti belli.
Ripresa in un attimo tutta la sua tracotanza, gettò per terra la fasciatura, diede una squassata ai ricci ed uscì lasciando Chiarina immobile nel mezzo della camera.